La reiterazione dei vincoli espropriativi

Redazione 15/05/04
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Fabrizio Lorenzotti,
 

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Contributo al corso residenziale indetto dal consorzio per la altra formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto amministrativo sul tema: “testo unico in materia di espropriazioni per pubblica utilita’ (d.p.r. 8 giugno 2001 n.327 modificato da d.lgs. 22 gennaio 2003 n.19)”

Prof. Fabrizio Lorenzotti

 

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Osimo 27-28 Ottobre 2003

 

La reiterazione dei vincoli espropriativi

 

1. I vincoli espropriativi. – Da lungo tempo, la Corte costituzionale, attraverso più sentenze ispirate ad una impostazione di fondo abbastanza costante e suscettibile di interessanti evoluzioni nel corso degli anni, ha individuato diverse categorie di vincoli espropriativi e di inedificabilità[1].  In stretto collegamento con l’orientamento della Corte costituzionale si è mossa anche la giurisprudenza dei giudici ordinari e di quelli amministrativi.

In particolare, accanto ai: 1) veri e propri vincoli espropriativi, dai quali prende l’avvio il procedimento dell’espropriazione per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità (o anche per pubbliche destinazioni che non richiedono l’attuazione di opere rilevanti, come, ad esempio, il verde pubblico), sono stati individuati: 2) vincoli che, a prescindere dalla loro forma – quindi anche non apparentemente preordinati allo svolgimento di un procedimento espropriativo – conducono ad una traslazione totale o parziale del diritto di proprietà, 3) vincoli, come quelli di inedificabilità, che comportano uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del contenuto del diritto di proprietà, pur lasciando intatto il diritto stesso sotto i profili dell’appartenenza e della sua sottoposizione a tutti gli oneri, compresi quelli di natura fiscale.

Anche i vincoli da ultimo indicati (ai nn. 2 e 3) devono essere considerati di natura espropriativa[2], determinando la necessità di corrispondere un indennizzo a favore del titolare del diritto di proprietà.

Invece, non è necessario l’indennizzo, quando le norme di legge che prevedono il vincolo si riferiscono ad intere categorie di beni e interessano la generalità dei soggetti, sottoponendo tutti i beni di una o più categorie, senza distinzione, ad uno specifico regime di appartenenza[3].

Ugualmente, esistono vincoli che non danno luogo a fattispecie espropriative ma hanno per scopo la disciplina dell’edilizia nelle aree urbane nei suoi molteplici aspetti, quali gli indici di edificabilità, le distanze, le altezze, la localizzazione[4], ponendo limiti alla proprietà nell’interesse pubblico. Come posto in evidenza dalla Corte costituzionale: “per evitare lo sconfinato arbitrio del singolo e disciplinare l’esercizio del diritto, e per dare un ordine e un’armonia allo sviluppo dei centri abitati”[5] la disciplina urbanistica contiene limiti al diritto di proprietà che rientrano tra quelli previsti dalla Costituzione, non potendosi dubitare che la funzione sociale della proprietà richieda, tra l’altro, una disciplina dell’assetto dei centri abitati, del loro incremento edilizio e, in genere, dello sviluppo urbanistico.

Sulla base di questo orientamento della Corte costituzionale, la Cassazione ha elaborato la nozione di vincoli conformativi, da tenere del tutto distinta da quella dei vincoli espropriativi. I vincoli conformativi incidono su categorie omogenee di beni e non comportano l’acquisizione da parte della pubblica amministrazione della proprietà del bene[6].

Al di fuori delle predette ipotesi, riferite ad intere categorie di beni o alla disciplina omogenea dell’attività edilizia, qualsiasi incisione operata a titolo individuale su singoli beni o che ne annulli o diminuisca notevolmente il valore di scambio ha carattere espropriativo e deve essere indennizzata[7].

Di regola, i vincoli espropriativi e di inedificabilità sono un effetto delle previsioni degli strumenti urbanistici generali comunali (piani regolatori o programmi di fabbricazione) fin dalla loro originaria operatività oppure in seguito a varianti o ad atti aventi efficacia di variante.

I vincoli gravano sulle aree di proprietà privata o, più in generale, sulle aree di proprietà di soggetti (anche pubblici) diversi dal Comune, mentre non è configurabile un vincolo espropriativo quando l’area (ad esempio, destinata a verde pubblico) rientra già nel patrimonio dell’amministrazione comunale e, pertanto, non deve essere espropriata[8].

Più specificamente, quando il piano regolatore prevede che una determinata area sia destinata alla realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, la prima conseguenza è quella dell’immediata imposizione di un vincolo di inedificabilità, allo scopo di impedire una modificazione dello stato dei luoghi prima della futura espropriazione e della realizzazione dell’opera pubblica.

La seconda conseguenza, strettamente collegata alla prima, è la forte riduzione del valore commerciale dell’area[9]. L’area vincolata, proprio perché è diventata inedificabile, perde attrattive sul mercato. L’area avrà presumibilmente un valore pari alla futura indennità di espropriazione.

La terza conseguenza (anche se a volte resta allo stato potenziale e non viene attuata) è quella della vera e propria espropriazione e della realizzazione dell’opera pubblica.

2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1999. – Sui vincoli espropriativi e sulla loro reiterazione riveste importanza essenziale la sentenza della Corte Costituzionale, 20 maggio 1999, n. 179.

Secondo la Corte i vincoli espropriativi o di inedificabilità debbono essere delimitati nel tempo dalla legge statale o regionale, in modo non irragionevole e non arbitrario, e una volta delimitati, non debbono superare quel limite temporale, che diventa il limite di sopportabilità del vincolo da parte del titolare del bene.

Nel quadro dei vincoli che colpiscono la proprietà, la sentenza distingue quelli che non comportano indennizzo e quelli che invece lo comportano. Come effetto di questa distinzione la sentenza elenca cinque categorie di vincoli non comportanti indennizzo. Da siffatte categorie è facile pervenire alla individuazione dei vincoli espropriativi. Infatti, il vincolo che non comporta indennizzo non può essere definito espropriativo, mentre deve essere definito tale il vincolo che comporta la corresponsione di un indennizzo.

a) I vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni, ivi compresi i vincoli paesistico – ambientali. In questa categoria rientrano i vincoli paesistici, quelli posti a tutela di beni storico-artistici e archeologici o dei parchi e delle riserve naturali, nonché i vincoli posti a difesa del suolo[10].

I vincoli di questa categoria non hanno natura espropriativa. Assumono, ovviamente, tale natura quando vengono meno le caratteristiche di generalità e di obiettività o l’omogeneità della categoria dei beni colpiti.

b)  I vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente dalla pianificazione urbanistica. Afferma la sentenza n. 179/1999 che devono essere considerati come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente, i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e nelle relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili (anche le destinazioni di piano regolatore generale consistenti nella zonizzazione, volte a governare l’utilizzazione del territorio secondo la sua suddivisione in zone funzionali: residenziali, produttive, agricole, ecc.). Queste destinazioni riguardano una pluralità di beni omogenei in funzione di un’esigenza di pubblico interesse di programmazione dello sviluppo urbanistico del territorio e non decadono.

Tra le fasce di rispetto in relazione ad opere pubbliche possiamo segnalare quelle relative a strade, ferrovie, aeroporti, cimiteri, alvei fluviali ecc.

Tra i vincoli della categoria b) rientrano anche quelli che considerano un’area edificabile già interamente sfruttata e, quindi, tale da non tollerare altri interventi edificatori, eccettuati quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente.

Ugualmente, è da ritenere che le prescrizioni di piano regolatore prefiguranti, in via generale e programmatica, una futura utilizzazione di generico interesse generale di un’area (ad es. verde attrezzato o zona servizi), senza l’individuazione puntuale o “lenticolare” del bene da espropriare, abbiano carattere conformativo e, quindi, non decadano e non siano, suscettibili di reiterazione e di relativo indennizzo[11].

Le stesse destinazioni urbanistiche che preludono a futuri interventi della mano pubblica non sempre costituiscono vincoli di carattere espropriativo. Occorre distinguere fra destinazioni operate nell’ambito della zonizzazione del territorio, che sono generali e riguardano tutte le aree aventi la medesima allocazione topografica, e localizzazioni di singole opere pubbliche, che invece impongono un sacrificio individualizzato ad uno o più proprietari esattamente individuati.

Può parlarsi di vincoli espropriativi soltanto nel secondo caso, laddove la pianificazione urbanistica impone un sacrificio individualizzato e localizzato, mentre quando il vincolo riguarda indistintamente categorie generali di beni, anche se preluda ad una loro futura espropriazione, si ricade nell’ambito della potestà conformativa[12].

In particolare, è stato escluso che la previsione di uno strumento urbanistico che subordina l’attività edificatoria alla preventiva formazione di un piano attuativo integri gli estremi del vincolo espropriativo, non impedendo in modo assoluto l’edificazione e non svuotando quindi il contenuto del relativo diritto di proprietà, con la conseguenza che tale previsione non è soggetta alla decadenza di cui all’art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1167[13].

In sintesi anche i vincoli della ora esaminata categoria b) non hanno natura espropriativa, fatta eccezione per i riferiti casi in cui impongano un sacrificio individualizzato e localizzato.

c) I vincoli, comunque estesi, derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato. La sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999 precisa, inoltre, che sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo i vincoli che importano destinazioni, anche di contenuto specifico, realizzabili ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, in quanto non comportano necessariamente l’espropriazione o la realizzazione di interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, ma sono, per l’appunto, attuabili anche dal soggetto privato, a volte, sia pure mediante convenzione con il Comune, ma senza necessità della preventiva ablazione del bene. In questa categoria possono ricadere: parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cure e sanitarie, ecc.

Con questa precisazione la Corte costituzionale ha tenuto conto della circostanza che negli ultimi anni l’ordinamento positivo si è arricchito di modelli che comportano una crescente partecipazione diretta del privato alla definizione ed attuazione di interventi urbanistici. L’art. 2, comma 203, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, stabilisce “gli interventi che coinvolgono una molteplicità di soggetti pubblici e privati ed implicano decisioni istituzionali e risorse finanziarie a carico delle amministrazioni statali, regionali e delle province autonome, nonché degli enti locali possono essere regolati sulla base di accordi” definiti di: programmazione negoziata, intesa istituzionale di programma, accordo di programma quadro, patto territoriale, contratto di programma, contratto d’area[14].

Pure i vincoli della categoria c) non hanno natura espropriativa fin quando consentono l’edificabilità anche ai soggetti privati.

d) I vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità. Il punto era stato bene chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 55/1968, secondo la quale il diritto di proprietà non può venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine ad essere sottoposto, nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. Nel determinare tale regime, il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come pure può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell’attuale momento storico. Al di là di tale confine, esso assume carattere espropriativo.

e) I vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia normalmente quinquennale) ritenuta ragionevolmente sopportabile. Quest’ultima categoria riguarda i vincoli espropriativi rispetto ai quali sia scaduto il termine di durata previsto dalla legge.

Attualmente, il testo unico sulle espropriazioni (di cui al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e successive modificazioni: “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”) disciplina negli articoli da 8 a 12 i vincoli urbanistici preordinati all’esproprio in modo sistematico, fissando di regola una durata quinquennale entro la quale deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità[15].

3. Durata del vincolo espropriativo. – Come accennato in precedenza, il vincolo espropriativo ha la durata di 5 anni da quando diventa efficace lo strumento di apposizione del vincolo stesso ed entro tale termine deve essere emanato, come statuisce il comma 2 dell’art. 9 del D.P.R. 327/2001, il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera[16].

Se entro il periodo indicato non interviene la dichiarazione di pubblica utilità, si ha la decadenza automatica del vincolo preordinato all’esproprio e sul bene sono consentiti gli interventi in conformità alle prescrizioni di cui all’art. 9 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e successive modificazioni: “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”. Vale a dire che si produce una situazione equiparabile all’assenza di destinazione urbanistica, con conseguente obbligo per il Comune di attribuire all’area nella quale ricade il bene una nuova destinazione e, qualora ciò non avvenga, il proprietario dell’area interessata può promuovere gli interventi sostitutivi della Regione o dell’ente locale al quale sia stata conferita la funzione[17].

L’obbligo di provvedere può essere assolto dal Comune sia attraverso una variante specifica sia attraverso una variante generale: unici strumenti che consentono all’amministrazione comunale di verificare la persistente compatibilità delle destinazioni già impresse alle aree rispetto ai principi informatori della vigente disciplina di piano regolatore e alle nuove esigenze di pubblico interesse[18].

La sentenza del TAR Lazio n. 3533/2003 osserva che, secondo un certo filone giurisprudenziale[19]  a seguito dell’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, ed anche successivamente alla riforma introdotta dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, il soggetto interessato, ai fini della diretta adizione del giudice amministrativo, non deve più provvedere alla previa notifica della diffida e messa in mora dell’amministrazione comunale, atteso che, una volta decorso inutilmente il termine essenziale stabilito per l’espressa e motivata conclusione del procedimento amministrativo, l’inadempimento di siffatto obbligo da parte dell’amministrazione è in re ipsa e quindi può essere immediatamente denunciato in sede giurisdizionale.

Secondo un altro filone interpretativo[20] permane, invece, l’esigenza di formalizzazione dell’inerzia della pubblica amministrazione a mezzo di notifica di apposita diffida, anche successivamente all’entrata in vigore della legge n. 241/1990, potendosi impugnare il silenzio, così constatato con il decorso del termine di trenta giorni dalla predetta notifica, innanzi al giudice amministrativo.

4. Modalità di reiterazione dei vincoli espropriativi. – Fino ad anni recenti era molto diffusa la prassi di reiterare i vincoli espropriativi in scadenza, soprattutto, perché i Comuni quasi sempre non disponevano e non dispongono dei mezzi finanziari per poter realizzare tempestivamente le opere pubbliche previste.

Prima dell’entrata in vigore del testo unico sull’espropriazione, la giurisprudenza aveva affermato la possibilità di reiterare (pure più volte) i vincoli espropriativi: l’amministrazione comunale, qualora intenda procedere in tal senso, deve adeguatamente motivare non solo circa la generale finalità di pubblico interesse da soddisfare, ma anche in relazione alla persistenza della specifica esigenza pubblica cui le aree sono destinate con il vincolo. Inoltre, deve evidenziare le ragioni del ritardo e le iniziative in base alle quali l’ablazione sostanziale del diritto di proprietà non si protrarrà a tempo indefinito[21].

Per la reiterazione, non è sufficiente una mera delibera del consiglio comunale, ma l’amministrazione deve adottare una specifica variante integrativa[22], sorretta da motivazione congrua e circostanziata, idonea ad evidenziarne la necessità sotto il profilo urbanistico e, contestualmente, a giustificare la mancanza di aree della stessa zona destinate ad uso pubblico eventualmente più idonee[23].

Ora, il testo unico sull’espropriazione, all’art. 9, comma 4, precisa che il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato[24], con la rinnovazione dei procedimenti di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero di una sua variante, e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard urbanistici.

Inoltre, in base al comma 5 del medesimo articolo, nel corso dei cinque anni di durata del vincolo preordinato all’esproprio, il consiglio comunale può motivatamente disporre o autorizzare che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità diverse da quelle originariamente previste nel piano urbanistico generale. In tal caso, se la Regione o l’ente da questa delegato all’approvazione del piano urbanistico generale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l’efficacia.

5. L’indennizzo per la reiterazione del vincolo secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 179/1999. – Con la sentenza n. 179/1999, la Corte Costituzionale ha stabilito che la reiterazione dei vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione è indennizzabile: l’obbligo specifico di indennizzo deve sorgere una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo, quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, riconducibili alla normale sopportabilità del peso gravante in modo particolare sul singolo proprietario.

In sostanza, la Corte non ha stabilito come debba essere determinata la misura dell’indennizzo[25], ma ha soltanto accennato all’esigenza della sua commisurazione al sacrificio subito, consistente nella diminuzione del valore di mercato del bene, rispetto alla destinazione giuridica precedente lo strumento urbanistico generale o la variante che ha imposto il vincolo. Per il resto, la Corte ha demandato al legislatore di esercitare le scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, e anche in taluni casi, tra misure alternative riparatorie anche in forma specifica, mediante offerta ed assegnazione di altre aree, idonee alle esigenze del soggetto che ha diritto ad un ristoro, ovvero mediante altri sistemi compensativi che non penalizzano i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su beni determinati.

In dottrina[26] sono state segnalate come possibili soluzioni due esperienze già in svolgimento, quindi attuabili anche se presentano limiti ben precisi: quella dei meccanismi di perequazione tra proprietari e quella della introduzione di vincoli paesaggistico-ambientali mediante i piani regolatori.

Nel primo caso, quello della perequazione urbanistica, il vincolo viene compensato con diritti edificatori uniformi per tutti i proprietari delle aree ricomprese nel medesimo comparto, oppure con diritti edificatori su altre aree. Però i sistemi di perequazione sono molto macchinosi, presuppongono laboriosi accordi tra i proprietari, aprono la questione degli oneri tributari conseguenti alle cessioni di cubatura, non consentono l’acquisizione delle aree occorrenti per le grandi opere, soprattutto a rete, che trascendono le esigenze urbanistiche del comparto. In definitiva costituiscono un rimedio interessante, ma non da sopravvalutare[27].

Nel secondo caso, si tratterebbe di inserire nel piano regolatore generale ulteriori aree meritevoli di tutela ambientale e paesaggistica, da assoggettare quindi ad inedificabilità, in aggiunta a quelle vincolate ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497 e ora del testo unico sui beni culturali di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.

Però, è molto  dubbio che tali vincoli possano ricomprendersi tra quelli di cui è consentita la protrazione a tempo indeterminato senza indennizzo[28]. Soprattutto, bisogna tener conto del problema essenziale che, in questo modo verrebbero vincolate, per il loro pregio paesaggistico od ambientale, aree per la futura realizzazione di infrastrutture, cioè per opere che non potranno certamente essere localizzate nelle zone vincolate. Viene suggerito, pertanto, al legislatore di vietare quelle opere che possono ritenersi in concreto di grave ostacolo ad una futura utilizzazione pubblica dell’area e di consentire per converso liberamente ogni intervento dal carattere agevolmente reversibile, in applicazione del principio che l’interesse pubblico deve essere realizzato con il minor sacrificio possibile dell’interesse privato.

6. L’indennità per la reiterazione del vincolo secondo il testo unico sull’espropriazione. – La questione dell’indennizzo per reiterazione dei vincoli espropriativi viene affrontata dall’art. 39 del testo unico sull’espropriazione, che prevede, “in attesa di una organica risistemazione della materia”, la corresponsione al proprietario di una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.

L’adunanza generale del Consiglio di Stato, nell’esprimere il proprio parere[29] su quello che sarebbe divenuto l’art. 39 del testo unico sull’espropriazione, aveva osservato che, commisurando l’indennità all’entità del danno effettivamente prodotto e considerando che, fino all’espropriazione, l’area continua ad essere utilizzata dal proprietario, si addossava a quest’ultimo l’onere di dimostrare il danno effettivamente subito a causa della reiterazione del vincolo.

Il comma 2 dell’art. 39 in esame dispone che, in mancanza di previsione della corresponsione dell’indennità negli atti di imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, l’autorità che ha disposto la reiterazione del vincolo è tenuta a liquidare l’indennità, entro il termine di due mesi dalla data in cui abbia ricevuto la documentata domanda di pagamento ed a corrisponderla entro i successivi trenta giorni, decorsi i quali sono dovuti anche gli interessi legali.

Al riguardo l’adunanza generale (nel citato parere) aveva sottolineato che la disposizione evita la pronuncia di annullamento del provvedimento di reiterazione del vincolo in caso di mancata previsione dell’indennizzo. Infatti, come già segnalato in precedenza dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 22 dicembre 1999 n. 24), la mancata previsione dell’indennizzo comporta l’annullamento degli atti che hanno reiterato il vincolo non integralmente o nella parte in cui hanno inciso sul bene, ma soltanto nella parte in cui l’indennizzo non sia stato previsto. Ciò perché l’indennizzo è dovuto direttamente per legge.

Infine, il comma 5 dell’art. 39 prevede il cumulo tra indennità per la reiterazione ed  indennità di espropriazione, escludendo decisamente che possa essere detratta la somma corrisposta a seguito della reiterazione del vincolo, quando successivamente il bene venga espropriato. La mancata fissazione della regola del cumulo avrebbe vanificato le sentenze della Corte costituzionale sulla indennizzabilità della reiterazione del vincolo, rendendo irrilevante questo indennizzo nei casi di aree successivamente espropriate.

 

Prof. Fabrizio Lorenzotti

Note:

[1] Non tutti sono convinti circa la costante ispirazione di fondo delle pronunce della Corte costituzionale in materia di espropriazione: G. ROLLA, Significato e limiti del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di indennizzabilità dei vincoli: alcune note critiche, in Giur. cost., 1976, I, p. 2080 ss., osserva che la Corte, con il passare degli anni, ha progressivamente attenuato la teoria sostanziale delle espropriazioni, intrecciandola con quella dell’atto singolare, in base alla quale assume natura espropriativa ogni restrizione non imposta in via generale. In tal modo sarebbero state poste le premesse affinché la posizione giuridica del proprietario risulti ampiamente sacrificata. Critiche vengono espresse anche da E. PELLECCHIA, Vincoli di inedificabilità e risarcimento del danno da occupazione illegittima, in Foro it., 1992, I, c. 1201 ss.; A. LIGUORI, Vincoli di inedificabilità tra poteri di reiterazione e indennizzo, in Urbanistica e appalti, 1999, p. 712 ss.; S. MANGIAMELI, I vincoli di piano alla resa dei conti davanti alla Corte costituzionale. Tra definizione dei principi e diretta liquidazione dell’indennizzo, in Giur. cost., 2000, p. 611 ss.

[2] Corte cost., 20 gennaio 1966, n. 6.

[3] Stessa sentenza della Corte cost. n. 6/1966 citata alla nota precedente.

[4] Corte cost., 10 maggio 1963, n. 64; Corte cost. 29 maggio 1968, n. 55.

[5] Corte cost. 29 maggio 1968, n. 55.

[6] Come osserva M. ALESIO, Pianificazione urbanistica e procedura espropriativa, in www.diritto.it, la Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza 5175/1978, ha operato la distinzione tra potere conformativo e potere espropriativo. Sul punto v. anche R. GISONDI, Le destinazioni urbanistiche a spazi pubblici sono sempre vincoli preordinati all’espropriazione?, in Urbanistica e appalti, 2002, p. 399 ss.; S. SALVAGO, Vincoli urbanistici e conformazione della proprietà, in Corriere giuridico, 2002, p. 923 ss.

[7] Corte cost. n. 55/1968.

[8] Cons. Stato, 4 novembre 1994,  n.1257.

[9] Cass., Sez. I, 29 novembre 1989, n. 5214; Cons. Stato, Sez. IV, 11 dicembre 1993, n. 1068; Cons. Stato, Sez. IV, 2 dicembre 1999, n. 1769.

[10] A proposito dei vincoli paesistici, la sentenza n. 11713 del 1998, delle Sezioni unite della Cassazione afferma che i beni immobili, qualificati bellezza naturale, costituiscono una categoria sin dall’origine di interesse pubblico per le particolari qualità, previste dalla legge, che essi hanno. Pertanto, l’amministrazione pubblica, quando impone dei vincoli paesistici, non ne modifica la qualità già esistente ma si limita a porla in risalto.

[11] Così Cons. Stato, Sez. V, 6 ottobre 2000, n. 5327, attribuisce valore conformativo alla destinazioni di piano regolatore a verde attrezzato e a servizi pubblici da realizzare sulla base anche di uno strumento urbanistico attuativo, escludendone la decadenza, una volta decorso il termine quinquennale di efficacia. Ciò perché questi vincoli sono espressione del principio per cui la pianificazione urbanistica ha luogo mediante l’attuazione dello strumento generale a mezzo dello strumento urbanistico esecutivo. Nei casi suddetti, la necessaria adozione dello strumento esecutivo non riguarda un bene determinato, ma intere categorie di beni prese in considerazione nello strumento generale. Invece, P. VIRGA, Natura ed effetti del vincolo di “verde attrezzato”, nota a Cons. Stato n. 5327/2000, in Urbanistica e appalti, 2001, p. 320 s., esprime perplessità sul fatto che il verde attrezzato a servizi pubblici da realizzare sulla base di uno strumento attuativo costituisca vincolo urbanistico conformativo, efficace a tempo indeterminato. Per T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, 22 dicembre 2001, n. 933, le destinazioni di aree a verde privato, previste dal piano regolatore generale per esigenze di tutela ambientale o paesistica – ai sensi dell’art. 7, comma 2, n. 5, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 – presentano la stessa valenza conservativa dei valori naturalistici della destinazione, di sicuro carattere conformativo, a zona agricola di alcune parti del territorio. Con entrambe le destinazioni il PRG intende costituire polmoni diretti a decongestionare o a contenere l’espansione dell’aggregato urbano. Il vincolo a verde privato e, più in generale, i vincoli preordinati alla tutela di prevalenti esigenze ambientali non possono essere annoverati nella categoria dei vincoli espropriativi dal momento che consentono al titolare di utilizzare in qualche modo il bene. In questo senso, pure Cons. Stato, Sez.  IV, 14 maggio 2000 n. 2934.

[12] Cass., Sez. I, 20 settembre 2001 n. 11866.

[13] Cons. Stato, Sez. IV, 10 novembre 1998, n. 1471.

[14] Un altro esempio di vincoli che non escludono la realizzazione degli interventi edificatori attraverso l’iniziativa economica privata, è dato dalla sentenza del T.A.R. Toscana, Sez. I, 15 maggio 2000, n. 888, riguardante una variante al piano regolatore generale che aveva destinato una determinata area a zona per impianti stradali di distribuzione carburanti. Infatti, una disposizione delle norme tecniche di attuazione del piano prevedeva che gli interventi per la costruzione dei relativi servizi e attrezzature potessero essere realizzati non solo da parte di enti pubblici, ma anche da parte di soggetti privati. Secondo la sentenza, si tratta di un vincolo non propriamente ablatorio, poiché esso importa una destinazione che non è realizzabile esclusivamente ad iniziativa pubblica, previa espropriazione, ma anche da un soggetto privato, senza necessità di ablazione del bene. Per T.A.R. Lazio, Sez. I, 17 aprile 2003 n. 3533, la previsione contenuta nel piano regolatore comunale della destinazione di un terreno a zona “F6-Servizi Pubblici”, integra, sostanzialmente, un vincolo preordinato all’espropriazione comportante inedificabilità dell’area. Dalla individuazione della natura e della portata del vincolo imposto dal piano regolatore – l’area viene destinata ad attrezzature pubbliche di istruzione, sanitarie, religiose e civili, la cui realizzazione è rimessa alla pubblica amministrazione, fatta eccezione per i servizi religiosi – si evince che il vincolo, comportando la non edificabilità ad opera di privati, preclude al proprietario la sua utilizzazione.

[15] Per Corte cost. 9 maggio 2003 n. 148il permanere della destinazione a verde pubblico attrezzato e strade pubbliche – essendo decaduta la dichiarazione di pubblica utilità derivante dalla inclusione in un PEEP e non essendovi previsione di realizzabilità attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato – comporta una proroga dell’efficacia di vincolo avente natura sostanzialmente espropriativa con l’obbligo specifico di indennizzo, una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo. Sui vincoli urbanistici in base al testo unico dell’espropriazione, v. M. BREGANZE, I vincoli urbanistici nel testo unico delle espropriazioni, in Riv. giur. urbanistica, 2002, II, p. 131 ss.; D. M. TRAINA, Il t.u. dell’espropriazione lascia irrisolto il nodo dei vincoli urbanistici. Due ipotesi per superare l’inerzia del legislatoreivi, II, p. 397 ss.; G. LAVITOLA, Urbanistica e tutela della proprietà tra Corte Costituzionale, Consiglio di Stato e testo unico sull’espropriazione, in Riv. giur. edilizia, 2002, III, p. 59 ss.

[16] La durata quinquennale del vincolo espropriativo ha posto il problema di confinamento nell’utopia di molte previsioni dei piani regolatori comunali, cfr. G. PIFFERI, Il piano regolatore generale: utopia o valido strumento urbanistico?, in Nuova rass. legisl. dottr. giurispr., 1973, p. 1142 s.

[17] Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 1992, n. 226; Cons. Stato, Sez. IV, 5 luglio 1995, n. 541; Cons. Stato, Sez. V, 12 dicembre 1999, n. 2107; T.A.R. Veneto, 16 novembre 1995, n. 1364.

[18] Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 1995 n. 439; Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2002 n. 3999.

[19] T.A.R. Lazio, Latina, 11 febbraio 1993, n. 138; T.A.R. Lazio, Sez. II,  23 novembre 1993, n. 1440; T.A.R. Calabria, Catanzaro, 17 dicembre 1996, n. 899; T.A.R. Campania, Sez. I, 26 ottobre 1998, n. 3290; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 12 novembre 1998, n. 1358; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 21 gennaio 1999, n. 12; T.A.R. Abruzzo, 16 marzo 1999, n. 138; T.A.R. Marche, 25 settembre 1999, n. 1041.

[20] Cons. Stato, Sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 6415; Cons. Stato, Sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256.

[21] Cons. Stato, Sez. IV, 5 giugno 1995, n. 411. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. II, 25 gennaio 1989, n. 1412; T.A.R. Toscana, Sez. II, 17 luglio 1989, n. 719; Cons. Stato, Sez. IV. 3 maggio 1990, n. 330.

[22] TAR Marche n. 242/2002.

[23] Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 1994, n. 26.

[24] Sui problemi relativi alla motivazione, cfr. L. COEN, Reiterazione di vincoli urbanistici, in Studium iuris, 2000, p. 344 s.

[25] Cfr. G. DE MARZO, Reiterazione dei vincoli di inedificabilità e indennizzo, in Giur. it.,  1999, c. 2155 s.

[26] P. STELLA RICHTER, A proposito dei vincoli a contenuto sostanzialmente espropriativo, in Giust. Civ., 1999.

[27] Così P. STELLA RICHTER, A proposito dei vincoli a contenuto sostanzialmente espropriativo, cit.

[28] Come osserva P. STELLA RICHTER, op. cit.

[29] Parere 29 marzo 2001 n. 4/2001.

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Nota-L’ intervento è  stato pubblicato sul numero 2-3/2003 della Rivista: Le “Corti Marchigiane”.

Redazione

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