La Consulta interviene sull’art. 47-ter, co. 1-ter, legge 26 luglio 1975, n. 354: vediamo come

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Corte costituzionale, sez. I, 20 febbraio 2019 (ud. 20 febbraio 2019, dep. 19 aprile 2019), n. 99 (Presidente Lattanzi, Relatore Cartabia)

E’ illegittimo costituzionalmente l’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter.

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Il fatto

Un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità ai sensi dell’art. 147 del codice penale in quanto applicabile solo ai casi di grave infermità fisica mentre, nel caso di specie, il detenuto risultava affetto da «grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione border line in fase di scompenso psicopatologico», accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici.

Al momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni.

Emergeva inoltre, dalla lettura della sentenza qui in commento, come si trattasse di una patologia grave e radicata nel tempo per la quale la detenzione determinava un trattamento contrario al senso di umanità.

Posto ciò, dopo avere precisato, in via preliminare, che anche la fase del giudizio di legittimità risulta idonea alla proposizione dell’incidente di costituzionalità, nel provvedimento del Tribunale di sorveglianza, si sosteneva come il detenuto portatore di infermità esclusivamente di tipo psichico sopravvenuta alla condanna non potesse accedere né agli istituti del differimento obbligatorio o facoltativo della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., né alla detenzione domiciliare cosiddetta “in deroga” di cui alla disposizione censurata posto che, nel testo di tale disposizione, vengono richiamate esclusivamente le condizioni di infermità fisica di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen., e non anche quelle relative alla infermità psichica sopravvenuta evocate nel testo dell’art. 148 cod. pen.

Pertanto, solo in presenza di ricadute della patologia psichica sul complessivo assetto funzionale dell’individuo, risulta possibile attivare le garanzie previste dagli artt. 146 e 147 cod. pen..

Le questioni prospettate dal giudice rimettente

Con ordinanza del 22 marzo 2018, la Corte di cassazione, prima sezione penale, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena».

Osservava la Corte rimettente come il tema in questione vertesse sull’applicabilità dell’art. 148 cod. pen. o di altre forme alternative alla detenzione in carcere per i casi di infermità psichica sopravvenuta alla condanna essendo considerata la misura alternativa della detenzione domiciliare “in deroga”.

La Corte di cassazione riteneva in particolare che «[n]ell’attuale momento storico è da ritenersi che la disposizione di legge di cui all’art. 148 cod. pen. sia inapplicabile per effetto di abrogazione implicita derivante dal contenuto degli interventi legislativi succedutisi tra il 2012 e il 2014» che hanno previsto la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e che, nel creare le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), operanti su base regionale, non hanno previsto che esse subentrassero nelle funzioni accessorie di cui all’art. 148 cod. pen. già svolte dagli OPG dato che le vigenti disposizioni di legge indicano le REMS come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza (provvisorie o definitive) mentre non rileverebbe, in contrario, la previsione dell’art. 16, comma 1, lettera d) [recte: art. 1, comma 16, lettera d], della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), ove si prevede l’assegnazione alle REMS anche dei soggetti portatori di infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione, in ipotesi di inadeguatezza dei trattamenti praticati in ambito penitenziario, «trattandosi, per l’appunto, di delega non ancora tradotta in una o più disposizioni concretamente applicabili».

L’impossibilità di ritenere che le REMS siano succedute nelle funzioni in precedenza svolte dagli OPG in base all’art. 148 cod. pen. sarebbe del resto, ad avviso del rimettente, confermata dal fatto che il processo di superamento degli OPG era stato accompagnato dalla realizzazione, all’interno degli istituti penitenziari ordinari, di «apposite sezioni denominate “articolazioni per la tutela della salute mentale”» e dedicate all’accoglienza dei detenuti appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG per le necessarie cure e assistenza psichiatriche.

Secondo il giudice rimettente, dunque, il sistema normativo attuale tratterebbe in modo differente il soggetto portatore di un’infermità psichica tale da escludere la capacità di intendere o di volere al momento della commissione del fatto – il quale, lì dove si riscontri pericolosità sociale, viene sottoposto al trattamento riabilitativo presso le REMS, strutture ad esclusiva gestione sanitaria – rispetto al soggetto in esecuzione di pena portatore di patologia psichica sopravvenuta che resta detenuto e ove possibile è allocato presso una delle articolazioni per la tutela della salute mentale poste all’interno del circuito penitenziario trattandosi di due categorie soggettive indubbiamente non pienamente assimilabili ove si consideri il rapporto tra patologia e imputabilità osservandosi però al contempo che «la condizione vissuta dai secondi è del tutto assimilabile, quantomeno sul piano delle prevalenti necessità terapeutiche, a quella dei non imputabili».

Tal che se ne faceva discendere come l’assenza di alternative alla detenzione per i condannati affetti da grave patologia psichica avrebbe determinato un dubbio di legittimità sufficiente ad attivare l’incidente di costituzionalità stante il fatto che allo stato attuale della normativa non sussistono alternative alla detenzione carceraria per una persona nelle condizioni in cui versa il ricorrente, e cioè per un soggetto in esecuzione pena con residuo superiore a quattro anni (o per reato ricompreso nella elencazione di cui all’art. 4-bis ordin. penit.) affetto da patologia psichica sopravvenuta «stante da un lato la impossibilità di usufruire, per assenza dei presupposti di accessibilità, della detenzione domiciliare ordinaria (art. 47-ter, comma 1 ord. pen.), e ciò in ragione dell’impossibilità di accedere, per il criterio della interpretazione letterale alla detenzione domiciliare “in deroga” di cui all’art. 47-ter, comma 1 ord. pen.» posto che la disposizione permette l’applicazione di tale misura nei casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 cod. pen. i quali a loro volta si riferiscono alla grave infermità fisica e non a quella psichica.

Oltre tutto si rilevava come non sarebbe nemmeno possibile estendere la detenzione domiciliare “in deroga” di cui alla disposizione censurata anche alla grave infermità psichica in forza di un’interpretazione conforme a Costituzione dell’attuale sistema normativo essendo a ciò ostativo sia il dato testuale, che l’intenzione del legislatore.

Si concludeva infine nel senso di denotare come l’assetto normativo attuale, in definitiva, impedirebbe al condannato affetto da grave infermità psichica sopravvenuta, qualora il residuo di pena sia superiore a quattro anni o si trovi in espiazione per reato ostativo, di accedere sia all’istituto del differimento della pena (artt. 146 e 147 cod. pen.), sia al ricovero in OPG di cui all’art. 148 cod. pen., sia alla collocazione nelle REMS, sia alla detenzione domiciliare “in deroga” senza tener conto del fatto che la situazione del detenuto portatore di questo tipo di infermità sarebbe caratterizzata da aspetti di manifesto regresso trattamentale dato che, da una parte, l’ingresso nelle articolazioni per la salute mentale non è oggi frutto di una decisione giurisdizionale, come invece era in passato per il collocamento in OPG, bensì di una decisione dell’amministrazione, la cui discrezionalità tra l’altro è condizionata da fattori non dominabili quali il sovraffollamento delle strutture e, dall’altra parte, l’idoneità del trattamento praticabile all’interno di tali articolazioni non è previamente verificato in sede giurisdizionale da parte della magistratura di sorveglianza; in particolare, rilevava sempre la Corte remittente, proprio l’impossibilità di accedere alla misura alternativa della detenzione domiciliare “in deroga” di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. si sarebbe posta in contrasto con numerosi principi sia costituzionali sia convenzionali sicché si imporrebbe la necessità di rivalutare i contenuti di precedenti decisioni costituzionali sul tema.

Quanto ai parametri costituzionali interni, la Corte di cassazione denunciava la violazione degli artt. 2, 3, 27 e 32 Cost. posto che, dalla giurisprudenza costituzionale, si ricaverebbero alcune linee-guida sul sistema dell’esecuzione penale il quale, per essere costituzionalmente compatibile, dovrebbe offrire: «a) opportunità giurisdizionali di verifica in concreto della condizione patologica; b) strumenti giuridici di contemperamento dei valori coinvolti che siano tali da consentire la sospensione della esecuzione o la modifica migliorativa delle condizioni del singolo, lì dove le ricadute della patologia finiscano con l’esporre il bene primario della salute individuale a compromissione, sì da concretizzare – in ipotesi di mantenimento della condizione detentiva – un trattamento contrario al senso di umanità (art. 27, comma 3 Cost.) o inumano o degradante (con potenziale violazione dell’art. 3 Convenzione Edu)» (si citano, con ampi richiami testuali, le sentenze n. 438 del 1995, n. 70 del 1994 e n. 313 del 1990).

Le opportunità di contemperamento dei valori in gioco, e la stessa giurisdizionalità piena dell’intervento, sarebbero a parere del rimettente invece compromesse da un assetto normativo come quello attuale che vede come unica risposta il mantenimento della condizione detentiva del soggetto affetto da infermità psichica sopravvenuta e l’affidamento al servizio sanitario reso in ambito penitenziario rilevandosi in particolare che, anche a fronte della avvenuta constatazione di inadeguatezza di simile trattamento, non risulterebbe consentita – allo stato – né la sospensione dell’esecuzione, né l’approdo alla detenzione domiciliare “in deroga” nei casi in cui non risulti applicabile quella ordinaria.

Tal che, alla luce dei mutamenti del quadro normativo, pertanto, assumerebbe nuovo significato il monito al legislatore rivolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1996 in cui la Corte, posta di fronte al dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 148 cod. pen., pur condividendo il «non soddisfacente trattamento riservato all’infermità psichica grave sopravvenuta, specie quando è incompatibile con l’unico tipo di struttura custodiale oggi prevista», aveva ritenuto che spettasse al legislatore individuare una «equilibrata soluzione» tale cioè da garantire anche a quei condannati la cura della salute mentale senza che fosse eluso il trattamento penale fermo restando che, negli anni successivi, tale invito sembra essere stato accolto dal legislatore «solo in minima parte» con l’introduzione dell’art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit., disposizione che tuttavia incontra limiti di applicabilità correlati alla natura del reato e all’entità del residuo di pena, e sarebbe rimasto comunque «eluso in riferimento alla condizione di quei soggetti affetti da patologia psichica sopravvenuta, non ammissibili alla detenzione domiciliare ordinaria (per i limiti di applicabilità della disposizione) né a quella in deroga».

Quanto ai profili di contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 CEDU, il giudice a quo, dopo avere ricordato la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale, riteneva di dovere sollevare questione di costituzionalità dato che «l’unica disposizione interna che potrebbe offrire – in caso di patologia psichica sopravvenuta – l’accesso alla composizione del conflitto in chiave di tutela delle garanzie fondamentali (art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit.) non risulta interpretabile in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato» visto che la protrazione della detenzione del soggetto affetto da grave infermità psichica sembrerebbe concretizzare, oltre che un trattamento contrario al senso di umanità, vietato dall’art. 27 Cost., anche una violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti previsto dall’art. 3 CEDU in un contesto normativo come quello italiano che ha di recente elevato (si richiamano gli artt. 35-bis e 35-ter ordin. penit.) tale divieto a regola fondante del sistema di tutela dei diritti delle persone detenute.

A questo punto della disamina, l’ordinanza di rimessione provvedeva a ricostruire gli orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo attraverso il richiamo puntuale di numerose pronunce da cui emerge univocamente che il divieto della tortura o delle pene o di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3 CEDU, ha carattere assoluto; nel dettaglio, si denotava come nella giurisprudenza del giudice europeo tale divieto configurerebbe un obbligo positivo per lo Stato e non ammetterebbe alcuna deroga neppure nel caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione stante il fatto che, in ogni caso in cui la protrazione del trattamento detentivo, per la particolare gravità della patologia riscontrata, per la inadeguatezza delle cure prestate o per la assenza delle condizioni materiali idonee risulti contraria al senso di umanità e rischi di dar luogo a un trattamento degradante, sarebbe «preciso dovere della autorità giurisdizionale provvedere alla interruzione della carcerazione» posto che la esecuzione della pena inframuraria sarebbe recessiva rispetto all’obbligo dello Stato di garantire che le condizioni dei reclusi non si traducano in trattamenti inumani o degradanti.

Oltre a ciò, si faceva altresì presente come, nella giurisprudenza di Strasburgo, l’obbligo di interruzione della detenzione non conforme all’art. 3 CEDU sarebbe ancora più pressante proprio nel delicato settore del diritto alla salute del soggetto recluso e di conseguenza, la mancanza di cure mediche adeguate e, più in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni non adeguate, potrebbe in linea di principio costituire un trattamento contrario all’art. 3 CEDU, e ciò anche perché la Corte di Strasburgo avrebbe in più occasioni affermato la necessità di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi portatori di accentuata vulnerabilità in quanto affetti da patologia psichica affermando che anche l’allocazione in reparto psichiatrico carcerario può dar luogo a trattamento degradante quando le terapie non risultino appropriate e la detenzione si prolunghi per un periodo di tempo significativo.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato chiedendo che la questione venisse dichiarata inammissibile a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del condannato, che escluderebbe l’asserito carattere «a rime obbligate» dell’intervento sollecitato dalla Corte di cassazione (sono citate, in particolare, l’ordinanza n. 318 e la sentenza n. 279 del 2013).

Si rilevava oltre tutto come la questione sarebbe anche infondata sia perché già ora, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’infermità psichica, che sfoci in grave infermità fisica, rende possibile il differimento della pena e la detenzione domiciliare “in deroga”, sia perché una infermità psichica, che non sfociasse in grave infermità fisica, porrebbe «tematiche, inerenti il relativo accertamento, caratterizzate da indubbie peculiarità, che escludono la possibilità di una piena equiparazione e legittimano un differente trattamento in sede di esecuzione della pena» oltre a doversi considerare il fatto che l’attuale sistema delle articolazioni per la salute mentale all’interno del circuito penitenziario, fondato sull’art. 65 ordin. penit., consentirebbe «un equo bilanciamento tra la posizione del reo e le esigenze di sicurezza sociale».

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

 La Consulta rilevava in via preliminare come dovesse essere respinta l’eccezione di inammissibilità formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri, basata sulla asserita mancanza di rimedi a “rime obbligate”, idonei a sanare i vizi di illegittimità costituzionale prospettati dalla Corte rimettente atteso che, nella giurisprudenza più recente, il giudice delle leggi aveva ripetutamente affermato che, di fronte alla violazione di diritti costituzionali, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione.

Proprio in materia penale, inoltre, la Corte aveva più volte esaminato nel merito le questioni portate al suo esame qualora fossero ravvisabili nell’ordinamento soluzioni già esistenti, ancorché non costituzionalmente obbligate, idonee a «porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato» ferma restando la facoltà del legislatore di intervenire con scelte diverse (così la sentenza n. 222 del 2018; ma si veda anche, analogamente, in un ambito vicino a quello qui considerato, la sentenza n. 41 del 2018, nonché la sentenza n. 236 del 2016).

L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risultava perciò condizionata, non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018) dovendosi evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore, e ciò vale tanto più in un’ipotesi come quella che rileva nel caso di specie nella quale viene in rilievo l’effettività delle garanzie costituzionali di persone che non solo si trovano in uno stato di privazione della libertà personale, ma sono anche gravemente malate e, dunque, versano in una condizione di duplice vulnerabilità.

Premesso ciò, la Consulta riteneva la questione fondata alla stregua delle seguenti ragioni.

Si rilevava prima di tutto come la ricostruzione dell’assetto normativo vigente compiuta dalla Corte di cassazione fosse senz’altro da condividere ritenendosi a tal proposito come fosse vero innanzitutto che l’art. 148, primo comma, cod. pen., dedicato appunto ai casi di «[i]nfermità psichica sopravvenuta al condannato», è oggi divenuto inapplicabile perché superato da riforme legislative che, pur senza disporne espressamente l’abrogazione, l’hanno completamente svuotato di contenuto precettivo dato che la richiamata disposizione codicistica prevede che il giudice possa disporre la sospensione o il differimento della pena e il contestuale ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, in casa di cura e di custodia ovvero, in determinate ipotesi, in un ospedale psichiatrico civile, nei casi di infermità psichica sopravvenuta dopo la condanna che siano di gravità tale da impedire l’esecuzione della pena in carcere.

Infatti, osservavano i giudici di legittimità costituzionale, l’art. 148 cod. pen. riflette un approccio alla malattia mentale tipico dell’epoca in cui fu scritto basato sull’internamento e, in tale orizzonte culturale, i detenuti malati psichici potevano essere allontanati dal carcere per le difficoltà che la convivenza con altri detenuti, in un ambiente ristretto, poteva (e può) generare, con lo scopo di essere reclusi altrove insieme ad altre persone similmente malate e senza prospettive di rientro nella vita sociale.

Orbene, pur prendendosi atto di come tale disposizione non sia mai stata formalmente abrogata, si evidenziava pur tuttavia come tutti gli istituti a cui essa rinvia siano scomparsi in virtù di riforme legislative che riflettono un cambiamento di paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale che può riassumersi nel passaggio dalla mera custodia alla terapia (ad esempio, in tal senso, il parere del Comitato nazionale per la bioetica, «Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere», del 22 marzo 2019).

Si osservava a tal proposito come, sulla base delle mutate premesse culturali che orientano la tutela della salute mentale, gli ospedali psichiatrici civili siano stati chiusi oltre quaranta anni fa dalla nota legge Basaglia (legge 13 maggio 1978, n. 180, recante «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori») mentre, quanto agli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e alle case di cura e custodia, una volta dimostrata la loro inidoneità a garantire la salute mentale di chi ivi era ricoverato (sentenza n. 186 del 2015), essi sono perciò stati espunti dall’ordinamento giuridico a far data dal 31 marzo 2015, a seguito di un lungo itinerario legislativo, avviato dall’art. 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 (Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria) e proseguito con l’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9; continuato con l’art. 1, comma 1, lettera a, del decreto-legge 25 marzo 2013, n. 24 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 2013, n. 57, e terminato con l’art. 1 del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 30 maggio 2014, n. 81; e infatti, conclusosi l’iter normativo, l’effettiva chiusura degli ultimi OPG era avvenuta solo grazie all’opera del commissario unico nominato dal Governo a tale scopo che ha perfezionato la definitiva dismissione di tali istituzioni nel 2017.

Chiusi gli ospedali psichiatrici civili e giudiziari, non può più farsi riferimento all’art. 148 cod. pen., vale a dire l’unica disposizione dedicata alla condizione dei detenuti affetti da gravi patologie psichiche sopravvenute.

Si evidenziava inoltre come, nel frattempo, il legislatore avesse istituito le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) su base regionale e a esclusiva gestione sanitaria ma tali strutture non erano però destinate ad accogliere i condannati in cui la malattia psichica si fosse manifestata successivamente atteso che per queste persone l’ordinamento non offre alternative al carcere ove è possibile soltanto che siano istituite apposite «sezioni speciali» per i soggetti affetti da infermità o minorazioni fisiche o psichiche, secondo quanto disposto dall’art. 65 ordin. penit..

La Corte, pertanto, faceva presente come il lungo e faticoso processo riformatore che aveva dato vita al fondamentale risultato della chiusura degli OPG non fosse stato completato con previsioni adeguate alla situazione dei detenuti con gravi malattie psichiche sopravvenute essendo rimasta, infatti, incompiuta quella parte della delega disposta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) relativa ai detenuti malati psichici volta a garantire loro adeguati trattamenti terapeutici e riabilitativi anche attraverso misure alternative alla detenzione, oltre che attraverso la creazione di nuove strutture sanitarie interne al carcere.

Tal che se ne faceva conseguire come l’istituzione delle REMS introdotte dalla riforma non fosse di rimedio alla lacuna che si era venuta a creare in seguito alla chiusura degli OPG, e ciò proprio perché le REMS non sono istituzioni volte a sostituire i vecchi ospedali psichiatrici sotto altra veste e denominazione mentre i vecchi OPG erano destinati a ospitare tutti i malati psichiatrici gravi in qualsiasi modo venuti a contatto con la giurisdizione penale e, dunque, anche i condannati con infermità psichica “sopravvenuta” alla condanna, al contrario le REMS, così come chiaramente indica la loro stessa denominazione, hanno come unici destinatari i malati psichiatrici che sono stati ritenuti non imputabili in sede di giudizio penale o che, condannati per delitto non colposo a una pena diminuita per cagione di infermità psichica, sono stati sottoposti a una misura di sicurezza (art. 3-ter, comma 2, del d.l. n. 211 del 2011, introdotto dalla legge di conversione n. 9 del 2012 e successivamente attuato con decreto del Ministro della salute adottato di concerto con il Ministro della giustizia 1° ottobre 2012, recante «Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia»).

Il chiaro dettato normativo attualmente vigente, ad avviso del giudice delle leggi, non poteva tra l’altro essere integrato in via interpretativa neppure considerando quel passaggio della citata legge di delega nel quale ambiguamente si prevede la «destinazione alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi» (art. 1, comma 16, lettera d, della legge n. 103 del 2017) trattandosi infatti di una delle previsioni della delega a cui non era stata data attuazione.

Di conseguenza, una volta fatto presente di come fosse rimasto incompiuto il complesso disegno riformatore, si sottolineava come oggi il tessuto normativo presentasse serie carenze che gravano, tra l’altro, proprio sulla condizione dei detenuti affetti da infermità psichica sopravvenuta, i quali non hanno accesso né alle REMS, né ad altre misure alternative al carcere, qualora abbiano un residuo di pena superiore a quattro anni, come il detenuto ricorrente, posto che i detenuti, che si trovino in condizioni simili a quelle della parte nel giudizio a quo, non possono avere accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit., prevista per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a quattro anni e che siano gravemente malati, indipendentemente dal tipo di patologia – fisica o psichica – di cui soffrono così come non può essere neppure a loro applicato l’istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena di cui all’art. 146, primo comma, numero 3), cod. pen. perché la grave patologia psichica non integra il presupposto ivi previsto della malattia grave in fase così avanzata da essere refrattaria alle terapie fermo restando che per giunta i malati psichici non possono nemmeno beneficiare del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena di cui all’art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen. perché questa previsione riguarda solo i casi di «grave infermità fisica» visto che quest’ultima disposizione non lascia margini per una diversa interpretazione tale da renderla applicabile anche al detenuto che soffra di una patologia psichica ostando a una ricostruzione ermeneutica di tal genere tanto il dato testuale, quanto l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale le sole patologie psichiatriche, che possono consentire al giudice di disporre il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, sono quelle da cui discendono anche gravi ricadute di tipo fisico (tra le numerosissime pronunce in questo senso Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 11 maggio-30 agosto 2016, n. 35826 e 28 gennaio-16 settembre 2015, n. 37615).

Riassumendo quanto sin qui enunciato, i giudici di legittimità costituzionale giungeva a rilevare quanto segue: poiché il rinvio obbligatorio o facoltativo di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen. riguarda solo le persone affette da grave infermità fisica, ne consegue che i malati psichici non possono giovarsi neppure della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., che a tali disposizioni rinvia nel definire il suo ambito di applicazione.

Tal che se ne faceva conseguire come la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per i detenuti affetti da grave malattia psichica sopravvenuta violasse i principi costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione.

Si osservava a tal proposito non solo come la malattia psichica sia fonte di sofferenze non meno della malattia fisica, ma anche che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività tenuto conto che spesso le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione, e ciò proprio in ragione del fatto che la sofferenza, che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti, si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale; difatti, come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana.

Da ciò se ne faceva discendere che se è vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati, che muovano anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, è vero altresì che occorre che l’ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario, e, per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva.

Di conseguenza, alla luce delle ragioni sin qui esposte, la Consulta stimava in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità.

Si faceva presente a tal riguardo come il giudice delle leggi, con una sentenza risalente, preso atto dell’insoddisfacente trattamento riservato all’infermità psichica grave, sopravvenuta alla condanna, avesse richiamato il legislatore a «trovare una equilibrata soluzione» che garantisca ai condannati affetti da patologie psichiche «la cura della salute mentale – tutelata dall’art. 32 della Costituzione – senza che sia eluso il trattamento penale» (sentenza n. 111 del 1996).

Orbene, osservava la Corte in questa pronuncia, a “distanza di tanti anni, tale richiamo è rimasto inascoltato”.

Si evidenziava oltre tutto come, pur consapevole che incombe sul legislatore il dovere di portare a termine nel modo migliore la già avviata riforma dell’ordinamento penitenziario nell’ambito della salute mentale, con la previsione di apposite strutture interne ed esterne al carcere, la Corte costituzionale non potesse esimersi dall’intervenire per rimediare alla violazione dei principi costituzionali denunciata dal giudice rimettente di modo che sia da subito ripristinato un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettività e la necessità di garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.) e di assicurare che nessun condannato sia mai costretto a scontare la pena in condizioni contrarie al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.), meno che mai un detenuto malato e pertanto, proprio alla luce di ciò, veniva accolta la questione di legittimità costituzionale prospettata dal giudice rimettente e dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., nella parte in cui non consente che la detenzione domiciliare “umanitaria” sia disposta anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, e ciò proprio perché la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, individuata dal giudice rimettente, ad avviso della Corte, si presta, allo stato attuale, a colmare le carenze sopra individuate.

Posto ciò, oltre a ritenere fondata questa censura di illegittimità costituzionale, la Consulta riteneva necessario approfondire la disamina in questione nei seguenti termini.

Si denotava prima di tutto come l’istituto della detenzione domiciliare sia una misura che può essere modellata dal giudice in modo tale da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute del detenuto qualora esso sia incompatibile con la permanenza in carcere e, contemporaneamente, le esigenze di difesa della collettività che deve essere protetta dalla potenziale pericolosità di chi è affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica.

Introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), la detenzione domiciliare è stata difatti nel corso del tempo ampliata quanto all’ambito di applicazione e parzialmente ridisegnata nelle sue finalità tanto da interventi del legislatore, quanto da pronunce della Corte costituzionale fermo restando che essa risponde sempre, tuttavia, secondo la giurisprudenza costituzionale, a una «logica unitaria e indivisibile» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009).

Per quanto rilevava nel caso di specie, si faceva altresì presente come la Corte avesse  riconosciuto che la detenzione domiciliare costituisce «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena”» sottolineando come essa sia sempre accompagnata da «prescrizioni limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (ordinanza n. 327 del 1989) fermo restando che, proprio per questo motivo, tra l’altro, essa differisce completamente dalla semplice scarcerazione del detenuto che consegue al rinvio dell’esecuzione della pena disposto sulla base degli artt. 146 e 147 cod. pen..

Del resto, a sostegno di quanto appena esposto, si sottolineava come il dato normativo, in effetti, non lasciasse alcun dubbio in proposito visto che l’art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. prevede che il «tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dall’articolo 284 del codice di procedura penale», il quale a sua volta statuisce che, con «il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta» (comma 1).

Pertanto, la detenzione domiciliare, ad avviso della Corte, non significa riduttivamente un ritorno a casa o tanto meno un ritorno alla libertà dato che se certamente essa comporta l’uscita dal carcere, è pur sempre richiesto che ciò accada attraverso severe limitazioni della libertà personale dato che il giudice, nel disporla, stabilisce le condizioni e le modalità di svolgimento e individua il luogo di detenzione, che può essere anche diverso dalla propria abitazionese più adeguato a contemperare le esigenze di tutela della salute del malato, quella della sicurezza e quelle della persona offesa dal reato (art. 284, comma 1-bis, cod. proc. pen.).

A tal proposito si rilevava come di fondamentale rilievo fosse la possibilità che la detenzione domiciliare possa svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora», anche in «luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza», come prevede l’art. 284 cod. proc. pen. e come ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit. sottolineandosi al contempo che il detenuto in regime di detenzione domiciliare non si può allontanare dal luogo a cui è assegnato, salvo specifiche autorizzazioni da parte del giudice (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.) il quale può anche imporgli limiti o divieti alla facoltà di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono (art. 284, comma 2, cod. proc. pen.) senza tener conto tra l’altro il fatto che, in ogni caso, da un lato, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento l’osservanza delle prescrizioni imposte (art. 284, comma 4, cod. proc. pen.), dall’altro, l’art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. statuisce che il tribunale di sorveglianza «[d]etermina e impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare».

Invece, l’introduzione nell’ordinamento penitenziario della disposizione relativa alla detenzione domiciliare “umanitaria” o “in deroga”, di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., si deve alla più recente legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni) dato che tale disposizione stabilisce che, quando «potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale», il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di quattro anni di cui all’art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., «può disporre la applicazione della detenzione domiciliare» fermo restando che, come suesposto prima, in virtù dei richiami agli artt. 146 e 147 cod. pen., la detenzione domiciliare “in deroga” è però oggi preclusa ai malati psichici.

Si denotava al riguardo come la stessa Consulta avesse già esplicitato che la ragione, che aveva spinto il legislatore a introdurre la detenzione domiciliare “in deroga”, fosse stata quella di offrire una «alternativa rispetto al differimento dell’esecuzione della pena» «nella prospettiva di creare uno strumento intermedio e più duttile tra il mantenimento della detenzione in carcere e la piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio): permettendo così di tener conto della eventuale pericolosità sociale residua di quest’ultimo e della connessa necessità di contemperamento delle istanze di tutela del condannato medesimo con quelle di salvaguardia della sicurezza pubblica» (ordinanza n. 255 del 2005) così come anche la giurisprudenza di legittimità sottolinea che la norma sulla detenzione domiciliare “in deroga” persegue proprio «la finalità di colmare una lacuna della previgente normativa», che «imponeva un’alternativa secca tra carcerazione e libertà senza vincoli», da un lato, obbedendo «all’esigenza di effettività dell’espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi» e, dall’altro, mirando a una esecuzione della pena «mediante forme compatibili con il senso di umanità» (così, tra le molte, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 aprile-16 settembre 2016, n. 38680).

Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si giungeva ad asserire come, in definitiva, la detenzione domiciliare sia  uno strumento capace di offrire sollievo ai malati più gravi per i quali la permanenza in carcere provoca un tale livello di sofferenza da ferire il senso di umanità ma, al tempo stesso, essa può essere configurata in modo variabile con un dosaggio ponderato delle limitazioni, degli obblighi e delle autorizzazioni secondo le esigenze del caso: grazie a una attenta individuazione del luogo di detenzione, possono dunque perseguirsi finalità terapeutiche e di protezione, senza trascurare le esigenze dei suoi familiari e assicurando, al tempo stesso, la sicurezza della collettività.

In tale contesto normativo così (ri)definito, si evidenziava come spetti al giudice un’attenta valutazione caso per caso e momento per momento della singola situazione spettando a costui di verificare, anche in base alle strutture e ai servizi di cura offerti all’interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari, se il condannato affetto da grave malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o debba essere destinato a un luogo esterno, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., fermo restando che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti, nel singolo caso, le esigenze della sicurezza pubblica.

In conclusione, si stimava opportuno sottolineare come, anche alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, la detenzione domiciliare “umanitaria” offra al giudice una possibilità da attivare quando le condizioni lo consentano, e ciò sulla base di una complessiva valutazione a cui non può rimanere estraneo «il giudizio di pericolosità ostativa a trattamenti extra-murari, opportunamente rinnovato e attualizzato in parallelo alla evoluzione della condizione sanitaria e personale del detenuto» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 novembre 2018-4 marzo 2019, n. 9410).

Conclusioni

La sentenza in questione è sicuramente condivisibile.

Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale l’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter, si consente che la detenzione domiciliare “umanitaria” sia disposta anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta.

Pertanto, operando in tal guisa, viene ripristinato un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettività e la necessità di garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.) e di assicurare che nessun condannato sia mai costretto a scontare la pena in condizioni contrarie al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.), meno che mai un detenuto malato consentendosi al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, dunque, si ribadisce, non può che essere positivo.

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