La fattispecie
Il largo utilizzo delle comunicazioni Whatsapp, Facebook, Twitter ecc, se da un lato agevolano le relazioni, poiché semplificano i contatti di gruppo grazie alla celerità e gratuità delle comunicazioni, non devono essere prese con leggerezza quando diventano accese nei toni.
Infatti, occorre affrontare con grande serietà le conversazioni oggetto di chat che diventano vere e prozie offese.
Gli insulti e le offese che trovano spazio in una conversazione di questo genere, da tempo al centro di dibattito giurisprudenziale, hanno assunto attualmente la connotazione di reato.
Ma a differenza di quanto spesso si è pensato, il reato di cui oggi parliamo è quello di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità (art. 593 Cod. Pen.) di competenza del Tribunale, e non più del reato di ingiuria ( art. 594 Cod. Pen.) reato, tra l’atro, depenalizzato nel 2016.
Secondo la sentenza n. 7904/19 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, infatti, “se il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook, si tratta di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità”.
L’aspetto cruciale dell’analisi della Suprema Corte sta nella circostanza che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori componenti del gruppo, i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi dello stesso, e , proprio per questa connotazione temporale unita alla pluralità di fruitori della conversazione, l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso. Ne deriva, dunque, la conseguenza che l’offesa alla persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio assume il più grave ruolo di offesa alla reputazione della stessa.
Per la Suprema Corte non si tratta di semplici ingiurie, che sono depenalizzate. “Vengono lette anche da persone terze, c’è lesione della reputazione”. I giudici si sono espressi in merito a una lite fra ragazzini. Uno di loro aveva scritto un messaggino carico di epiteti volgari su una compagna. La Corte è intervenuta così su ricorso dei genitori di un tredicenne. All’interno della chat, si era consumata una guerra tra fazioni di alunni di una scuola in provincia di Bari. Il ragazzino, parlando in difesa di una compagna, aveva scritto un messaggio carico di epiteti volgari, in cui accusava la persona offesa, una coetanea, di essere la responsabile dell’allontanamento dell’amica dalla scuola.
La pronuncia affronta la tematica molto diffusa di insulti proferiti per iscritto all’interno di gruppi, sulle chat di whatsapp ma il problema sorge però anche in altre situazioni.
La stessa situazione, infatti, si ha con la condivisione di uno screenshot. Elemento cardine della norma è la reputazione ed è ciò che si vuole tutelare, quindi l’invio dello screenshot su di una chat di whatsapp a titolo informativo non costituisce reato. Differentemente se la condivisione avviene, al fine di denigrare e offendere l’altrui considerazione, la questione muta totalmente, rendendosi concreto il reato di cui all’articolo 595 del codice penale. Quindi, di volta in volta occorrerà analizzare il contesto in cui avviene la pubblicazione in chat ovvero in una pagina social di un testo o di un’immagine o altro ancora per definire la connotazione legale della comunicazione.
Ugualmente su Facebook, si deve avere una certa prudenza quando si decide di pubblicare uno screenshot. Difatti, se l’animo di chi condivide il post è di ledere l’altrui reputazione, diffondendo notizie che arrechino danno all’individuo, si verificano le condizioni di cui sopra, incorrendo nel reato di diffamazione.
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Come difendersi?
I social network sono diventati l’ambiente virtuale più frequentato al mondo: l’espressione di un pensiero o opinione racchiude però insidie e conseguenze, anche di natura penale, che a volte vengono ignorate.
In questi casi, la prova più evidente della diffamazione è proprio la stessa conversazione che può essere salvata dall’utente all’interno del proprio cellulare. È altresì opportuno valersi della prova testimoniale di uno dei componenti la conversazione che possa dichiarare di aver letto e, quindi, partecipato alla conversazione.
Nel in cui ci si ritrovi ad essere vittima di un’offesa alla propria persona all’interno di una comunicazione di gruppo, sia essa whatsapp o Facebook, occorrerò sporgere querela.
Quanto alla necessità poi di raccogliere prove legali per sostenere l’accusa contenuta in querela, per i giudici della Suprema Corte, la registrazione delle conversazioni che avvengono sulla più nota app di messaggistica istantanea possono ben rappresentare la memorizzazione di un fatto storico, dalla quale è possibile disporre a fini probatori.
La Corte di Cassazione sottolinea infatti che la chat su WhatsApp è “una prova documentale che ha piena legittimazione dall’art. 234 del codice di procedura penale, che contempla in esso la possibilità di acquisire in giudizio anche documenti che rappresentano fatti, persone o cose, mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.
Se quanto sopra è noto, lo è altrettanto il fatto che la trascrizione riveste una mera funzione di riproduzione del contenuto della principale prova documentale, con la conseguenza che per poter utilizzare la trascrizione in sede processuale sarà necessario acquisire il supporto che la contiene. Solamente così facendo, infatti, sarà possibile controllare l’affidabilità della prova.
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