Rapporto tra CEDU e ordinamento interno
Con l’adesione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e la ratifica della stessa, l’Italia si è impegnata a riconoscere sul suo territorio i diritti e le libertà contenute nella predetta convenzione.
È ormai pacifico che l’obbligo di riconoscere i diritti contenuti nella CEDU vada inquadrato nell’ambito dell’art. 117, comma 1 Cost., in base al quale la potestà legislativa deve essere esercitata nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale.
In forza di tale inquadramento, la Corte Costituzionale ha riconosciuto alla CEDU un rango subordinato alla Costituzione ma sovraordinato rispetto alla legge ordinaria.
Tale impostazione comporta l’attrazione delle norme contrastanti con la Convenzione nella sfera del sindacato accentrato della Corte Costituzionale: il giudice che si trovi ad applicare una norma potenzialmente confliggente con la CEDU dovrà in prima battuta tentare un’interpretazione convenzionalmente orientata e, nel caso in cui ciò non sia possibile, sollevare questione di legittimità costituzionale.
Il controllo del rispetto delle norme CEDU da parte del legislatore nazionale non è però rimesso al solo sistema del sindacato di legittimità accentrato della Corte Costituzionale.
Nel sistema CEDU riveste un ruolo fondamentale la Corte Europea dei diritti dell’uomo, il cui funzionamento è disciplinato dagli artt. 19 e ss. della Convenzione.
La Corte, infatti, ha un duplice ruolo: da un lato, in qualità di giudice di ultima istanza nelle controversie aventi ad oggetto le materie della Convenzione, vigila sulla corretta applicazione nel caso concreto delle norme CEDU; dall’altro, esercita una fondamentale funzione nomofilattica indicando le opzioni interpretative che i giudici nazionali devono seguire al fine di assicurare il rispetto della CEDU e la sua omogenea applicazione da parte degli Stati contraenti.
In questa duplice ottica, ai fini di chiarire l’efficacia delle sentenze della Corte EDU nei confronti degli Stati contraenti, occorre distinguere gli effetti prodotti con riferimento alle parti del giudizio e gli effetti che queste stesse sentenze spiegano al di fuori di tali casi e in relazione a soggetti che non sono parti del giudizio.
Effetti delle sentenze CEDU al di fuori dei casi decisi
Non vi è dubbio che le sentenze della Corte EDU vincolino il giudice nazionale, dinnanzi al quale venga in rilievo l’applicazione di una norma della CEDU, a uniformarsi alla giurisprudenza europea formatasi sulla medesima norma. La Corte Costituzionale (con sentenza n. 49/2015) ha però recentemente precisato che tale obbligo sussiste solo a fronte di orientamenti consolidati della Corte EDU.
In questo si esauriscono gli effetti delle sentenze CEDU in relazione a situazioni non oggetto del casus decisus. Occorre però segnalare un ulteriore effetto indiretto, laddove la Corte Costituzionale provveda a dichiarare l’illegittimità del diritto interno che risulti contrastante con una norma della Convenzione come interpretata dalla Corte EDU (o provveda a fornire una interpretazione convenzionalmente orientata). In tal caso, essendo la norma oggetto di sindacato costituzionale rilevante per la decisione del caso di specie, la sentenza si ripercuoterà nel giudizio a quo.
Effetti delle sentenze CEDU nel caso deciso
Con riferimento al caso concreto, invece, quando la Corte EDU rileva una violazione della Convenzione, in base ad una lettura evolutiva degli artt. 41 e 46 della Convenzione, può condannare lo stato responsabile della violazione: (i) al pagamento dell’equa soddisfazione, ove attribuita dalla Corte ai sensi dell’art. 41 della CEDU; (ii) all’adozione, se del caso, di misure individuali necessarie all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata; (iii) all’introduzione di misure generali volte a far cessare la violazione derivante da un atto normativo o da prassi amministrative o giurisprudenziali e ad evitare violazioni future.
Occorre precisare però che tali statuizioni non hanno un’efficacia esecutiva diretta, ma si limitano a porre in capo allo stato un obbligo di risultato, potendo l’alta parte contraente scegliere le misure ritenute più opportune.
La Corte EDU, infatti, ha costantemente affermato che in linea di principio non spetta ad essa indicare le misure atte a concretizzare la restitutio in integrum o le misure generali necessarie a porre fine alla violazione convenzionale, restando gli Stati liberi di scegliere i mezzi per l’adempimento di tale obbligo, purché compatibili con le conclusioni contenute nelle sue sentenze.
Sul punto: “Il ricorso individuale alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo“
Non è necessaria la revocazione della sentenza
Vi sono, d’altra parte, delle ipotesi in cui l’unica misura idonea a porre rimedio alla violazione della norma CEDU riscontrata dalla Corte sembrerebbe consistere nella riapertura del processo, sebbene questo si sia concluso con sentenza passata in giudicato.
In particolare, la Corte EDU ha più volte rilevato come la riapertura del processo rappresenti il mezzo più appropriato per operare la restitutio in integrum nel caso di violazione delle norme sul giusto processo (art. 6 CEDU).
L’Italia, però, a differenza di altri stati membri del Consiglio d’Europa, non ha provveduto ad adottare, sul piano normativo, una disciplina generale volta a garantire la riapertura dei processi giudicati non equi dalla Corte Europea.
In effetti, in ambito penale, la Consulta (con sentenza n. 113/2011) ha fatto ricorso ai propri poteri additivi dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede la revisione della sentenza di condanna passata in giudicato anche nel caso in cui ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU. Tale intervento additivo, che comprime il principio di intangibilità del giudicato, risulta senz’altro giustificato alla luce delle esigenze di garanzia della libertà personale che vengono in rilievo nell’ambito del processo penale.
Ci si è domandati se un simile intervento ampliativo sia da compiere anche nell’ambito del diritto processuale amministrativo, in particolare ampliando i casi di cui è possibile esperire il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 106 c.p.a. e 395 c.p.c..
In proposito la Consulta è però pervenuta ad una soluzione diversa rispetto a quanto esposto con riferimento all’ambito penale.
Innanzitutto, la Corte Costituzionale (con sentenza n. 123/2017) ha evidenziato come la Corte Edu, pur incoraggiando gli Stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, abbia anche affermato che è rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, “senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare” (così Corte Cost. n. 123/2017 che cita Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina).
Inoltre, la necessità di un intervento additivo è stata esclusa per due ordini di ragioni.
In primo luogo, il giudicato amministrativo non pone un problema di compressione della libertà personale che giustifichi il sacrificio della stabilità della res iudicata (come in ambito penale).
In secondo luogo, è nella fisiologia del processo amministrativo la compresenza di una pluralità di soggetti portatori di diversi interessi. Ciò posto, occorre considerare che nell’ambito del giudizio innanzi alla CEDU il coinvolgimento di tali soggetti è solo eventuale, in quanto rimesso alla discrezionalità del presidente della Corte (art. 36 CEDU). Di conseguenza, l’automatica caducazione del giudicato amministrativo contrastante con il diritto CEDU potrebbe comportare il sacrificio degli interessi di tali soggetti in assenza di un previo contraddittorio.
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