La “proporzionalità” della confisca urbanistica: la Cassazione “vanifica” il contenuto della pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

SOMMARIO: 1. Introduzione alla confisca urbanistica di cui all’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001 nella giurisprudenza interna e convenzionale. – 2. La violazione dell’art. 1, Prot. 1 addizionale alla C.E.D.U. ed il principio di “proporzionalità” nella giurisprudenza convenzionale e comunitaria. – 3. La sentenza della Cassazione n. 8350/2019: alias, l’insoddisfacente risposta della giudice di civil law alla sentenza della Corte E.D.U. del 28.6.2018.

1.Introduzione alla confisca urbanistica di cui all’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001 nella giurisprudenza interna e convenzionale

La sentenza in commento, con cui – secondo quanto riferito dalla stessa Suprema Corte di Cassazione – “per la prima volta viene presa in considerazione” la sentenza della Gran Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di confisca urbanistica ex art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001, non mancherà certo, per la sua ricchezza espositiva ed importanza pratica, di costituire oggetto di intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Rispetto a quest’ultimo lo scopo della presente nota vuol essere soltanto “divulgativo” ed è, dichiaratamente, parziale: ci si soffermerà più diffusamente, in altri termini, soltanto in rapporto ad una delle (tante) declinazioni della pronuncia, ovvero alla violazione del principio di “proporzionalità” della confisca urbanistica dichiarata dalla Corte di Strasburgo ai sensi dell’art. 1, Prot. 1 della Convenzione ed alla (per vero, assai limitativa) lettura che la Suprema Corte ha dato di tale valore.

Il d.P.R. n. 380 del 2001, all’art. 44, comma 2 testualmente stabilisce che: “la sentenza definitiva che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”.

La Corte di Cassazione, sul punto, fino a tempi recenti non aveva mancato di ribadire che la confisca dei terreni poteva essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purché fosse accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (sez. III, n. 17066 del 4 febbraio 2013, Volpe, Rv. 255112; nonché, ex plurimis, sez. III, n. 39078 del 13 luglio 2009, Apponi; sez. III, n. 30933 del 19 maggio 2009, Costanza).

La tesi, come è noto, faceva essenzialmente leva su un argomento di ordine testuale, dal momento che la disposizione innanzi riprodotta presuppone soltanto che la sentenza “accerti” la lottizzazione abusiva, senza che ciò avvenga necessariamente per il tramite di una sentenza di condanna; nonché su un rilievo di tipo “strutturale”, in quanto la confisca in esame avrebbe natura di sanzione amministrativa che, come tale, può trovare applicazione anche senza una sentenza di condanna penale.

Nelle pronunce della Corte EDU nel caso Sud Fondi c. Italia, tanto in sede di ricevibilità che di merito, gli indicati approdi della giurisprudenza nazionale furono, invece, profondamente intaccati quanto alla natura della confisca urbanistica ed alle conseguenze che se ne devono trarre sul versante del rispetto delle garanzie assicurate dall’art. 7 della Convenzione.

Vagliando analiticamente quella forma di confisca alla luce dei principi elaborati dalla stessa giurisprudenza convenzionale, in particolare nella sentenza Welch c. Regno Unito del 9 febbraio 1995, la Corte ritenne che la stessa, in ragione degli scopi prevalentemente repressivi che la connotano, abbia natura penale, risultando pertanto attratta nella sfera di applicabilità dell’art. 7 della Convenzione.

Da ciò il corollario che la legge dalla quale scaturisce la possibilità di infliggere una sanzione di tipo penale debba presentare i caratteri della accessibilità – vale a dire la conoscibilità e intelligibilità da parte dell’individuo del precetto contenuto nella norma giuridica – e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie cui si espone il contravventore.

In sostanza, la C.E.D.U. mantenne fede al proprio tradizionale insegnamento secondo il quale, ad evitare da parte delle legislazioni nazionali una “truffa delle etichette” in relazione alla qualificazione giuridica del proprio apparato sanzionatorio – degradando a livello amministrativo sanzioni che invece presentino indicatori tali da farle refluire nel terreno delle pene – è necessario procedere ad una disamina concreta delle singole misure, secondo una linea che superi il mero dato formale costituito dalla qualificazione attribuita dalle singole legislazioni nazionali.

La confisca prevista dall’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001 avrebbe, quindi, natura penale e, come tale, non potrebbe prescindere da una affermazione di condanna.

Di inequivoca interpretazione è stata, sul punto, anche la nota ed ulteriore sentenza della Corte EDU del 29 settembre 2013 nel caso Varvara c. Italia.

Ivi la Corte si è pronunciata sempre sul tema della confisca urbanistica, ma in un caso in cui la misura era stata applicata con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione e, ribadita la natura penale della misura, ha ritenuto violato il principio di legalità in materia penale, sancito dall’art. 7 della Convenzione e, per l’effetto, compromesso anche il diritto di proprietà garantito dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione, in conseguenza della riscontrata menomazione che quel diritto aveva subito in dipendenza di una sanzione penale illegittimamente applicata.

Secondo i giudici di Strasburgo, in particolare, non potrebbe essere concepito un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale accertata in una sentenza di colpevolezza, subisca una pena: “La logica della pena e della punizione – sottolinea la Corte Europea – e la nozione di guilty (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di personne coupable (nella versione francese) depongono a favore di un’interpretazione dell’art. 7 che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore”.

Di rilievo risulta, al riguardo, soprattutto l’affermazione contenuta al paragrafo 72 della sentenza Varvara, secondo cui l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione non può ritenersi equivalente ad un accertamento di responsabilità e pertanto la statuizione di confisca viola il principio di legalità penale.

Con questi principi, espressi dalla Corte EDU con le predette sentenze, si è successivamente confrontata anche la giurisprudenza delle Sezioni semplici (cfr., ex pluribus, Cass., sez. I, 20.1.2015 – 20.2.2015, n. 7860; Cass., sez. VI, 9.11.2017, n. 51988) e, soprattutto, Unite della Suprema Corte di Cassazione.

Nella sentenza – Lucci – del 21.7.2015 (ud. 26.6.2015), n. 31617, in particolare, si condivide la natura penale della confisca prevista dall’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001.

“La qualificazione formale, invero, non vale quando il diritto interno qualifica il fatto come violazione di natura amministrativa o disciplinare, giacché, in tal caso, scattano gli ulteriori due criteri elaborati dal Strasburgo: criteri, non più fondati sul nomen della misura o della sanzione, ma su indicatori di tipo sostanziale e, di regola, alternativi fra loro, a meno che sia richiesto un ‘approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni altro criterio non permetta di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una accusa in materia penale’ (sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia; sent. 31 luglio 2007, Zaicevs c. Lettonia; sent. 23 novembre 2006 Jussila c. Finlandia). Da un lato, sottolinea infatti la Corte EDU, occorre verificare la natura della violazione, desunta in particolare dal suo ambito applicativo – che deve essere generale, e non limitato agli appartenenti ad un ordinamento particolare, dal momento che in tal caso la violazione assumerebbe caratteristiche di tipo disciplinare – e dagli scopi (di tipo punitivo e deterrente, e non meramente riparatorio o preventivo) per i quali la sanzione è prevista. Dall’altro lato – ed è questo il criterio sul quale assai spesso ha finito per misurarsi la valutazione dei giudici di Strasburgo – occorre aver riguardo alla natura ed alla gravità delle conseguenze che l’ordinamento fa scaturire dalla specifica violazione contestata”.

“In una simile prospettiva – motivano le SS.UU. della S.C. – devono pertanto essere respinte le tesi di chi ritiene sufficiente, ai fini della confisca, un mero accertamento incidentale della responsabilità, dal momento che ciò si tradurrebbe in una non consentita trasformazione della confisca in una tipica actio in rem, lumeggiata nel corso del complesso procedimento di approvazione, ma poi non recepita dalla direttiva 2014/42/UE del 3 aprile 2014 relativa ‘al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione Europea’, dal momento che anche tale strumento della Unione Europea continua a prevedere la condanna come base per la confisca, anche per equivalente, dei beni strumentali e dei proventi da reato.

L’accertamento della responsabilità deve dunque confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo del reato stesso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

L’intervento della prescrizione, dunque, per poter consentire il mantenimento della confisca, deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per ‘confermare’ la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’art. 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.”

Il dibattito sulla questione si è arricchito anche dell’apporto della Corte Costituzionale che, fornendo una lettura “restrittiva” della giurisprudenza convenzionale, con la sentenza del 26 marzo 2015, n. 49  ha dichiarato inammissibile la dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 cit. D.P.R. 380/2001, affermando incidentalmente che: “la confisca urbanistica costituisce sanzione penale ai sensi dell’art. 7 della CEDU e può pertanto venire disposta solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti”; “nel nostro ordinamento (tuttavia) l’accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l’imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede acquirente del bene (sentenze n. 239 del 2009 e n. 85 del 2008)”.

Tale interpretazione – oggi –  pare potersi revocare in dubbio sulla base dell’introduzione dell’art. 578 bis c.p.p. (“Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”) ad opera del D. Lgs. 1.3.2018, n. 21; e tanto nonostante la più recente pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con la sentenza del 28 giugno 2018, ha statuito che: “E’ compatibile con l’articolo 7 della Cedu la confisca urbanistica disposta a seguito del proscioglimento per intervenuta prescrizione allorquando sia comunque accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva in tutti i suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi”; tuttavia, “con riferimento al principio per il quale un soggetto non può essere punito per un atto relativo alla responsabilità di altri, una confisca disposta nei confronti di soggetti o enti che non siano parti nel procedimento che la infligge è incompatibile con l’articolo 7 della Cedu”; inoltre “risulta violato l’articolo 1 del Protocollo 1 alla Convenzione Edu laddove venga disposta la confisca obbligatoria in caso di accertamento del reato di lottizzazione abusiva in quanto tale provvedimento della pubblica autorità interferisce con la proprietà privata in modo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito”.

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La violazione dell’art. 1, Prot. 1 addizionale alla C.E.D.U. ed il principio di “proporzionalità” nella giurisprudenza convenzionale e comunitaria

Quanto, in particolare, alla inosservanza dell’art 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla C.E.D.U., la Grande Camera ha inequivocabilmente statuito che: “Risulta violato l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione Edu laddove venga disposta la confisca obbligatoria in caso di accertamento del reato di lottizzazione abusiva in quanto tale provvedimento della pubblica autorità interferisce con la proprietà privata in modo sproporzionato rispetto allo scopo perseguito”.

Il principio di proporzionalità è uno dei valori fondamentali del costituzionalismo europeo e rappresenta uno dei principi generali del diritto comunitario. Costituisce, infatti, il principale parametro per valutare la legittimità degli atti comunitari, delle leggi e degli atti nazionali in relazione agli obiettivi prefissati dall’Unione europea.

In forza del principio di proporzionalità, un atto comunitario che impone obblighi e divieti deve considerarsi legittimo se è idoneo e necessario a garantire e rispettare gli obiettivi che l’azione comunitaria persegue. L’azione comunitaria intrapresa non deve quindi oltrepassare lo stretto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Il criterio di proporzionalità, in altri termini, si declina nelle componenti di idoneità (al raggiungimento degli scopi perseguiti) e necessità (a tal fine) della misura ed, inteso in senso stretto, ha la finalità di imporre un bilanciamento tra posizioni giuridiche differentemente tutelate ovvero tra interessi pubblici ed interessi individuali.

Tale criterio, pertanto, tutela i diritti dei soggetti individuali in modo che gli obiettivi pubblici, che devono essere perseguiti dalle istituzioni, non pregiudichino eccessivamente i diritti dei singoli cittadini.

Il principio di proporzionalità è entrato a far parte del diritto comunitario dalla nascita della prima Comunità europea (lo stesso, nel contesto di espansione del liberalismo economico, motore dell’evoluzione della Comunità europea, si configurava come mezzo atto a regolare il mercato economico europeo, in contrapposizione ai meccanismi di restrizione della libertà d’impresa) ed è contenuto in diverse disposizioni di diritto europeo: nell’art. 5 del Trattato sull’Unione europea, introdotto attraverso il Trattato di Maastricht del 7 febbraio del 1992; in seguito, nel Trattato di Amsterdam del 12 ottobre del 1997, che ha inserito il Protocollo sui principi di sussidiarietà e di proporzionalità all’interno del TCE.

L’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, poi, ammette la possibilità di apportare limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà proclamati dalla stessa ma sancisce che i principi fondamentali possono essere limitati nel loro esercizio solo qualora le restrizioni apportate siano dettate da effettivi interessi di natura generale o qualora vi sia la necessità di tutelare le altrui libertà e/o gli altrui diritti. La restrizione dei diritti fondamentali, tuttavia, seppur consentita, non potrà in alcun modo interferire con il contenuto sostanziale degli stessi, nemmeno al verificarsi delle sopra esposte condizioni di restrizione.

Il principio di proporzionalità influenza quindi l’attività delle istituzioni europee sia per quanto concerne gli atti limitativi delle libertà fondamentali nel momento della loro formazione normativa, che per quanto concerne il giudizio di legittimità nel momento della loro effettiva applicazione

Il sistema, cosi come sopra descritto, conferisce un ruolo di primaria rilevanza al giudice, che ha il compito di bilanciare i diritti e le libertà fondamentali, applicando il principio di proporzionalità al singolo caso concreto.

Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo il principio di proporzionalità rappresenta il parametro fondamentale per sancire la legittimità dei limiti ai diritti ed alle libertà riconosciuti e tutelati dalla Cedu. Questa, infatti, individua i diritti e le libertà condivisi tra gli Stati che hanno aderito alla stessa. Gli Stati che hanno aderito alla suddetta Convenzione hanno però anche la facoltà di adottare misure restrittive all’esercizio dei diritti e delle libertà in essa tutelati al fine di perseguire gli obiettivi di interesse generale. In tale contesto, il principio di proporzionalità viene utilizzato nella giurisprudenza della Corte europea per valutare il corretto bilanciamento nel rapporto tra le libertà fondamentali della Cedu e gli interessi pubblici che i singoli Stati vogliono perseguire.

Il principio di proporzionalità viene utilizzato inoltre come criterio per stabilire il limite di restrizione delle libertà fondamentali anche a livello dei singoli Stati membri e, pertanto, per verificare l’idoneità della normativa nazionale che regolamenta i suddetti diritti fondamentali sanciti dalla Cedu. Il principio di proporzionalità tende così a configurarsi quale criterio determinante per la generale protezione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione.

Sul punto:”La Corte Edu chiarisce alcune problematiche afferenti l’istituto della confisca”

La sentenza della Cassazione n. 8350/2019: alias, l’insoddisfacente risposta della giudice di civil law alla sentenza della Corte E.D.U. del 28.6.2018

 Non sembra che, tramite la pronuncia in commento, la Suprema Corte di Cassazione si sia adeguatamente confrontata con simili principi.

La Corte, infatti, ha ritenuto conforme ai principi convenzionali la confisca di tutte le aree abusivamente lottizzate (ovvero di tutti quei beni immobili (terreni e manufatti) direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali), indipendentemente dalla presenza o meno di volumi, mentre tale misura ablativa non potrebbe mai riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva nel senso dianzi delineato, ponendosi una simile evenienza platealmente in contrasto con i richiamati principi.

Ha escluso, inoltre, un regime di “automatismo” nell’applicazione della sanzione in quanto “la confisca ordinata dal giudice penale non è affatto un evento scontato, automatico ed inevitabile”: “l’art. 30, comma 7 d.P.R. 380/01 stabilisce, infatti, che, indipendentemente dal processo penale, quando il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale accerti l’effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la prescritta autorizzazione, deve emettere ordinanza da notificare ai proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 29 del medesimo d.P.R., disponendo la sospensione dell’attività. Il provvedimento comporta l’immediata interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine nei registri immobiliari. Il comma 8 del medesimo articolo stabilisce, inoltre, che, trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di sospensione, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere”.

Ha enfatizzato, infine, “la rilevanza, rispetto al provvedimento di confisca, di provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa prima o dopo il passaggio in giudicato della sentenza, affermandosi che tali provvedimenti, pur non producendo effetti estintivi del reato di lottizzazione abusiva, che la legge non prevede espressamente, comportano, quale conseguenza, se legittimamente emanati prima del passaggio in giudicato della sentenza, l’impossibilità per il giudice di disporre la confisca, perché l’autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune (Sez. 3, n. 23154 del 18/5/2006, Scalici, Rv. 234476. Conf. Sez. 3, n. 15404 del 21/1/2016, Bagliani e altri, Rv. 266811, in motivazione; Sez. 3, n. 43591 del 18/2/2015, Di Stefano e altri, Rv. 265153; Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013 (dep.2014), Franco e altro, Rv. 258921)”.

Questo – triplice – ordine di motivazione non elimina, a parere di chi scrive, la violazione dichiarata dalla Corte E.D.U. nella sentenza G.I.E.M.

La limitazione della confisca “ai terreni abusivamente lottizzati ed alle opere abusivamente costruite”, infatti, oltre ad essere scontata poiché già nella “lettera” del disposto normativo di riferimento (art. 44, comma 2, d.P.R. 380/2001), corrisponde ad un univoco indirizzo della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex pluribus, Cass. pen., sez. III, 5 aprile 2018, n. 15126 (ud. 24 ottobre 2017), S. ed altri, in Riv. pen. 5/18[1]; Cass. pen., sez. III, 17 settembre 2013, n. 38001 (ud. 16 maggio 2013), Recchia e altri[2]; Cass. pen., sez. III, 2 ottobre 2008, n. 37472  (ud. 26 giugno 2008), Belloi e altri[3]). Ritenere, pertanto, che la Grande Camera della Corte EDU ignori tale consolidato orientamento o che il suo giudizio di condanna dello Stato italiano sia stato “condizionato” dalle “prospettazioni delle parti, le quali hanno evidenziato quella che, all’apparenza, risulta una effettiva applicazione della confisca anche al di fuori dei casi consentiti dalla legge nazionale” (sentenza commentata) risulta, obbiettivamente, di difficoltosa condivisione: trattasi di questione che più volte la Corte di Strasburgo ha già avuto modo di scrutinare proprio con riguardo alla normativa italiana.

Né può valere a soddisfare il principio di proporzionalità nell’applicazione della sanzione della confisca il richiamo al procedimento – di competenza dell’autorità amministrativa – di cui all’art. 30 cit. d.P.R. 380/2001: trattasi, invero, di procedimento che – secondo quanto ammesso nella stessa sentenza della Suprema Corte di Cassazione –, lungi dal porsi in un’ottica di progressività, conduce al medesimo risultato afflittivo (“le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione”); e che, anzi, lo consegue al di fuori di tutte le garanzie tipiche di un procedimento giurisdizionale penale.

Il principio di proporzionalità, invece, affida al giudice il compito di verificare la sussistenza di misure che possano garantire il raggiungimento degli scopi di tutela perseguiti con forme e strumenti meno afflittivi delle libertà e dei diritti (fra i quali il diritto di proprietà di cui all’art. 1, Prot. 1, Cedu) dei singoli soggetti.

Tale importante compito non sembra essere stato assolto dalla Cassazione con la sentenza in commento: se, d’altronde, secondo quanto si legge nella stessa pronuncia commentata, “la Corte EDU prende in considerazione la proporzionalità della misura, osservando (§301) che a tale fine devono considerarsi diversi parametri, quali la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione, aggiungendo (§302) che deve essere offerta la possibilità, alla persona interessata, di esporre adeguatamente le sue ragioni alle autorità competenti al fine di contestare efficacemente le misure che violano i diritti garantiti dall’art. 1 del Protocollo n. 1”, non tutti questi “parametri” di giudizio risultano trattati – nonostante la sua innegabile ricchezza espositiva – nella sentenza.

Vero è che la ricerca giurisprudenziale del giusto punto d’equilibrio fra l’effettivo disvalore della condotta lottizzatoria e l’afflittività della risposta sanzionatoria, se più agevole negli ordinamenti di common law, risulta obbiettivamente problematica negli ordinamenti di civil law.

Trattasi, tuttavia, di fine che, “obliterato” per ora dalla Suprema Corte, resta in primo luogo affidato all’attività del Legislatore. Attività tanto urgente e necessaria quanto impellente è il rischio che lo Stato subisca ulteriori condanne dalla Corte di Strasburgo.

Sullo sfondo permane, inoltre, un possibile spazio d’intervento della Corte Costituzionale.

La Convenzione di Roma, d’altronde, è andata progressivamente affiancandosi alle Costituzioni degli Stati europei, rafforzandole e in parte completandole nelle disposizioni dedicate ai diritti fondamentali dei cittadini e delle persone che si trovano nel loro territorio o sono sottoposte alla loro giurisdizione.

Si è trattato di uno sviluppo che ha profondamente influenzato i principi costituzionali degli Stati e che, per effetto dell’attuazione della Convenzione, li ha modificati anche sotto il profilo del controllo di costituzionalità della legislazione ordinaria.

Ancorché criticata in dottrina[4] “perché attenua, o almeno ritarda, la dichiarazione di inapplicabilità della legislazione ordinaria contrastante con la Convenzione non permettendo che essa sia dichiarata anche dal giudice ordinario”, l’evoluzione della giurisprudenza della Consulta è comunque giunta alla conclusione che, pur non potendosi attribuire alle norme della Cedu rango costituzionale ma di elemento integrante il parametro costituzionale di rispetto degli obblighi internazionali contenuto nell’art. 117, comma 1, della Costituzione, il dubbio sulla compatibilità di una legge ordinaria con le norme della Convenzione solleva una questione di legittimità costituzionale che deve essere risolta dalla stessa Corte Costituzionale, alla quale il giudice ordinario è tenuto a rivolgersi ogni volta che si profili un contrasto della legislazione ordinaria (nel caso specifico, dell’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001) con le norme della Cedu.

Già nella sentenza n. 249 del 24.10.2007 della Corte Costituzionale si legge che: “Premesso che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) presenta, rispetto alla generalità degli accordi internazionali, la peculiarità consistente in ciò che, pur essendo l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme da essa previsto attribuite in prima battuta ai giudici degli Stati membri, la definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata della Cedu attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta l’ultima parola e la cui competenza “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte a essa nelle condizioni previste” dalla medesima, il giudice comune deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme e, qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, deve proporre la relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’articolo 117, primo comma, della Cost. In tal caso, la Corte costituzionale, deve accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme Cedu, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, senza che ciò comporti un sindacato sull’interpretazione della norma Cedu operata dalla Corte di Strasburgo, ma solo verificando la compatibilità della norma Cedu, nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione, così risultando realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”.

Anche nella più recente sentenza del 26 marzo 2015, n. 49 (anch’essa, peraltro, concernente questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, D.P.R. 380/2001), inoltre, la Corte Costituzionale ha affermato che: “… nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di “ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”, ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter “prescindere” (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte”.

Nel caso di specie, l’art. 44, comma 2, cit. D.P.R. 380/2001 è norma già ripetutamente ritenuta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo violativa della Cedu ed, in particolare, dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (cfr, ex pluribus, Corte EDU del 20 gennaio 2009 nel caso Sud Fondi c. Italia; Corte EDU del 29 settembre 2013 nel caso Varvara c. Italia; Grande Camera della Corte EDU del 28.6.2018, nel caso G.I.E.M. e altri c. Italia).

Non manifestamente infondata potrebbe ritenersi, pertanto, una sua questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione.

Senza dire che nelle più recenti pronunce (cfr., ex multis, la sentenza del 25.9.2018 (dep. 5.12.2018), n. 222, con cui si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), nella parte in cui dispone che: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”; ovvero, ancora più recentemente, la sentenza del 19.2.2019 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 del Codice della strada là dove prevede l’automatica revoca della patente di guida in tutti i casi di condanna per omicidio e lesioni stradali) la Corte Costituzionale ha sempre censurato i rigidi regimi di “automatismo” nell’applicazione delle sanzioni e che lo stesso principio di proporzionalità, anche se non viene mai enunciato nell’ordinamento costituzionale italiano, può essere configurato pure come principio generale dell’ordinamento italiano e, pertanto, dotato di copertura costituzionale. Ciò proprio in quanto si atteggia alla funzione, similare a quella dei suddetti principi di libertà e di uguaglianza contenuti nel testo costituzionale italiano, di bilanciare gli interessi privati e pubblici e tutelare la sfera giuridica del soggetto che subisce la decisione adottata, vincolando altresì le istituzioni ad utilizzare la misura meno coercitiva delle libertà e dei diritti del singolo soggetto.

Note

[1]  In tema di lottizzazione abusiva, l’intervenuta maturazione del termine di prescrizione del reato non esonera il giudice dal potere-dovere di accertare comunque, anche mediante espletamento di ulteriore attività istruttoria, la sussistenza dell’illecito, ai fini dell’applicazione (prevista come obbligatoria, in presenza di detto accertamento, dall’art. 44, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001) della confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, a ciò non ostando – in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49/2015 e con l’ordinanza n. 187/2015 – la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo quale espressa, in particolare, nelle sentenze 29 settembre 2013, Varvara c. Italia e 9 febbraio 1995 Welch c. Regno Unito, ma dovendosi per converso escludere che si possa dar luogo a sequestro preventivo finalizzato all’adozione della suddetta confisca quando, al momento, la prescrizione del reato sia già maturata e l’esercizio dell’azione penale debbasi quindi considerare precluso.

[2]          Nell’ipotesi di lottizzazione abusiva negoziale che abbia riguardato non un fondo ma un edificio, la confisca, in assenza di elementi che indichino un oggettivo e definitivo mutamento della destinazione dell’intero immobile, va limitata alle sole unità compravendute. (Fattispecie in tema di lottizzazione di un albergo già costruito, attuata mediante la compravendita di singoli lotti al fine di trasformarli in abitazioni).

[3]          Sono manifestamente infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 19 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 (oggi sostituito dall’art. 44, comma secondo, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) che prevede la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite per presunta violazione degli artt. 3, 25, comma secondo, 27, 42 (in relazione all’art. 6 della C.E.D.U. ed all’art. 1 del Protocollo n. 1), 97, 111 e 117, comma primo (in relazione agli artt. 5 e 7 della C.E.D.U. ed al relativo Protocollo) della Costituzione, sia perché non sussiste alcun contrasto tra la disposizione censurata ed un diritto garantito dalla C.E.D.U., sia perché la confisca non opera anche nei confronti delle parti di terreno non interessate da alcun frazionamento o lottizzazione, sia, infine, perché sussiste una ragionevole giustificazione nel sacrificio del diritto di proprietà che la confisca comporta.

[4]          cfr. F. POCAR, Richiamare alle loro responsabilità gli Stati membri con misure sanzionatorie in caso di inadempimento, in Guida Dir., 2012, dr. 1, 64.

Sentenza collegata

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Avv. Garzone Francesco Paolo

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