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Fondamenti meta-normativi della pena detentiva
Il postulato rieducativo espresso nel comma 3 Art. 27 Cost. è figlio del post-illuminismo ottocentesco, in tanto in quanto, nei secoli precedenti, non era predisposta alcuna attività trattamentale e pedagogica sistematica e la privazione della libertà personale era ben lontana dalle attuali garanzie giuridiche espresse, nel caso dell’ Italia, negli attuali Artt. 13, 24 o 111 Cost. . La “galera“ europea, prima della fine del XVIII Secolo, conteneva prigionieri politici arbitrariamente detenuti in celle segrete. Era normale le tortura, unita a pesanti pene corporali, che poi sfociavano, in molti casi, nell’ esecuzione di una pena di morte pubblica, macabra e dolorosa. In confronto alla sazione detentiva di tipo intra-murario, sembravano un nulla le condanne al bando o ai remi, l’ esposizione alla gogna o l’ espropriazione totale dei beni personali e familiari. Persino sotto il profilo del Diritto Processuale Penale, non esisteva neppure la ratio del giusto Processo ed era molto rara la disponibilità di una difesa tecnica. I traguardi delle Carte Costituzionali novecentesche hanno segnato quell’ importante spartiacque che ha recato alla CEDU nonché alle Regole penitenziarie europee.
Secondo Garland ( 1999 ) l’ esplosione cinquecentesca delle società mercantili e, successivamente, di quelle industriali ha “ generato mutamenti [ nella carcerazione ] e tali cambiamenti sono avvenuti in relazione ai nuovi modi di produzione economica. Infatti, ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti di produzione “. In buona sostanza, rieducare il deviante in un tessuto collettivo eminentemente commerciale significa abituare al lavoro colui che, con le proprie condotte anti-giuridiche, ha infranto il pacifico ordine costituito della vita lavorativa. Se il cittadino medio era / è un lavoratore, in egual misura il recluso deve esprimere il proprio potenziale lavorativo, mentre, nelle società rurali pregresse, risultava ben più difficile rieducare in un contesto agricolo, fattualmente e fisicamente incompatibile e non riproducibile durante la restrizione dentro una piccola cella o in un padiglione collettivo. Anche gli ultra-progressisti Rusche & Kirchheimer ( 1978 ), pur confondendo eccessivamente il Diritto con le ideologie politiche, reputano che “ durante le fasi storiche in cui la manodopera è abbondante, la politica penale può assumere forme quali le pene corporali o capitali e, invece, nei periodi di scarsità di manodopera, le istituzioni penali sono molto più attente a non disperdere il valore delle risorse lavorative degli individui sottopposti a condanna“. In realtà, Rusche & Kirchheimer ( ibidem ), a parere di chi redige, ideologizzano oltremodo i concetti di manodopera e lavoro. P.e., l’ età medioevale rurale non recava alcun disprezzo nei confronti delle occupazioni lavorative intra-murarie, bensì, più semplicemente, venivano applicati altri diversi criteri non mercantilistici, come ad esempio il trattamento riabilitativo spirituale, ispirato alla “cella” ed alle “ penitenze “ (ri)educatrici della vita monastica. Economicizzare l’ intera esecuzione carceraria è fuorviante e non spiegherebbe, del resto, attività trattamentali contemporanee non remunerabili come lo studio, il giornalismo o la creazione di gruppi interni legati ad Onlus. E’ ipertrofico l’ asserto dei predetti due Dottrinari tedeschi secondo cui il carcere moderno deriverebbe completamente da “ finalità economiche di procacciamento di manodopera coatta contro una popolazione contadina che non ha dimistichezza con il lavoro in fabbrica “. Basti pensare, a tal proposito, alla deportazione di reclusi nelle nuove colonie britanniche o francesi del Settecento. Tale diversificazione trattamentale possedeva anche la finalità di un’ espansione nazional-demografica senza fini di lucro. Oppure ancora, si pensi ai rematori “galeotti “ trasformati in gruppi di civilizzazione nelle terre americane. Anche in questo caso, l’ economia ed il lavoro non costituiscono il caposaldo principale della reclusione. Purtroppo, certune ipertrofie esegetiche filo-marxiste hanno inficiato l’ idealità di fondo della vita penitenziaria in Europa. Essa non era soltanto “ uno strumento di controllo delle classi pericolose ed uno strumento di contenimento delle masse disoccupate prodotte dai rapidi processi di inurbamento e di sviluppo industriale “ ( Foucault, 1976 ). La Letteratura criminologica degli Anni Sessanta del Novecento non tiene debitamente in conto il notevole apporto della Civiltà cristiana nella formazione della prassi penitenziaria. Il Cristianesimo medioevale non è stato né oscurantista né privo di pietà umana. Il detenuto o, perlomeno, i detenuti con una fine pena non indeterminata erano abituati, prima dell’ industrializzazione dei mercati occidentali, a rivivere le penitenze della vita religiosa, ma siffata impostazione moralizzante non impediva un percorso pedagogico, pur se tale cristocentrismo etico appare oggi troppo rigoroso alla luce del materialismo laico contemporaneo.
Malaugurevolmente, nella Criminologia europea della fine del Novecento, molti Dottrinari, italiani e non, hanno distorto la ratio della riabilitazione carceraria nel nome di questa o quella ideologia politica alla moda. Melossi & Pavarini ( 1977 ), retoricamente e populisticamente, affermano che, dopo la rivoluzione industriale, il lavoro intramurario dei carcerati “ serviva per creare un consenso generalizzato delle classi abbienti sulla necessità di una riforma penale non finalizzata esclusivamente a contenere la criminalità, ma anche come via d’ uscita alla crisi sociale di un’ intera epoca [ per arrivare a ] rinsaldare, su nuove basi, l’ ordine sociale “. Francamente, è ardito o, financo estremistico connettere le nuove tendenze della pedagogia penitenziaria ad un presunto “ ordine nuovo “ legato a tensioni sociali presenti nella collettività esterna. La Macroeconomia industriale forse ha influenzato la nozione di lavoro, ma tale passaggio dalla civiltà rurale al commercio sistematico non ha stravolto l’ originaria funzione espiativa e contenitiva della sanzione penale. Foucault ( ibidem ) manifesta maggiore equilibrio ed evita di politicizzare la Storia del Diritto Penitenziario. Il testé citato Autore francofono sottolinea che, tra il 1750 ed il 1820, nell’ Occidente europeo e nord-americano, è stato via via abbandonato un concetto di Diritto Penale che era l’ epifania del potere assoluto del Re o, comunque, dello Stato.
Entro tale contesto semi-dittatoriale, incarcerare, punire e condannare a morte, nelle pubbliche piazze, significava, anzitutto e soprattutto, dimostrare la stabilità ben solida del potere sui sudditi, nei quali la disumanità dolorosa delle sanzioni generava un discreto effetto general-preventivo. Torturare, picchiare ed uccidere il recluso ripristinava la natura sacra della potestà d’ imperio totale posseduta dall’ Autorità costituita. Tuttavia, verso la seconda metà del Settecento, Cesare Beccaria e, con lui, Voltaire e molti altri Dottrinari più o meno anonimi, iniziarono a contestare l’ assolutizzazione del Principio di Sovranità, nel senso che le Istituzioni pubbliche, compreso il carcere, non possono e non debbono sacralizzare il loro potere ed espanderlo sino a conculcare la dignità umana del condannato. Parallelamente, la Giuspenalistica doveva essere trasformata in una tecnica giuridica munita di regole certe, non retroattive e non mescolate ad intenti di pura e crudele vendetta sociale.
Ma l’ autentica novità epocale è consistita, tra il XVIII ed il XIX Secolo, nella ricerca di enti alternativi al carcere, ovverosia “ si era sviluppata una molteplicità di istituzioni disciplinari che erano una serie di modelli segregativi diversi dal carcere ( l’ ospedale, l’ opificio, la scuola, la caserma, il convento ). Essi erano improntati ad una logica, più che punitiva, correzionale, [ … ] in queste istituzioni si esercitava un potere disciplinare che mirava ad addestrare il detenuto ad una vita onesta “ ( Di Lazzaro & Pavarini, 1994 ). Altrettanto da non sottovalutare è la nuova edilizia penitenziaria “ panottica “ fondata da Jeremy Bentham nel 1791. Nel “carcere panottico“, l’ agente di custodia reca piena padronanza visiva su tutte le celle ed i detenuti sono costantemente sorvegliati, per garantire l’ applicazione effettiva delle regole correzionali.
Senza dubbio, non si tratta di una simpatica mitigazione trattamentale, ma, almeno, Bentham si affranca da un concetto segregativo che impone dolore senza alcuna teleologia pedagogica, pur se tale pedagogia custodialistica era ancora eccessiva e pressoché puerile. Grazie alle riforme ottocentesche, è nato pure un nuovo concetto di crimine, nel senso che il carcere ed il Diritto Penale non costituiscono la soluzione retribuzionistica a qualsivoglia devianza anti-sociale ancorché non anti-giuridica. Giustamente, a tal proposito, Dubbini ( 1986 ) precisa che “ bisogna percepire il problema della criminalità non come una questione politica e sociale, ma come un tema di difesa dell’ ordine pubblico nei confronti di una ridotta categoria di individui socialmente pericolosi “. Il carcere non è più il migliore aiutante del despota di turno, desideroso di neutralizzare i propri nemici e la legalità diviene la base ordinaria senza la quale l’ incarcerazione non è legittima.
L’ opinione pubblica italiana e, più latamente, quella europea dopo una settantina d’ anni di Democrazia e di Garantismo costituzionale, sta dimenticando il grande valore tecnico-sociologico della presunzione d’ innocenza sino a Sentenza di condanna passata in giudicato. Tutti gli Autori della Criminologia del Novecento hanno rimarcato l’ importanza di pratiche trattamentali “ che non siano più indifferenti rispetto alla sofferenza dei condannati “ ( Spierenburg, 1997 ). Ovverosia, la tecnica giuridica e la nascente ratio della rieducazione lavorativa o scolastica, tre secoli fa, avevano soppiantato le opinioni iper-custodialiste e giustizialiste “ di una società come quella esistente in Europa tra il XVI ed il XVII Secolo, caratterizzata da un basso livello di sicurezza pubblica e dalla persistenza del codice d’ onore cavalleresco, che concepisce l’ uso della violenza come uno strumento normale di regolazione delle relazioni sociali “ ( Spierenburg, ibidem ). Non v’ è dubbio che l’ esecuzione penitenziaria contemporanea non è né tenue né paradisiaca, ma, a partire dalla nuova cultura industriale dell’ Ottocento, la pena detentiva è stata smaterializzata e la sola fonte di sofferenza è costituita dalla rinchiusione forzata in spazi che limitano la libertà di movimento, poiché “ la privazione della libertà sembra essere [ essa sola ] compatibile con la nuova sensibilità pubblica relativa alla violenza che lo Stato può legittimamente esercitare verso coloro che hanno trasgredito le sue leggi più importanti “ ( Stone, 1981 )
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L’ Abolizionismo, il Riduzionismo e le altre diverse tendenze criminologiche
Le Teorie criminologiche sulla pena detentiva si pongono, anzitutto, la domanda relativa alla ratio del carcere, contenitivo, neutralizzativo o riabilitativo che esso sia. Ciononostante, dopo la seconda guerra mondiale, l’ Abolizionismo scandinavo ha iniziato a mettere in dubbio la legittimità ontologica della vita carceraria. Sino ad allora, infatti, era data per scontata la potestà statuale di incarcerare coloro che pongono in essere gravi devianze penalmente rilevanti, ma l’ Antropologia giuridica non si era mai interrogata seriamete sulla sofferenza, legittima o meno, derivante dalla privazione della libertà personale. Inoltre, nel mondo accademico norvegese, Christie negava in maniera radicale l’ utilità di qualsivoglia sanzione pubblica, mentre Mathiesen e gli altri Riduzionisti cercano di giustificare strutture alternative ai penitenziari, senza però delegittimare fino in fondo un minimo di retributività nel Diritto Penale e nella prassi trattamentale e correzionale. Putroppo, nel contesto dottrinario italiano, anche negli Anni Duemila prevale una Giuspenalistica ancorata alle vecchie tradizioni della punitività otto-/nove-centesca, fatta eccezione per pochi Autori vergognosamente emarginati e reputati alla stregua di sognatori anticonformisti ed eccentrici.
Giustamente, Cattaneo ( 1990 ) afferma che le tesi giustificazionistiche si suddividono, a loro volta, nel giustificazionismo assoluto e, dall’ altro lato, nel giustificazionismo relativo. E’ assolutamente giustificazionista chi reputa che il carcere sia una legittima risposta al crimine fondata sulla specialpreventività e sull’ annichilimento dell’ infrattore socialmente pericoloso, o almeno presunto tale. Viceversa, è relativamente giustificazionista la Criminologia fondata sulla generalpreventività e sulla riabilitazione, nel senso che ogni privazione della libertà personale deve, più che altro, costituire un severo ammonimento esemplare che favorisca la deterrenza nei confronti dell’ intera comunità dei consociati. Detto con lemmi sociologici, “ le teorie [ giustificazioniste ] assolute considerano la pena come fine a se stessa, mentre le teorie relative considerano la pena giustificabile in quanto essa possieda una finalità socialmente positiva [ e preventiva / dissuasiva ]” ( Cattaneo, ibidem ).
Negli USA, come ben illustrato nell’ Opera di Amato Mangiameli ( 1985 ), attualmente prevale il Retribuzionismo, il quale nega qualsivoglia forma di contestualizzazione morale e personale dell’ illecito penale. Dunque, chi delinque è , sempre e in ogni fattispecie giudicata, un nemico della società e va sottoposto a sofferenze detentive, per impedire un nocumento allo Stato, che, seppur implicitamente, è reputato padre, padrone persino Ente moralizzatore supremo, che giuridifica, attraverso il Diritto Penale, anche le più bagatellari infrazioni e persino le devianze anti-sociali ancorché non anti-giuridiche.
L’ Ordinamento è un Leviatano che reclude e annienta chiunque infrange la pace sociale, indipendentemente dall’ interpretazione dei condizionamenti umani, abitativi, familiari, personali, educativi o caratteriali. Con una ben sortita e sintetica espressione, Amato Mangiameli ( ibidem ) sottolinea che, agli occhi di un tipico noe-retribuzionista statunitense di oggi “ è giusto e doveroso retribuire il male con il male “, comminando, tra l’ altro, sanzioni detentive caratterizzate da una lunga durata e dalla totale assenza di benefici semi-murari. In realtà, il Retribuzionismo è nato, un secolo prima, dalle Teorie di Kant e di Hegel e, per la verità, la retribuzione rigoristica ha influenzato pure le pseudo-criminologie del nazismo novecentesco, con la devastante conseguenza di una ripugnante divinizzazione Stato-centrica della Pubblica Amministrazione. A tal proposito, D’ Agostino ( 1989 ) parla del retribuzionismo sottolineando “ la doverosità morale della pena, per ristabilire l’ ordine che il reato ha violato, [ … ] al di là di ogni considerazione pratica sull’ utilità della pena “. Trattasi, a parere di chi scrive, dell’ anticamera concettuale delle dittature nazionalsocialiste e, parimenti, sovietiche. Inoltre, molti hanno evidenziato che il Retribuzionismo ed il neo-Retribuzionismo manifestano uno scarso interesse nei confronti della ratio della proporzionalità cronologica della pena e, per tal via, il carcere si trasforma in un contenitore qualunquista ed indefinito di rifiuti sociali senza distinzione qualitativa alcuna.
Anche dal punto di vista dell’ eguaglianza democratico-sociale ( Art. 3 Cost., nel caso dell’ Italia ), il condannato ha diritto ad un minimo di personalizzazione del proprio percorso (ri)educativo, mentre i retribuzionisti negano, più o meno palesemente, la natura ( anche ) pedagogica della detenzione. La sanzione criminale va personalizzata pure alla luce della CEDU e delle Regole penitenziarie europee, soprattutto nel delicato ambito del Diritto Penale minorile, con le sue mille varianti eziologiche del reato.
Buona parte delle Teorie criminologiche sul carcere, soprattutto in Italia, non manifestano posizioni estreme come l’ Abolizionismo scandinavo od il neo-Retribuzionismo. Viceversa, sulla scia di Pufendorf, la maggior parte dei Dottrinari contemporanei è di stampo utilitarista, ovverosia l’ istituzione carceraria è più o meno accettata con favore a seconda degli effetti altrettanto più o meno positivi sul tessuto sociale. In particolar modo, l’ esecuzione penitenziaria è oggi associata all’ effetto preventivo che, a sua volta, si traduce nella prevenzione generale e/o in quella speciale.
La general-preventività consiste nell’ impedire volontà e progetti criminogeni grazie a delle condanne esemplari, tali da demotivare potenziali gruppi, organizzati o no, di devianti anti-normativi. La special-preventività, invece, applica la deterrenza al singolo recluso, il quale, dopo aver esperimentato la sofferenza della restrizione, dovrebbe, quantomeno in linea teorica, essere meno propenso alla recidiva, anche se, come dimostrato nel caso nord-americano, la prevenzione è addirittura e paradossalmente azzerata nella fattispecie di un Ordinamento che disponga sanzioni intra-murarie di lungo periodo e/o la possibilità di comminare financo la pena di morte. A sua volta, la special-preventività sottolinea, a seconda degli Autori, alcuni singoli profili ben precisi, ovverosia l’ aspetto pedagogico, quello della difesa sociale e, infine, quello della personalizzazione del trattamento.
Nel caso del comma 3 Art. 27 Cost. italiana ( v. anche l’ Art. 75 schwStGB nella Confederazione elvetica ), prevale la ratio della rieducazione del condannato e tale regola generale, che è prevalente in tutta Europa, si ispira al Magistero cristiano, grazie al quale, da ben duemila anni, non viene mai negata la recuperabilità morale e caratteriale del condannato, al quale viene concessa la possibilità di correggersi attraverso le sofferenze (ri)abilitative derivanti dalla privazione della libertà personale.
Per tal via, il dolore, nei modelli di esecuzione penitenziaria europea, è anche causa di (auto)modificazione e di preparazione ad una nuova vita onesta e laboriosa. Viceversa, Ancel ( 1966 ) asserisce che la priorità della sanzione criminale è la “ difesa sociale “ contro i devianti, in tanto in quanto “ il presupposto antropologico è che il delinquente è un essere naturalisticamente inferiore, perché egli è portatore di deviazioni genetiche o di degenerazioni socio-culturali “. Pertanto, l’ unica special-preventività possibile, di stampo decisamente lombrosiano, consta nel trattenere il deviante, il più a lungo possibile, in un carcere che lo spersonalizza, sino ad azzerare l’ eventuale pericolo per la società. Ancel ( ibidem ) si colloca completamente al di fuori della tradizione umanistica del Diritto Penitenziario post-settecentesco.
La Dottrina della difesa sociale neutralizza, come nel caso emblematico nonché fallimentare degli USA, conculcando i normali Principi del rispetto e della tutela della dignità del detenuto. Il sommesso parere di chi redige è che tale animalesca “ zero tolerance “ vada respinta con vigore, giacché non esiste alcun condannato o internato irrecuperabile. La Pedagogia deve prevalere sugli istinti vendicativi del populismo politico e giornalistico. In terzo luogo, la New Penology nord-americana ha elaborato, all’ inizio degli Anni Duemila, la ratio miscellanea della differenziazione trattamentale. Ovverosia, la rieducazione, in linea generale, è ammissibile, ma esistono situazioni specifiche nelle quali alcuni singoli rei vanno neutralizzati, in tanto in quanto non sarebbe possibile applicare alcuna forma di recupero pedagogico. Basti pensare all’ orribile ed anti-democratico Art. 123a BV in Svizzera, precettivo per i detenuti sessuomani o pedofili internabili a vita. Si tratta di una grande sconfitta culturale non soltanto per la Confederazione, ma anche per l’ intera civiltà giuridica europea, poiché la New Penology ammette l’ assurda esistenza di delinquenti disumanamente ed irrazionalmente classificati come non rieducabili. Esistono, poi, non pochi sostenitori della special-preventività, i quali, in un contesto di iper-medicalizzazione del recluso, sostengono che il reo non è mai personalmente responsabile, a causa di sempre prevalenti tare mentali congenite e/o di condizionamenti criminogeni familiari, sociali o abitativi.
A questo proposito, Ferajoli (1989) commentava che, in molti Ordinamenti giuridici, “ il carcere non viene concepito quale misura giuridica di sanzione dei reati, ma come uno strumento di trattamento differenziato del condannato, attraverso cui giungere alla trasformazione [ medicalizzata ] o alla neutralizzazione della sua personalità e, in particolare, della sua pericolosità sociale “. Altri esponenti della Criminologia contemporanea ammettono una special-preventività debole o insufficiente, nella misura in cui la rieducazione reca sovente all’ effetto, contrario e non preventivato, della recidiva. Il carcere, putroppo, aumenta la rabbia interiore e la sanzione criminale, tranne nel caso dei minorenni, raramente svolge un effetto benefico su personalità adulte e già formate, che non possono o, più semplicemente, non vogliono interiorizzare la propria esecuzione penitenziaria. Il condannato non è un bambino cattivo messo in castigo. Egli, anzi, nella maggior parte dei casi, resiste volontariamente e vigorosamente alle imposizioni educative esterne, perché valori come quelli di cui al comma 3 Art. 27 Cost. non possono modificare l’ intimità profonda ed interiore dell’ essere umano, che rimane assolutamente libero di auto-determinarsi anche all’ interno di una cella e di un penitenziario. Nulla s’ impone ad una coscienza ormai adulta e psicologicamente sana.
Anche la general-preventività si suddivide, nella Giuspenalistica occidentale, in una variante positiva ed in una negativa. La prevenzione generale positiva postula che il carcere costituisce una minaccia collettiva che genera una maggiore coesione sociale, stimola il senso civico e rafforza, o, almeno, dovrebbe rafforzare, la lealtà dei cittadini e dei residenti nei confronti dell’ Ordine costituito.
Viceversa, la general-preventività negativa si fonda sulla minaccia della reclusione, la quale è un deterrente che toglie dalla società pulsioni eversive o, più semplicemente, criminogene. Anzi, Kant conferiva un ruolo di prevenzione generale negativa addirittura alla reclusione dell’ innocente, percepita come la manifestazione esemplare del potere assoluto ed incontrastato della Magistratura, alla quale, in un’ ottica Stato-centrica, non può essere posto alcun limite qualora la finalità perseguita sia il rafforzamento moralizzatore del potere pubblico. Ciò premesso, l’ incarcerazione non ha senso e non risponde per nulla al Principio della rieducazione, ma, disumanamente nonché dittatorialmente, “ il carcere ( peraltro minacciato più che realmente eseguito ) ancor’ oggi sembra rispondere soprattutto alle esigenze del sistema politico di rassicurare l’ opinione pubblica rispetto agli attacchi portati alla sicurezza sociale dalla criminalità “ ( Durkheim, 1997 ). Coloro che assolutizzano il Potere Giurisdizionale distorcono e strumentalizzano l’ autentica ragionevolezza della pena detentiva, che diviene una preziosa via per ipostatizzare la potestà statuale sui consociati, sudditi e servi di un Ordinamento divinizzato nei confronti del quale è impedita qualsivoglia manifestazione di resistenza democratica, il che ricorda il modello del regime sovietico, in cui le decisioni dell’ apparato burocratico pubblico erano insindacabili ed ammantate di una laica sacralità suprema.
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Riflessioni sulla prassi trattamentale in carcere
Christie ( 1996 ) ha recato il coraggio dottrinario di affermare, solo contro tutti, il non-senso del carcere. Infatti, il fondatore dell’ Abolizionismo norvegese sottolinea, giustamente, che “ si è instaurato un vero e proprio sistema di business penitenziario, rispetto al quale il detenuto diventa il consumatore del servizio di detenzione [ … ] . Si è snaturato il ruolo degli operatori penitenziari, che da pubblici funzionari si sono trasformati in dipendenti che rispondono al proprio datore di lavoro privato [ … ]. In particolare, sembra di scorgere in tale processo la tendenza a considerare sempre di più la prigione come una struttura di mero contenimento delle persone che hanno commesso reati e che rappresentano un pericolo ed un peso per la società. Si tratta di una popolazione carceraria composta da soggetti emarginati, socialmente e culturalmente di particolari provenienze etniche [ … ], inadatti ad un mercato del lavoro sempre più flessibile e, quindi, esigente in termini di capacità di adattamento lavorativo e di assorbimento dello stress da licenziamento “.
Putroppo, nel contesto criminologico italiano, la Dottrina è solita pronunciare un serio e motivato j’ accuse afferente alla scarsa qualità della vita detentiva, ma manca lo slancio sistematicamente e radicalmente innovatore di Christie, Mathiesen e degli altri Abolizionisti della Scandinavia. Da ricordare, tuttavia, è l’ Opera di Zolo & Santoro ( 1997 ), i quali reputano, in Italia, come totalmente violato il comma 3 Art. 27 Cost., specialmente in tema di lavoro penitenziario extra-/semi-murario, tutela dei ( troppi ) reclusi stranieri, diritti delle donne ristrette e prevenzione delle malattie infettive. Del resto, la Riforma Margara del 1975 ( L. 354/75 ) non è stata compiutamente realizzata e non lo sarà mai sino a quando, nella prassi trattamentale italiana, si continueranno a definire “ lavoro “ corsi di pittura su ceramica o altrettanto assurdi tirocini intra-murari per l’ assemblaggio di bambole di pezza. Nell’ ultima trentina d’ anni, i reclusi nelle carceri italiane si distinguono in giovani detenuti condannati a pene di breve durata e, dal lato opposto, ristretti ultra-40enni ormai privi di legami familiari e lavorativi. Siffata seconda categoria, composta per lo più da pluripregiudicati recidivi, vive “ in una situazione che innesca un processo di etichettamento sociale fondato sullo stigma dell’ ex detenuto, che pone seri vincoli ( per non dire una quasi impossibilità ) al processo di reinserimento sociale [ … ] La condizione carceraria diviene una sindrome dell’ esclusione finale “ ( Berzano, 1994 ). Tale emarginazione colpisce soprattutto i detenuti stranieri, che, in Italia, erano, nel 1987, il 10,7 % della popolazione carceraria, poi il 22,3 % nel 1997 e, negli Anni Duemila, oltre il 40 %. P.e., lo straniero ristretto non può beneficiare di un Patrocinio altamente o, perlomeno, discretamente qualificato, ed il Patrocinio Gratuito non offre per niente le grandi potenzialità promesse, de jure condendo, una quindicina d’ anni fa. Si ponga mente pure al fatto che l’ extra-comunitario non ha una rete familiare cui appoggiarsi durante la fruizione degli eventuali benefici extra-murari. Inoltre, lo straniero contemporaneo di religione islamica potrebbe radicalizzarsi ed il controllo dei predicatori mussulmani in carcere è sovente impedito dalle false buone maniere del presunto dialogo politicamente corretto.
Dal punto di vista meramente teorico, dovrebbe essere precettiva una ratio di equipollenza tra le cure sanitarie carcerarie e quelle erogate all’ esterno, ma si tratta, più che altro, di una declamazione retorica priva di riscontri fattuali, specialmente con afferenza all’ igiene mentale. Infatti, il ristretto patisce acute sofferenze psicologiche, non è auto-determinato negli spostamenti, perde la forza della personalità, è completamente isolato dal mondo esterno e, una volta ritornato a piede libero, fatica a reinserirsi, manifestando notevoli disturbi dell’ adattamento. Come sottolineato da Gonin ( 1994 ), “ la detenzione comporta danni visivi dovuti alla protratta impossibilità di accedere a prospettive di sguardo in campo lungo ( l’ orizzonte del detenuto è sempre limitato da mura ). [ Esistono anche ] danni all’ apparato digerente e dentario, nonché notevole incidenza di patologie dermatologiche, dovute ad un’ alimentazione spesso troppo monotona e alla condizione di continuo stress che la detenzione comporta, con una compromissione del sistema respiratorio a causa della lunga permanenza in locali spesso angusti e con un’ insufficiente aerazione. [ Esistono anche ] disturbi del sonno dovuti all’ impossibilità di godere di regolari periodi di quiete notturna “. In Italia, ma ciò vale per tutta l’ Europa, molti reclusi sono affetti da HIV. Le prime scoperte di individui sieropositivi in carcere risalgono alla seconda metà degli Anni Ottanta del Novecento e ben presto l’ AIDS ha recato a non poche preoccupazioni da parte del Personale della Polizia Penitenziaria. Dopo la L. 222/1993, sono stati separati i reclusi sani da quelli sieropositivi e, nel caso dell’ AIDS conclamato, è prevista un’ attenuazione extra-muraria del regime trattamentale, pur se si tratta di una magra consolazione, in tanto in quanto l’ HIV, durante gli ultimi stadi della patologia, comporta poche prospettive di vita. Magliona & Sarzotti ( 1996 ) rimarcano che “ tutti i servizi che il carcere offre ai propri “ utenti “ sono stati messi a dura prova dalla presenza di reclusi sieropositivi: da quello sanitario ( cure adeguate ed aggiornate ) a quello igienico-alimentare ( pulizia delle celle e alimentazione differenziata ), da quello assistenziale-psicologico ( sostegno psicoterapeutico alle persone che scoprono di essere sieropositive in carcere ) a quello trattamentale-risocializzante. La questione della prevenzione della diffusione dell’ AIDS ha posto all’ ordine del giorno il problema del consumo di sostanze stupefacenti per via iniettiva all’ interno degli istituti “. In effetti, come accade nelle Rems, il carcerato sieropositivo mescola, con non poche ambiguità, la malattia alla delinquenza e la Polizia Penitenziaria deve, altrettanto, coniugare l’ esecuzione penitenziaria con una non facile ed a-tecnica compassione umana nei confronti dei detenuti portatori di HIV, fragili e bisognosi di un approccio più umanizzato.
Provvidenzialmente, il sistema carcerario italiano è, attualmente e tendenzialmente, rieducativo e non neutralizzativo, in tanto in quanto, come osservato da Daga ( 1990 ), “ il carcere non è più concepito, come in epoca pre-moderna, come un semplice luogo di detenzione in cui contenere individui in attesa di giudizio o politicamente pericolosi, ma esso viene considerato un sistema attraverso il quale intervenire sulla personalità e sullo stile di vita dei condannati, per qualche tipo di finalità educativa, preventiva e risocializzativa “. In realtà, a parere di chi scrive, la prassi penitenziaria italiana e, più latamente, europea, ha clamorosamente fallito nei propri intenti pedagogici, soprattutto a causa di una Psicologia onnipresente, che, nel nome di una presunta scientificità, psichiatrizza ad libitum il recluso, il quale è per metà deviante e, per metà, un bambino da trasformare imponendo valori che il reo non intende recepire quasi mai. Il carcere è il luogo della rabbia, ovverosia l’ anticamera della recidiva. E’ contraddittorio e utopistico pretendere la collaborazione sincera e spontanea di un soggetto maggiorenne e ragionante, con una forma mentale già del tutto costituita. L’ Abolizionismo scandinavo non sbaglia quando distingue tra il reato e la costruzione sociale del reato. Basti pensare all’ abissale differenza tra il reo di un omicidio volontario e, dall’ altro lato, un piccolo spacciatore di quartiere che arrotonda il mensile cedendo modiche quantità di stupefacenti. Oppure ancora, la medesima distinzione vale pure tra il responsabile di un bagatellare furto con scasso e, viceversa, un intermediario finanziario, ormai irrecuperabile e non correggibile, che ricicla milioni ben vestito dietro alla scrivania di una Banca. L’ ipocrisia del carcere, come sottolineato da Sutherland, criminalizza molti emarginati e nasconde troppi delinquenti veri, insospettabilmente dediti allo white collar crime.
B I B L I O G R A F I A
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