L’art. 42 Cost. al comma 3 stabilisce:” la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. Tale norma è affiancata dal T.U. in materia di espropriazioni, introdotto con il decreto n. 327 del 2001, che stabilisce che l’oggetto e l’ambito di applicazione del Testo Unico riguarda beni immobili o diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, ex art. 1 T.U.
Per poter cogliere il tema afferente l’occupazione senza titolo, occorre partire facendo una breve disamina sulle modalità con cui l’Amministrazione espropria un dato bene.
Sul piano logico-strutturale l’espropriazione segue alcune fasi ben definite all’art. 8 T.U., con cui si stabilisce che il decreto di esproprio può essere emanato qualora sia: individuata, nello strumento urbanistico generale, l’opera da realizzare e su di essa sia sottoposta un vincolo preordinato all’esproprio; venga disposta una dichiarazione di pubblica utilità; infine, sia corrisposto al proprietario, a seguito del decreto di esproprio, un indennizzo.
Andando ad analizzare nello specifico i diversi momenti del procedimento espropriativo, occorre trattare primariamente il Cap. II relativo alla fase di sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio.
Tale vincolo viene apposto su un bene, nel momento in cui diventi efficace l’atto di approvazione dell’atto urbanistico generale, il quale prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Il vincolo è poi soggetto a termine quinquennale entro il quale deve esse disposta la dichiarazione di pubblica utilità. L’anzidetto termine è stato inserito, perché il bene vincolato subisce un forte deprezzamento e non è edificabile, pertanto occorre delimitare la durata temporale di tali vincoli.
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Inizialmente la giurisprudenza stabiliva che i vincoli non fossero soggetti a un termine, ma al contrario dovessero ritenersi perpetui. Questa interpretazione, divenuta diritto vivente, venne successivamente censurata dalla Corte Costituzionale, in ordine al fatto che l’art. 7 e 40 della l. n. 1150/1942 non ammetteva un indennizzo per imposizioni di limitazioni aventi contenuto sostanzialmente espropriativo. Pertanto, la Corte censurava l’ammissibilità di vincoli perpetui che non consentissero l’indennizzo.
La sentenza in oggetto garantiva al legislatore l’alternativa tra la temporaneità del vincolo e la corresponsione dell’indennizzo al proprietario. Non stupisce che la scelta del legislatore sia ricaduta sull’assenza dell’onere indennitario per esigenze di economia statale.
Con un’ulteriore e successiva sentenza del ’99 la Corte Costituzionale ha poi accolto l’opzione dell’ammissibilità della reiterazione del vincolo di cui all’art. 39 T.U., in forza della quale è comunque dovuta la indennità al proprietario del bene su cui è intervenuto una reiterazione del vincolo.
La dichiarazione di pubblica utilità rappresenta, invece, il diaframma tra il vincolo preordinato all’esproprio e il relativo decreto. In assenza di tale dichiarazione, qualunque successivo provvedimento risulterebbe illegittimo e pertanto verrebbe riconosciuta la possibilità di ricorre per il risarcimento del danno per comportamenti illeciti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione, in forza degli artt. 2043 e 2048 c.c. La suddetta dichiarazione opera qualora sia approvato un progetto definitivo dell’opera pubblica o di pubblica utilità.
A seguito, dell’intervenuta dichiarazione dovrà essere commisurato un indennizzo. Si procederà con una determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione, presentata dal proponente al proprietario del bene, il quale poi potrà alternativamente accettarla o contestarla; segue, la determinazione definitiva con cui, in caso di mancata accettazione, la parte ha la facoltà di scegliere tra un collegio peritale, di cui fa parte anche il perito designato dall’interessato e una commissione regionale.
Diversa, è la determinazione dell’indennità di espropriazione urgente, la quale viene commisurata senza apposite indagini e formalità, e senza un contraddittorio preventivo.
Dopo questa breve disamina relativa alle fasi del procedimento di espropriazione, occorre trattare le ipotesi particolari di occupazioni acquisitive e usurpative, di cui all’art. 43 T.U. espropriazioni.
La giurisprudenza più risalente conosceva l’istituto della espropriazione in sanatoria, volta ad assicurare alle opere pubbliche, realizzate in virtù di occupazione d’urgenza scaduta o abusiva, la possibilità di intervento tramite sanatoria, in forza della quale la Pubblica Amministrazione con un decreto di espropriazione emesso ex post, dotato di efficacia retroattiva, sanava la situazione illecita.
Se, dunque, da una parte la Pubblica Amministrazione veniva tutelata mediante l’intervento di un provvedimento con efficacia sanante, d’altro canto il privato subiva le conseguenze dell’espropriazione indiretta.
La Corte di Cassazione è intervenuta, elaborando un istituto volto a contemperare i problemi legati alla perdita della proprietà con un’adeguata riparazione economica. Nasceva così l’istituto della occupazione appropriativa, il quale si verificava quando il bene veniva occupato a seguito di una dichiarazione di pubblica utilità senza che però si giungesse a un decreto di esproprio.
Espropriazione per pubblica utilità
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L’occupazione usurpativa
Tale figura doveva essere distinta dall’occupazione usurpativa, in cui vi era una carenza del titolo, nello specifico mancava ab initio la dichiarazione di pubblica utilità.
Nell’ipotesi di occupazione appropriativa, che si perfezionava con l’irreversibile ipotesi della trasformazione del fondo in capo all’Amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario non poteva che chiedere la tutela per equivalente; all’opposto nel caso dell’appropriazione usurpativa, il proprietario poteva richiedere, alternativamente, la restituzione del bene ovvero la tutela per equivalente.
I due istituti si differenziavano anche in ragione ai tipi di illeciti che ponevano in essere: da una parte, un illecito istantaneo con effetti permanenti, nel caso di occupazione appropriativa, in cui il diritto al risarcimento del danno si prescriveva in cinque anni; dall’altra l’occupazione usurpativa, in cui il proprietario perdendo completamente la titolarità del bene, realizzava un illecito permanente.
È intervenuta così la CEDU, contestando gli istituti appena analizzati e rilevando che: un comportamento illecito o illegittimo non può fondare un valido acquisto di un diritto; inoltre, spetterebbe all’ordinamento interno individuare i mezzi di tutela in relazione a fattispecie nelle quali l’acquisizione del bene sia avvenuta sine titulo.
La Corte europea è giunta ad affermare che non costituisce impedimento alla restituzione dell’area, illegittimamente espropriata, la realizzazione di un’opera pubblica; aggiunge, che la distinzione concettuale tra occupazione acquisitiva e usurpativa non ha ragion d’essere.
Tali principi affermati dalla Corte dei Diritti dell’Uomo hanno trovato attuazione nel T.U. espropriazione all’art. 43, rubricato: “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”. La normativa stabiliva che l’Autorità che utilizzava un bene immobile per un pubblico interesse, senza un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità, poteva disporre che il bene passasse nel suo patrimonio indisponibile e che al proprietario venisse corrisposto un risarcimento danni. Il che significava che l’Autorità, valutati gli “interessi in conflitto”, poteva attrarre al suo patrimonio beni privati senza alcun titolo. La norma, con sentenza Costituzionale n. 293 del 2010, venne dichiarata illegittima per eccesso di delega.
La Corte Costituzionale, infatti, sottolineava che il legislatore avrebbe dovuto adeguarsi ai criteri fissati dalla CEDU e che la norma in esame si poneva in violazione con il principio di legalità, perché non era in grado di offrire un certo grado di certezza del diritto e permetteva all’Amministrazione di utilizzare i provvedimenti a proprio vantaggio.
L’art. 43 T.U. oltre a collidere con le disposizioni costituzionali, si poneva in contrasto con la normativa civilistica di cui all’art. 832 c.c. per cui: “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”.
In definitiva, la Corte Costituzionale ha abrogato l’art. 43 T.U., stabilendo che non è opportuno la mera trasposizione di un istituto, in grado di perpetrare le stesse negative conseguenze derivanti dall’espropriazione indiretta. Per colmare il vuoto normativo, l’art. 34 comma 1 del D.l. n. 98/2011 ha introdotto l’art. 42 bis rubricato “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
Pur conservando la medesima rubrica, l’articolo 42 bis risulta rivoluzionario.
Primo elemento distintivo riguarda l’assenza dell’effetto retroattivo della norma, pertanto l’acquisto sine titulo decorre ex nunc, così escludendo ogni sanatoria e imponendo, fra l’altro, che si faccia riferimento, ai fini dell’indennizzo, al valore dell’immobile al momento dell’acquisizione e non al suo valore originario.
È previsto, inoltre, che al proprietario venga corrisposto un indennizzo, e non più un risarcimento del danno. La differenza non è solo terminologica, ma sostanziale, difatti il risarcimento presume che vi sia un illecito fonte del danno, mentre l’indennizzo evoca un pregiudizio derivante da atto lecito. È, altresì, previsto un ristoro in misura forfetaria per il pregiudizio non patrimoniale, patito a causa della perdita della proprietà, pari al dieci per cento del valore venale del bene. In aggiunta, è calcolato un risarcimento danni per il periodo di occupazione del bene senza titolo.
Il provvedimento di occupazione deve necessariamente essere motivato, in ragione alle attuali ed eccezionali motivazioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione.
Si aggiunga che differentemente dal previgente articolo 43, non è ammissibile il ricorso alla acquisizione in via giudiziale, in base alla quale la Amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto dell’intermediazione di una pronuncia del giudice amministrativo su istanza dell’Amministrazione volta a paralizzare l’azione restitutoria proposta dal privato. Secondo la giurisprudenza maggioritaria sarebbe stata proprio questa circostanza a creare i maggiori dubbi di compatibilità con i principi della CEDU.
Da ultimo, è previsto una copia integrale dell’atto di acquisizione che deve essere comunicato, nel termine di trenta giorni, alla Corte dei Conti.
Dall’esame di questi connotati risulta dimostrato che non si tratta più di un procedimento sanante di un provvedimento illecito, bensì di un nuovo strumento volto a operare eliminando le illegittimità esistenti e le conseguenze di comportamenti illeciti.
Le questione di illegittimità costituzionale dell’art. 42 T.U.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2014 ha sollevato questione di illegittimità costituzionale relativa all’art. 42 bis T.U. espr., rilevando un contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost. I giudici rimettenti evidenziavano una violazione del principio di eguaglianza, stabilendo che la norma riserverebbe un trattamento di favore all’Autorità rispetto a qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento che abbia commesso un illecito.
I Giudici costituzionali chiariscono che è possibile addurre a una lesione del principio di eguaglianza solo quando situazioni sostanzialmente identiche vengano disciplinate in maniera ingiustificatamente diversa, ma non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili.
Nella specie, i giudici rimettenti omettono di considerare che seppur il presupposto sia l’utilizzazione indebita dell’area, ovvero la situazione creata in carenza di potere, tuttavia l’adozione dell’atto acquisitivo con effetti non retroattivi è espressione della norma di legge e così il comportamento dell’Amministrazione rientrerebbe nell’alveo della legalità.
Sempre in ragione di una lesione del principio di cui all’art. 3 Cost., i giudici rimettenti rilevavano una lesione derivante dall’indennizzo che secondo la nuova disposizione sarebbe inferiore rispetto alla procedura di espropriazione ordinaria. Sul punto, l’art. 42 bis T.U. chiarisce che viene risarcito un duplice danno, patrimoniale e non, peraltro determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso.
Inoltre, le asserite violazioni degli artt. 111 e 117 Cost sono state respinte, in ordine al fatto che l’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone la carenza di alternative ragionevoli, considerate anche le ragioni di pubblico interesse.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 71/2015 fuga così tutti i dubbi di legittimità costituzionale, stabilendo che: il procedimento di cui all’art. 42 bis costituisce un procedimento ablatorio sui generis, il cui fine non risiede nella sanatoria di un precedente illecito, bensì nel soddisfare esigenze di pubblico interesse, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento dell’opera realizzata sine titulo; il procedimento coattivo deve avere valore di extrema ratio, motivo per cui deve essere opportunamente motivato; infine, sono disposte una serie di tutele nei confronti del privato.
Difatti, l’indennizzo è commisurato nel valore venale al momento del trasferimento del bene, in base al criterio di texatio rei, pertanto senza che possano esservi somme da rivalutare. Si ricorre al coinvolgimento obbligato della Corte dei Conti, in una vicenda che aggrava la finanza pubblica, così riducendo le ipotesi di espropriazione suddetta. Infine, per evitare che l’esercizio del potere ablatorio previsto all’art. 42 bis venga esercitato sine die da parte dell’Amministrazione, si prevede per il proprietario che possa ricorrere agli strumenti dell’inerzia contro la P.a con il rito del silenzio ex art. 34 e 117 c.p.a. Da ultimo, è impossibile ricorrere all’istituto di cui all’art. 42 bis, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario.
Così è risultata concorde l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 2/2016, la quale ha stabilito che la nuova disposizione ha evitato che si riproducesse un vulnus arrecato dal superamento dell’art. 43 T.U. espr., e non solo, ma anche riducendo al minimo l’ambito applicativo dell’appropriazione coattiva ed evitando che la normativa divenga di uso ordinario.
La questione relativa al riparto di giurisdizione nell’espropriazione per pubblica utilità la materia è devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. a norma dell’art. 133 lett. g) c.p.a., ad eccezione fatta per le controversie sull’indennità di esproprio devolute alla giurisdizione del g.o.
Un caso problematico riguarda la situazione in cui il ricorrente contesti simultaneamente l’illegittimità dell’esproprio chiedendo il risarcimento del danno e, in subordine, nel caso in cui l’esproprio sia ritenuto legittimo, chieda la determinazione dell’indennizzo. Sul punto, la giurisprudenza ha affermato che sulla base del principio di effettività, ex art. 1 c.p.a., debba essere realizzato il simultaneus processus davanti a un unico giudice dinanzi al quale concentrare ogni forma di tutela delle posizioni azionate (cfr. art. 7, comma 7, c.p.a.). Siffatto principio, così come posto a fondamento delle deroghe ai criteri di competenza anche nel processo amministrativo ai sensi dell’art. 12, comma 4 bis, c.p.a., si è ritenuto estensibile anche alla giurisdizione per cui sarebbe possibile derogare agli ordinari criteri di riparto “per ragioni di connessione”. Nello specifico l’azione dovrà essere proposta avanti al giudice amministrativo.
Un’ulteriore questione riguarda le controversie instaurate dal proprietario del bene a seguito di occupazione illegittima da parte della P.A. Si deve distinguere tra comportamenti materiali e comportamenti amministrativi. Qualora l’Amministrazione ponga in essere un comportamento senza un potere pubblico, si tratterà di occupazione usurpativa, in cui la P.A. occupa il terreno privato in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità, si avrà carenza di potere e la giurisdizione risulta del giudice ordinario. Nel secondo caso, invece, vi è stata da parte della P.A. l’emissione di una dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di occupazione d’urgenza ex art. 22 bis T.U., in forza dei quali essa ha lecitamente occupato l’area, anche se la procedura non si è conclusa con il decreto di esproprio. Qui, il collegamento con l’esercizio, almeno ab origine, di un potere amministrativo è sufficiente a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Da ultimo, la giurisprudenza si è concentrata sulla natura dell’indennizzo da acquisizione sanante di cui all’art. 42 bis T.U. espropriazioni.
Le Sezioni Unite con sentenza n. 15283/2016 hanno stabilito che sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario e alla competenza in un unico grado della Corte d’Appello, per interpretazione estensiva dell’art. 29 del d.lgs. n. 150/2011, le controversie relative la determinazione di indennizzi previsti in caso di adozioni di provvedimento di “acquisizione sanate”, incluse le somme dovute a titolo di danno per il periodo di occupazione del bene senza titolo.
All’ Adunanza plenaria l’interpretazione dell’art. 42 bis del T.U. espropriazione in relazione all’istituto della c.d. rinuncia abdicativa
Il Consiglio di Stato con ordinanza n. 5400/2019 ha deferito all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, le seguenti questioni:
“a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;
b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis;
c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis;
d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione;
e) se, nella specie, l’atto di acquisizione emesso da Roma Capitale in data 23 novembre 2018 vada considerato giuridicamente rilevante (ciò che dovrebbe ammettersi, qualora si dovesse ritenere che l’Amministrazione solo con l’emanazione dell’atto di data 23 novembre 2018 ha fatto venire meno l’illecito permanente conseguente alla occupazione sine titulo)”.
Le Sezioni Unite con sentenza n. 23102 del 17/09/2019 hanno stabilito che: “le controversie risarcitorie, promosse in epoca successiva al 10 agosto 2000, relative alle occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione e realizzate in presenza di un concreto esercizio del potere (riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, anche se l’ingerenza nella proprietà privata sia poi avvenuta senza alcun titolo o nonostante il venir meno di detto titolo) sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistico-edilizia ai sensi dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000, giacché l’apprensione, l’utilizzazione e l’irreversibile trasformazione del bene in proprietà privata da parte della pubblica amministrazione sono riconducibili ad un concreto esercizio del potere autoritativo che si manifesta con l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, senza che assuma rilevanza il fatto che quest’ultima perda successivamente efficacia o venga annullata.”
L’Adunanza Plenaria
Il Consiglio di Stato, alla luce dei principi affermati in merito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 gennaio 2020, nn. 2, 3 e 4, ha così deciso:”Per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata“.
Acquisizione sanante in materia espropriativa
L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino.
La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo alla p.a. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente: in tale ottica è dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa
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