L’equiparazione si basa su un dato: quando la legge si trova a fronteggiare una situazione d’emergenza, appronta degli strumenti utili nell’immediato come appunto l’improvvisazione di un centro per stranieri irregolari in uno stadio da calcio.
Carofiglio nel 2008 ha utilizzato un’espressione, durante una seduta in Senato, molto appropriata per descrivere i centri di trattenimento per irregolari, che allora si chiamavano Cie (ora Cpr): “galere amministrative”1, poiché sono “oggettivamente, un carcere” anche se formalmente sono qualificate come amministrative, appunto.
Incostituzionalità dei centri
Il discorso vale anche per gli odierni hotspot, centri o semplicemente luoghi circoscritti, in cui avviene una sorta di smistamento: i migranti appena giunti sul territorio italiano, nei porti o nella vicinanza delle frontiere, dovrebbero qui essere identificati e ricevere, oltre alle prime cure, un’adeguata informativa riguardo al diritto d’asilo.
Qualora i migranti chiedano il riconoscimento della protezione internazionale divengono, infatti, richiedenti asilo e hanno diritto alle misure d’accoglienza; dagli hotspot vengono quindi trasferiti in altri centri che sono chiamati d’accoglienza (di vario genere: CAS, SPRAR e così via) o vengono rimessi in libertà.
I migranti che rimangono nel circuito dell’irregolarità si vedono ristretta la propria libertà personale poiché sono costretti a raggiungere i Centri di Permanenza per il Rimpatrio o a rimanere negli hotspot per un tempo indeterminato. nella maggioranza dei casi in totale assenza di un provvedimento espresso della Pubblica Amministrazione e/o di convalida dell’autorità giudiziaria.
Anche chi viene colto in una posizione di irregolarità nel territorio nazionale, come noto, dopo aver ricevuto un decreto di espulsione del Prefetto, viene trattenuto nei CPR sulla base di un provvedimento questorile.
Innanzitutto, si dice, nei centri per irregolari è violato l’art. 13 della Costituzione. Possiamo in effetti considerarlo un dato pacifico: gli hotspot sono retti da Roadmap2 e Standard Operative Procedure3, nessuno dei quali è un atto legislativo o normativo; i Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono disciplinati nel regolamento 394/99 il quale è una fonte secondaria del diritto e che, comunque, nulla dispone in ordine al rispetto delle singole e specifiche libertà dei trattenuti.
L’art. 14 del Testo unico, d.lgs. 286/98, dispone soltanto il rispetto della dignità umana delle persone trattenute nei CPR e l’art. 10-ter, introdotto dal cd Decreto Minniti, si limita a “riconoscere” l’esistenza degli hotspot ma non ne indica i requisiti in alcun modo.
I modi e i tempi della restrizione della libertà personale ai danni dei migranti cd irregolari sono completamente arbitrari: la CEDU si è espressa più volte intorno al parametro dell’art. 5 della Carta dei diritti fondamentali, condannando i centri per gli stranieri quali violazioni del diritto alla libertà personale4. Da ultimo la condanna più pesante si è rivelata quella nei confronti del CPSA di Lampedusa, nella nota sentenza Khlaifia c. Italia5.
Ma l’incostituzionalità non è abbastanza: da una parte sollevare il dubbio dinnanzi al Giudice delle Leggi non ci rassicura riguardo al risultato. Più volte la Corte Costituzionale ha ribadito, come nella storica sentenza 105/2001, come il legislatore sia fondamentalmente libero di qualificare in modo diverso, e regolare di conseguenza in modo diverso, due situazioni di fatto che reputa differenti, in quanto la parità di trattamento è un obbligo dinnanzi a due condizioni considerate simili.
D’altra parte, se la Corte Costituzionale ritenesse illegittimi, come pure sono, i centri di trattenimento in base all’art. 13 Cost., gli stranieri ivi ristretti rimarrebbero ancor di più senza alcuna tutela: non ci sarebbe alcuna normativa atta a colmare il vuoto legislativo. Nella visione più ottimistica, la Corte, una volta investita della questione, si limiterebbe semplicemente ad invitare il legislatore a introdurre una normativa più conforme ai dettami dell’art. 13 della nostra Carta Costituzionale.
Un passo avanti: la qualificazione penale
Al fine di garantire maggiori tutele a chi giunge sul territorio italiano e rimane imbrigliato nel filo spinato dei centri di trattenimento, sarebbe risolutivo qualificarli come penali e assicurare a chi è trattenuto tutte le garanzie che sono assicurate a chi è detenuto in carcere.
Che si consumi una restrizione della libertà personale atroce e assoluta come all’interno delle prigioni divieto di usare delle semplici penne, al fine di impedire atti di autolesionismo; analogamente, all’interno dei centri non è ammesso l’utilizzo di apparecchi radiofonici o televisivi.
L’equivalenza fra centri di trattenimento per irregolari, in realtà, è stata riconosciuta, a mio parere, anche se solo implicitamente, da entrambi gli ultimi interventi legislativi in materia di immigrazione. Innanzitutto, dal cd. Decreto Minniti-Orlando, in cui si fa rinvio all’art. 67 dell’ordinamento penitenziario, che disciplina le visite in carcere di soggetti istituzionali quali i ministri, i giudici della Corte costituzionale, il prefetto della provincia e altri: quindi tali soggetti potranno recarsi liberamente senza autorizzazione anche nei centri di trattenimento per immigrati irregolari. Lampante è l’assimilazione delle due restrizioni della libertà personale anche alla luce del ruolo svolto dal Garante dei detenuti. Anche questi infatti può recarsi liberamente nei centri di trattenimento per migranti e, ai sensi dell’art 7 del decreto 146 del 2013, tanto per i detenuti quanto per gli immigrati irregolari, assume, fra le altre attribuzioni, il ruolo di controllore di tutte le forme di restrizione della libertà personale, è tenuto cioè a verificare che queste siano attuate nel rispetto dei principi stabiliti dalla Costituzione e «dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti»
Nella relazione illustrativa al decreto cd Sicurezza, infine, la disposizione che prevede altri luoghi idonei in cui possono verificarsi alcuni casi di trattenimento, “è analoga a quella di cui all’articolo 558, comma 4-bis, del codice di procedura penale, con riferimento all’ipotesi ivi prevista della convalida dell’arresto e giudizio direttissimo”.
La nozione di “materia penale” elaborata dalla Corte di Strasburgo si fa risalire al caso Engel6, in cui per la prima volta fece capolino la nozione di sanzione sostanzialmente penale, e i Giudici europei sancirono che la nozione di materia penale potesse essere utilizzata soltanto nei casi in cui lo Stato di riferimento non qualificasse quella data misura come penale, appunto. In questa sentenza si valorizzò più che altro la gravità della sanzione, in termini quantitativi che sono parsi subito alla Corte troppo discrezionali, atti ad essere chiarificatori in una comparazione fra due misure omogenee nel concreto ma che non permetteva l’individuazione di una soglia di rilevanza. Il rischio era cioè quello di non dare una soluzione agli inconvenienti di logiche “non formali” quali quelle utilizzate nella nozione sostanziale di pena dalla Corte. Rischio scongiurato nel passo successivo, che fu la sentenza Ozturk, in cui la natura della sanzione e lo scopo da essa perseguito costituirono il perno delle argomentazioni della Corte. Il grado di severità della sanzione fu considerato piuttosto un criterio sussidiario.
Gravità e scopo si alternano nelle sentenze successive del giudice europeo, prevalendo a volte la prima, a volte il secondo; quest’ultimo, via via, ha preso il sopravvento nelle decisioni europee, che si sono infatti rivolte verso l’importanza della natura della sanzione connessa al suo scopo teleologico. Della gravità della restrizione che avviene nei centri già si è detto: non si può uscire né rientrare liberamente, sono luoghi chiusi, recitati con il filo spinato e soprattutto, il Questore ha il potere di utilizzare la forza fisica al fine di ripristinare il trattenimento stesso. I centri sono situati ai margini delle città, fisicamente e “socialmente”, in luoghi molto lontani, difficili da raggiungere e conseguentemente difficili da documentare.
Per quanto riguarda il secondo dei criteri cd Engel, lo scopo del trattenimento nei centri è evidentemente punitivo: se così non fosse si utilizzerebbero in modo molto più ampio le altre misure meno coercitive come l’obbligo di presentazione in questura ogni due giorni e altre misure che ugualmente sono previste dal testo unico.
Soprattutto: leggendo le statistiche si evince che pochissimi trattenimenti si concludono davvero con l’espulsione.
Qualificare penalmente un istituto che originariamente in Italia era nato come amministrativo, in seguito alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è già avvenuto: nel diritto sostanziale, grazie ai casi Sud Fondi srl 7 e Varvara 8, oggi la confisca è una misura sostanzialmente penale; in seguito alla sentenza di Strasburgo sul caso Grande Stevens9, il procedimento di applicazione della sanzione tributaria ex art. 187-ter del testo unico in materia finanziaria, è penale nonostante la sanzione in sé sia nata come amministrativa. I giudici interni, pur se riluttanti, hanno dovuto applicare la nozione creata dalla giurisprudenza europea: Nella sentenza n. 196 del 2010 la Corte Costituzionale ha effettivamente applicato tale principio, ad esempio, in materia di confisca del veicolo ai sensi del codice della strada, affermando che «dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto».
Potrebbe, perciò, non essere così rivoluzionario come sembra invocare le norme sovranazionali nel caso dei centri di trattenimento, completando l’opera avviata con la confisca di diritto sostanziale, con l’equiparazione dei centri alle carceri, strumento principe dell’esecuzione penale.
L’ultimo segmento del diritto penale è stato già “toccato” dai criteri Engel: nel caso M. contro Germania le misure di sicurezza per i socialmente pericolosi, amministrative per il diritto tedesco, sono state qualificate come penali dalla Corte di Strasburgo.
Considerare penali CPR e hotspot vorrebbe dire applicare ad essi i principi dell’ordinamento penitenziario, come il diritto all’igiene personale e alla libertà di religione, finalmente ad un livello di legislazione primaria. Soprattutto potremmo porre fine alle ripetute violazioni dei diritti umani che si consumano in tutti i centri di trattenimento d’Italia, puntando i riflettori sulle modalità della detenzione che si esplica all’interno degli stessi, e tutelando i trattenuti, perché no, anche attraverso i rimedi post sentenza Torreggiani. Anche nei centri, infatti, si verificano quelle “condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”10 che potrebbero portare al risarcimento di questi irreparabili e gravissimi danni, così come già avviene per i detenuti nelle carceri.
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Resoconto stenografico della seduta n. 090 del 12/11/2008, Senato, Legislatura 16ª, disponibile sul sito www.senato.it.Note
- Circolare del Ministero dell’Interno n. 14106 del 6 ottobre 2015.
- Del marzo 2016, disponibili sul sito www.interno.gov.it.
- Ad esempio, Corte EDU, 26 febbraio 2010, ricorso n. 8256/07, sez. I, caso Tabesh c. Grecia
- Grande Chambre, Ricorso n.16483/12
- Corte EDU 8 giugno 1976, caso Engel c. Paesi Bassi, ricorsi nn. 5100/71; 5101/71; 5102/71; 5354/72; 5370/72, disponibile su www.hudoc.echr.coe.int
- Corte EDU 20 gennaio 2009, II sez., ricorso n. 75909/0
- Corte EDU 29 ottobre 2013, II sez., ricorso n. 17475/0
- Corte EDU 4 marzo 2014, II sez., ricorsi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/2010.
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