Introduzione breve al delitto tentato

Redazione 15/05/04
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di Federico Amateis

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Sommario. 1. Il tentativo in generale. 2. La punibilità del tentativo. 3. L’inizio dell’attività punibile. 4. Idoneità e direzione degli atti. 5. L’elemento soggettivo: il dolo del tentativo. 6. Le previsioni sanzionatorie. 7. La desistenza volontaria e il recesso attivo. 8. I rapporti con il reato impossibile.

1. Il tentativo in generale.

 

La fattispecie del delitto tentato è descritta all’art. 56, 1° comma, c.p., in forza del quale «chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica».

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il delitto tentato presenta una condotta che non può considerarsi tipica, in quanto gli atti, pur non equivoci ed idonei, non hanno integrato la condotta (nei reati di mera condotta) o prodotto l’evento (nei reati d’evento), per cui non si ha la consumazione del delitto. Sebbene non consumato, il delitto (tentato) necessita tuttavia una sanzione, che sarà ragionevolmente più lieve di quella prevista per il delitto consumato.

Anzitutto si deve trattare di delitto tentato, e non di contravvenzione: in tal caso la dizione letterale del Codice appare inequivoca nell’ammettere la sanzione penale, a titolo di tentativo, soltanto per i delitti, e non già per le contravvenzioni: ciò si desume non solo dalla rubrica dell’art. 56 c.p. – «delitto tentato» – ma anche dal 1° comma del medesimo articolo, che fa riferimento ad «atti […] diretti […] a commettere un delitto», e dal 2° comma, il quale, fissando la pena per il delitto tentato, prevede le misure sanzionatorie proprie dei delitti (ergastolo, reclusione, pena pecuniaria prevista per il delitto).

Circa le ragioni di natura politico – criminale in merito alla non punibilità del tentativo di contravvenzione, si ritiene generalmente inopportuno punire dei fatti che nella gran parte dei casi manifestano un disvalore minore dei delitti: l’argomentazione probabilmente più convincente evidenzia che molte contravvenzioni rappresentano già forme di tutela anticipata (essendo costruite secondo lo schema del pericolo presunto): non sarebbe pertanto opportuna un’anticipazione ulteriore della tutela con la punibilità del tentativo.

Oltre alle contravvenzioni, la dottrina penalistica ritiene che vi siano altre figure criminose alle quali non si possa applicare la norma sul delitto tentato: tra le principali, è essenziale ricordare i delitti di pericolo, non potendosi configurare un pericolo (consistente nel tentativo) di un reato di pericolo, il che porterebbe conseguenze nefaste in termini di certezza del diritto e di ragionevolezza del sistema penale[1]; vi è stato tuttavia chi ha sostenuto il contrario[2], ritenendo che l’art. 56 c.p., per come è formulato, non potrebbe condurre ad un simile esito interpretativo.

Anche in relazione ai delitti di attentato, per i quali si ravvisa una struttura della fattispecie analoga al tentativo, si nega tendenzialmente la possibilità di coniugare i due modelli normativi, per cui un tentativo di attentato, essendo tentativo di un tentativo, costituirebbe una contraddizione in termini, divenendo un non – tentativo[3]. Anche in tal caso vi è stato chi[4] ha sostenuto che una pretesa incongruenza logica non sussiste fra tentativo e attentato: cionondimeno diverrebbe inopportuno incriminare una situazione simile in forza del principio di cui all’art. 25, 2° comma Cost., «in tema di contenuto positivo della legalità […]; la fattispecie manca di sufficiente determinatezza, è incostituzionale perché contrasta con questo principio»[5].

 

 

2. La punibilità del tentativo.

 

Circa i presupposti della punibilità del tentativo, a seconda che si segua la c.d. teoria oggettiva, oppure la c.d. teoria soggettiva, il fondamento sarà diverso.

Secondo la prima ricostruzione, è la situazione di pericolo nei confronti del bene tutelato dalla norma incriminatrice a giustificare la sanzione penale, nonostante il delitto non sia stato consumato, e la lesione non sia stata messa in atto: ciò che si è determinato, e ciò che va punito, è soltanto una situazione di pericolo.

La seconda ricostruzione ritiene che sia la volontà colpevole a comportare la punibilità, intendendosi reprimere quegli atteggiamenti che, pur non essendo lesivi del bene giuridico tutelato dalla norma, creano una situazione di potenziale pregiudizio per lo stesso, sia pur a livello di volontà.

Se si segue la prima impostazione, è evidente che se la condotta non diviene concretamente pericolosa per il bene tutelato, essa non potrà essere punita; viceversa, seguendo l’impostazione che da rilievo al profilo soggettivo, la semplice condotta volontaria diretta a nuocere diviene reprimibile, e, nelle teorie più radicali, descriventi un diritto penale della volontà (detto anche dell’atteggiamento interiore) addirittura sarà punita allo stesso modo del reato consumato (essendo la volontà colpevole il fondamento della punibilità), negandosi, in tal modo, ogni differenza fra reato consumato e reato tentato.

Il nostro ordinamento abbraccia una soluzione c.d. mista, o intermedia, punendo il tentativo, «ma in misura inferiore al reato perfetto in quanto vi è stata la volontà della lesione ma non la lesione del bene protetto»[6].

 

 

3. L’inizio dell’attività punibile.

 

Una delle problematiche più dibattute in dottrina consiste nella valutazione dell’inizio dell’attività punibile: certamente il fatto punibile a titolo di tentativo non può essere il fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, altrimenti si avrebbe il delitto consumato, ma deve invece consistere in un fatto che, per le ragioni più diverse, non raggiunge la perfezione.

Si è anche osservato che la disciplina del tentativo, in quanto forma di tutela anticipata (rispetto alla lesione effettiva del bene giuridico), costituisce una sorta di banco di provadella democraticità di un sistema penale: in altri termini, un regime autoritario preferisce anticipare notevolmente l’inizio della condotta punibile, mentre un sistema democratico tende a richiedere che la condotta, seppur non tipica, si avvicini notevolmente alla lesione del bene tutelato, affinché possa esser punita.

Non è un caso che il Codice Zanardelli, all’art. 61 richiedesse l’inizio d’esecuzione della condotta tipica, ai fini configurazione del tentativo, mentre il Codice Rocco, espressione di un regime autoritario, si limiti a richiedere «atti idonei, diretti in modo non equivoco», formulazione certamente più generica, e anche suscettibile di interpretazioni decisamente elastiche.

Tradizionalmente si è elaborata la distinzione fra atti preparatori e atti d’esecuzione: solo i secondi sarebbero punibili, i primi invece non potrebbero essere repressi in quanto non ancora adeguatamente espressivi di un’oggettiva capacità d’offesa. E’ chiaro che una tale distinzione, posta in questi termini, potrebbe apparire semplicistica: non è sempre così agevole una distinzione tra le due categorie d’atti, cionondimeno gli atti preparatori non sempre si possono considerare inoffensivi, potendo manifestare, in potenza, una qualche capacità offensiva.

Ci si può domandare la ragione per cui una parte, a dire il vero piuttosto consistente, della dottrina penalistica italiana pone ancora oggi l’attenzione sul principio d’esecuzione, quando in realtà il diritto positivo, all’art. 56 c.p., non menziona tale principio, che era proprio del Codice Zanardelli, e prima ancora del Codice Napoleonico, il quale richiedeva il «commencement d’esecution»; un’autorevole dottrina[7] ha fornito una rilettura del tentativo basandosi sull’art. 115 c.p., il quale sancisce la non punibilità del mero accordo a commettere un delitto. In tal senso – si è notato – accordi sarebbero senz’altro gli atti preparatori, di pianificazione, non punibili innanzitutto in forza dell’art. 115 c.p., mentre l’inizio d’esecuzione della condotta tipica diventerebbe meritevole di sanzione.

Ciononostante – si è osservato[8] – un’impostazione metodologicamente corretta non può prescindere dal diritto positivo, quindi dall’art. 56 c.p., che pone i requisiti dell’idoneità degli atti e della non equivocità degli stessi.

 

 

4. Idoneità e direzione degli atti.

 

I requisiti di diritto positivo fissati dall’art. 56 c.p. ai fini della configurabilità del tentativo sono due: l’idoneità degli atti, e la direzione non equivoca degli stessi.

Parte della dottrina[9] ha evidenziato la necessità di valutare innanzitutto la non equivocità, rispetto all’idoneità degli atti, per le implicazioni che l’analisi della prima può comportare sulla seconda.

Si è osservato che non equivoco equivale a non dubbio, certo, sicuro: ma rispetto a che cosa? Non si tratta di accertare a quale risultato siano rivolti gli atti, ma solamente se in modo non equivoco siano riferibili al delitto di cui si ipotizza il tentativo.

La non equivocità – è stato inoltre osservato – è riferita agli “atti”: avendo il legislatore utilizzato un’espressione al plurale, il giudizio di non equivocità andrà riferito non già all’ultimo degli atti posti in essere, bensì agli «atti facenti parte dell’azione, naturalisticamente intesa, agli atti legati da contestualità e da connessione teleologica»[10].

Per venire al requisito della idoneità, nel linguaggio comune, essa può essere agevolmente definita come la «capacità di portare ad un determinato risultato»[11], risultato che, in termini giuridici, coincide con il delitto consumato.

Tuttavia, mentre il reato consumato è sottoposto ad un giudizio ex post, ovvero a fatto oramai compiuto, per cui il fine dell’indagine è verificare quale sia stato l’effetto del comportamento umano, nel delitto tentato, mancando il risultato sperato (azione nei reati di mera condotta, evento nei reati ad evento naturalistico), l’indagine seguirà un percorso differente.

L’idoneità di cui all’art. 56 c.p., in particolare, deve essere valutata tramite una c.d. prognosi postuma, ovverosia attraverso un giudizio ex ante, avente ad oggetto le circostanze conosciute e conoscibili dall’agente al momento della commissione del fatto, prescindendo totalmente dalle circostanze impreviste o comunque non volute dall’agente, che hanno impedito la consumazione del delitto.

Dell’idoneità degli atti la dottrina penalistica fornisce una lettura in senso chiaramente oggettivo, per cui idonei saranno gli atti che manifestino un potenziale offensivo, che non si è concretizzato per ragioni indipendenti dalla volontà del colpevole: soprattutto, idonei sono quegli atti che, pur non arrivando ad integrare la consumazione del delitto, sfociano comunque in una situazione di pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma. Importante è considerare che la valutazione di idoneità va effettuate in relazione al caso concreto, «dovendo gli atti essere considerati nel contesto della situazione cui ineriscono»[12]: infatti la capacità potenzialmente lesiva degli atti non si può valutare in astratto, essendo imprescindibile la considerazione delle circostanze concrete nelle quali l’agente opera.

Si deve peraltro considerare che il Codice Penale utilizza l’espressione «atti idonei», e non «mezzi idonei» (fatta propria dal Codice Zanardelli): ciò significa che l’inidoneità del mezzo di esecuzione del delitto (ad esempio l’arma da fuoco nel tentativo di omicidio) non configurerà mai, in nessun caso, un delitto tentato, al contrario, se ne sussistono i presupposti, si potrà applicare l’art. 49, 2°comma c.p., norma che delinea il c.d. reato impossibile. L’esempio classico che viene riportato è quello dell’utilizzo della pistola giocattolo, o della sostanza non velenosa utilizzare per provocare il decesso di una persona: in questi casi non si può ipotizzare un tentativo inidoneo, molto più semplicemente avremo un reato impossibile per inidoneità dell’azione (che comprende anche i mezzi di esecuzione della stessa).

 

 

5. L’elemento soggettivo: il dolo del tentativo.

 

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è indubbio che il tentativo richieda il dolo: la condotta consistente nel “tentare” viene ritenuta dalla dottrina penalistica pressoché unanime incompatibile con la colpa.

Si richiede in ogni caso la presenza di dolo, e quindi di una consapevolezza e volontà di causare l’evento (inteso in senso ampio di evento giuridico, quale lesione del bene tutelato dalla norma), che, nella situazione concreta, non si realizza.

Il riferimento di diritto positivo che conduce a questa soluzione obbligata è rinvenibile nell’art. 42, 2° comma c.p., in base al semplice seguente ragionamento: prevedendo la norma sopra citata che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge», e potendosi ipotizzare il tentativo soltanto per i delitti (si è spiegato in precedenza il perché), si deve ritenere senz’altro che il tentativo richieda il dolo, non facendosi menzione alcuna, all’art. 56 c.p., dell’elemento soggettivo colpa.

Si è dibattuto inoltre circa l’intensità del dolo compatibile con il tentativo: nella pressoché totalità dei Manuali di diritto penale[13] è ravvisabile l’affermazione «il dolo del tentativo è il dolo della consumazione».

Si è tuttavia osservato che a tale formula può essere ricondotto il significato che nel tentativo vi deve essere dolo come nel reato consumato, oppure, in modo più specifico, richiedendosi le stesse caratteristiche (in termini di intensità) del dolo del tentativo rispetto a quello della consumazione: tali interpretazioni, discostanti fra di loro, portano inevitabilmente a risultati diversi.

La dottrina oggi prevalente[14] non concepisce il delitto tentato commesso con dolo eventuale (cioè senza la volontà diretta dell’evento, seppur con l’accettazione del suo verificarsi); al contrario, si afferma che il dolo del tentativo debba necessariamente consistere nell’intenzione di commettere il delitto perfetto, in quanto «chi, mirando ad altro risultato […] accetta il rischio che abbia a verificarsi anche un delitto […], non si rappresenta e non vuole gli atti come diretti alla commissione di questo delitto»[15].

Si deve osservare che la giurisprudenza[16] è oggi allineata alla tesi prevalente in dottrina, che esclude la rilevanza del dolo eventuale, ritenuto non idoneo a configurare un delitto tentato: la stessa giurisprudenza[17], sino agli inizi degli anni ’90, propendeva tuttavia per la tesi divenuta oggi minoritaria.

Esistono peraltro voci in dottrina[18] che continuano ad ammettere il tentativo commesso con dolo eventuale: in particolare, si è sostenuto che «non vediamo sorgere ostacoli […] dal disposto dell’art. 56 c.p. che parla di «atti diretti in modo non equivoco». Questi atti sono diretti in modo univoco se l’agente li ha orientati nel senso di accettare l’evento (dolo eventuale). Il fatto che il delitto si fermi a livello di tentativo non modifica la specie di dolo e non incide sulla volontà finalizzata a realizzare un delitto che se fosse portato a consumazione sarebbe punibile solo a tutto di dolo eventuale»[19].

 

 

6. Le previsioni sanzionatorie.

 

Si è già detto, al paragrafo 2., in quali presupposti possa essere ravvisata la punibilità del delitto tentato. Restano da esporre le conseguenze sanzionatorie della commissione di un delitto tentato, le quali  sono definite all’art. 56, 2° comma c.p.: «Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi».

Il legislatore ha chiaramente fatto propria l’idea secondo la quale il tentativo merita una sanzione, la quale deve necessariamente essere ridotta rispetto alla pena prevista per il delitto consumato: il diritto positivo testimonia così la volontà di non aderire a quelle tesi che parificano il tentativo alla consumazione sotto il profilo sanzionatorio. Da questo elemento, per tornare alla problematica del fondamento di punibilità del tentativo, si evince che il nostro Codice Penale ha voluto evitare gli eccessi di una concezione soggettivistica del tentativo, la quale, considerandolo punibile in forza della volontà delittuosa dell’agente, non può che farne derivare la conseguenza di un’eguale sanzione, indipendentemente dalla consumazione o meno del delitto.

 

 

7. La desistenza volontaria e il recesso attivo.

 

Prevede l’art. 56, 2° e 3° comma c.p., che «se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora essi costituiscano per se un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà».

Il legislatore ha pertanto previsto due ipotesi, denominate «desistenza volontaria» e «recesso attivo», rispetto alle quali si è stabilito un autonomo trattamento sanzionatorio rispetto al delitto tentato.

Nella prima delle due ipotesi citate, l’agente, volontariamente, desiste dall’azione, nella seconda l’azione è già stata compiuta, ma ciò che viene dall’agente impedito, è la causazione dell’evento: da tali premesse, si può evincere subito che il recesso attivo sarà configurabile soltanto per i reati d’evento, nei quali la consumazione consiste non nel compimento della condotta, bensì nella produzione d’evento naturalistico conseguente alla tenuta di una determinata condotta.

La dottrina assolutamente prevalente[20], in merito al requisito della volontarietà della desistenza, ritiene che essa non si può ravvisare nella “spontaneità” della condotta di desistenza, poiché quando il legislatore vuole intendere un simile requisito, lo fa espressamente (ad. es. art. 62, n°6 c.p.): non è necessario pertanto il pentimento dell’agente, è sufficiente che questo abbia volontariamente deciso di non continuare la condotta (attiva) che stava tenendo, oppure, nei reati omissivi, che egli tenga la condotta che era in precedenza stata omessa. Tale orientamento dottrinale evidenzia tuttavia come «la volontarietà presuppone la possibilità di scelta fra due condotte, e che questa possibilità non esiste anche qualora la condotta diversa presenti svantaggi o rischi tali da non potersi attendere da nessuna persona ragionevole»[21].

In altri termini, volontarietà significa libertà di determinazione del proprio agire, che certamente non sussiste quando una delle scelte possibili diviene quasi obbligata (ad esempio nel ladro che desiste temendo l’arrivo della polizia).

Sotto il profilo sanzionatorio si è voluto rendere l’agente esente da pena, perlomeno per quella riconducibile all’azione da cui si è volontariamente desistiti: se l’agente ha commesso altri reati, sarà comunque punibile per essi (ad. es. la desistenza volontaria dal furto con scasso non esime il reo dalla pena prevista per il danneggiamento).

Al contrario della desistenza volontaria, il recesso attivo comporta un’attivazione dell’agente al fine di impedire la verificazione dell’evento. In questo caso, come si è evidenziato[22], il processo causale che dalla condotta tipica conduce all’evento si è già messo in moto, ma viene interrotto da un’azione del soggetto agente.

Anche in questo caso la condotta deve essere volontaria, e valgono le stesse considerazioni operate in merito alla desistenza volontaria, per cui solo se l’agire del reo si può definire libero e non condizionato da fattori esterni, la volontarietà richiesta dalla norma si potrà considerare configurata. Sotto il profilo sanzionatorio si può riscontrare una particolarità, o comunque un’incongruenza, che viene talvolta criticata in dottrina: la previsione di una sanzione penale, sia pur ridotta rispetto al delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.

Il recesso attivo opera inoltre come circostanza attenuante nell’ipotesi in cui l’evento si verifichi, e quindi il delitto si possa considerare a tutti gli effetti consumato: in tal caso opera l’art. 62, n°6 c.p., in forza del quale il reato è attenuato se l’agente si è «adoperato spontaneamente e efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato». In tale ipotesi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, si può notare come il legislatore abbia voluto richiedere non già la semplice volontarietà della condotta, bensì la spontaneità della stessa: tuttavia il legislatore non richiede il pentimento del reo, per cui il confine fra volontarietà e spontaneità non appare del tutto nitido e definito, in quando – si è già avuto modo di evidenziarlo – la volontarietà presume una libertà di determinazione, senza fattori condizionanti, che naturalmente sono propri anche della condotta caratterizzata da “spontaneità”.

 

 

8. I rapporti con il reato impossibile.

 

Un aspetto oggetto di particolari attenzioni in dottrina è rappresentato dal rapporto che intercorre fra l’art. 49, 2° comma c.p., che definisce il c.d. reato impossibile, e l’art. 56 c.p., norma sul delitto tentato.

La questione è di notevole complessità, come risulta dalle differenti posizioni assunte in dottrina e in giurisprudenza: ciò che più rende “delicata” la valutazione del problema, sono le implicazioni derivanti, a livello di teoria generale, dalla valutazione della materia.

Non è questa la sede per analizzare dettagliatamente i profili dei rapporti fra le due norme, che richiederebbe, per la sua complessità, e le posizioni contrastanti degli Autori[23] che si sono occupati del problema, una trattazione dedicata esclusivamente al problema.

La dottrina tradizionale, in linea con la giurisprudenza prevalente (di legittimità), considera il reato impossibile quale risvolto – in negativo – del tentativo inidoneo, cioè dell’azione non idonea a raggiungere il risultato lesivo descritto dalla norma: l’art. 49, 2° comma c.p. diverrebbe così disposizione superflua nell’ordinamento penale, non facendo altro che ribadire un principio già sancito all’art. 56 c.p.

I fautori della c.d. concezione realistica ritengono invece che l’art. 49, 2° comma c.p. abbia una portata autonoma rispetto all’art. 56 c.p., assurgendo la prima delle due norme a principio generale dell’ordinamento.

Per dovere di completezza, anche fra coloro i quali si dichiarano critici nei confronti della concezione realistica, e che quindi non sono disposti a basare il principio di necessaria lesività dell’illecito sull’art.49, 2° comma c.p., anche fra di essi, vi è chi rifiuta la tradizionale impostazione dei rapporti fra le due norme, ritenendo che comunque il reato impossibile non possa essere il risvolto, in negativo, del tentativo inidoneo.

Le ragioni di tale affermazione – si è evidenziato – sono molteplici: il reato impossibile è configurabile sia per i delitti che per le contravvenzioni, mentre il delitto tentato solo per i delitti; inoltre l’art. 49, 2° comma c.p. utilizza l’espressione «inidoneità dell’azione», mentre l’art. 56 c.p. usa il termine «atti»; il reato impossibile si può anche configurare per inesistenza dell’oggetto, non già nel tentativo inidoneo. Si afferma che l’«evento» di cui all’art. 56 c.p. riguarda esclusivamente l’evento naturalistico, mentre l’art. 49, 2° comma c.p. utilizza il termine in questione in una diversa accezione, quella di evento giuridico (offesa, cioè lesione o messa in pericolo del bene giuridico). Inoltre mentre nel reato impossibile il giudizio di inidoneità dell’azione dovrebbe essere effettuato ex post, nel caso della valutazione dell’idoneità degli atti del tentativo, come già evidenziato in precedenza, la valutazione si compie ex ante.

Come se ciò non fosse sufficiente, sotto il profilo sanzionatorio il reato impossibile non comporta la comminazione di una pena, ma può essere oggetto di una misura di sicurezza, in forza dell’espressa previsione ex art. 49, 4° comma c.p.; il tentativo inidoneo invece, oltre a non ammettere pena, non ammette nemmeno misure di sicurezza (quest’ultimo aspetto viene ritenuto da parte consistente della dottrina[24] come iniquo e certamente illogico, essendo il tentativo inidoneo un fatto che, pur non concretamente offensivo, è pur sempre qualcosa in più del reato impossibile, rispetto al quale esiste una totale ed oggettiva impossibilità dell’evento dannoso o pericoloso).

 

BIBLIOGRAFIA.

 

Antolisei – Conti, Manuale di diritto penale, parte generale, 16° ed., Milano, 2003

F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, 3° ed., Padova, 1992

Petrocelli, Il delitto tentato, Padova, 1955

Riz, Lineamenti di diritto penale, parte generale, 4° ed., Padova, 2002

Siniscalco, voce “Tentativo”, in “Enciclopedia giuridica Treccani”

Note:

[1] Questa soluzione, prevalente, è sostenuta in particolare da: FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, parte generale, 4° ed., Bologna, 2001; F. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, 3° ed., Padova, 1992; PETROCELLI, Il delitto tentato, Padova, 1955; RIZ, Lineamenti di diritto penale, parte generale, 4° ed., Padova, 2002.

[2] ANTOLISEI – CONTI, Manuale di diritto penale, parte generale, 16° ed., Milano, 2003; SINISCALCO, voce “Tentativo”, in Enciclopedia Giuridica Treccani, p. 6

[3] ANTOLISEI – CONTI, op. cit., p. 511; F. MANTOVANI, op. cit., p. 450; RIZ, op. cit., p. 330.

[4] SINISCALCO, op. cit., p. 6.

[5] SINISCALCO, op. cit., p. 7.

[6] F. MANTOVANI, op. cit., p. 432.

[7] PETROCELLI, op. cit.

[8] SINISCALCO, op. cit., p. 2.

[9] SINISCALCO, op. cit., p. 3.

[10] SINISCALCO, op. cit., p. 3.

[11] SINISCALCO, op. cit., p. 4.

[12] F. MANTOVANI, op. cit., p. 444; Vedasi anche RIZ, op. cit., p. 326.

[13] Tra i molti disponibili, vedasi F. MANTOVANI, op. cit., p. 438; RIZ, op. cit., p. 328 s.; SINISCALCO, op. cit., p. 5.

[14] F. MANTOVANI, op. cit. p. 438 s.; SINISCALCO, op. cit. p. 5.

[15] F. MANTOVANI, op. cit. p. 439.

[16] Cass. Sez. I, sent. 14 gennaio 2000, CED 215251; Sez. I, CED 209607/1998; Sez. I, sent. 28 aprile 1995, n° 1369, CDE 201165/1995.

[17] Cass., Sez. II, sent. 23 ottobre 1993, in Giust. Pen., 1994, II, 597; Sez. Un., sent. 15 dicembre 1992, in Giust. Pen., 1993, II, 452.

[18] Questa tesi è sostenuta, fra gli altri, da ANTOLISEI – CONTI, op. cit. p. 491; RIZ, op. cit. 328 s.; PETROCELLI, op. cit.

[19] , RIZ, op. cit., p. 329.

[20] Si vedano, fra gli altri, ANTOLISEI – CONTI, op. cit., p. 457; F. MANTOVANI, op. cit., p. 508; RIZ, op. cit., p. 335; la tesi secondo cui la desistenza deve essere spontanea, e cioè determinata da ragioni di pentimento è sostenuta invece da BETTIOL – PETTOELLOMANTOVANI, in Diritto Penale, parte generale, 12° ed., Padova, 1986.

[21] SINISCALCO, op. cit., p. 7.

[22] F. MANTOVANI, op. cit., p. 455.

[23] Vedasi, per una panoramica completa della questione, il lavoro di NEPPI MODONA, voce “Reato impossibile”, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet. Si vedano inoltre i riferimenti ivi collegati.

[24] RIZ, op. cit., p. 111.

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