Il contrasto in Costituzione
È di certo facilmente intuibile lo “scontro” tra l’applicabilità di queste misure ed il principio di presunzione di innocenza o di non colpevolezza[1]: la previsione di cui all’art. 27, comma 2, Cost. a mente del quale l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva e quindi secondo cui la pena può essere applicata solo successivamente la sentenza irrevocabile di condanna, sembra collocarsi in contraddizione con l’art. 13, comma 5, Cost. che consente la limitazione della libertà personale anche prima della sentenza irrevocabile – magari al pari livello della pena (si veda la somiglianza tra custodia cautelare in carcere e la reclusione). Ma, come anticipato e recentemente anche chiarito dal Giudice delle leggi, nella Sentenza n. 265 del 21 Luglio 2010, questo contrasto è meramente apparente. Precisa infatti la Consulta che, come rilevato già nella Sentenza n. 64 del 1970, “l’applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto “vuoto dei fini”). Il legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad individuare – soprattutto all’interno del procedimento e talora anche all’esterno (sentenza n. 1 del 1980) – esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte – entro tempi predeterminati (art. 13, quinto comma, Cost.) – durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva”.
Le condizioni di applicabilità
A rigore di ciò, il Codice di rito pone determinate condizioni generali alla applicabilità delle misure cautelari personali: i) una determinata gravità del delitto contestato; ii) la punibilità in concreto del delitto, vista come condizione negativa in quanto non devono essere presenti determinati elementi che non la renderebbero praticabile; iii) la presenza di gravi indizi di colpevolezza.
La prima condizione è prevista dall’art. 280 c.p.p. dal quale si ricava che non sono applicabili le misure coercitive (ma anche le interdittive per la previsione dell’art. 287 c.p.p.), nei procedimenti per reati contravvenzionali per i quali possono applicarsi esclusivamente le misure cautelari reali del sequestro conservativo e preventivo (artt. 316 e 321 c.p.p.). È inoltre impedita l’applicazione delle misure coercitive (ed interdittive) se non è addebitato un delitto per il quale sia prevista la pena dell’ergastolo ovvero della reclusione superiore nel massimo a tre anni. La custodia cautelare in carcere può essere disposta esclusivamente per i delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore (quindi uguale o superiore) nel massimo a cinque anni e per il reato di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge del 2 Maggio 1974, n. 195 e ss.mm.ii. (punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate in violazione della presente legge: evidentemente per il legislatore sarebbe stato troppo aumentare la pena massima prevista per quest’ultimo reato; di certo sarebbe stato azzardato, e contro l’orientamento seguito negli ultimi anni, di cui si dirà dopo – che vede l’applicabilità della misura inframuraria solo come extrema ratio – diminuire i cinque anni di cui all’art. 280, comma 2, c.p.p.).
Quanto appena detto non è valido per chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare. Deve precisarsi, poi, che il Codice di rito impone, all’art. 278, che al fine dell’applicazione delle misure cautelari, per determinare la quantità di pena detentiva non deve tenersi conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato tranne che dell’aggravante dell’aver profittato di situazioni di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (art. 61, n. 5, c.p.) e dell’attenuante del danno o del lucro di speciale tenuità (art. 62, n. 4, c.p.) nonché di quelle circostanze c.d. autonome (per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato: art. 69, comma 4, c.p.) e di quelle ad effetto speciale (che importano un aumento o diminuzione della pena superiore ad un terzo: art. 63, comma 3, c.p.).
La seconda condizione è descritta analiticamente dall’art. 273, comma 2, c.p.p. laddove si prevede che nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o scriminante (ad es. la legittima difesa) o di una causa di estinzione del reato (ad es. la prescrizione) ovvero una causa di estinzione della pena (ad es. l’indulto di quattro anni, se la pena non sarà superiore a questa) che si ritiene possa essere irrogata.
Analisi degli indizi e caratteri
I gravi indizi di colpevolezza sono posti dall’art. 273, comma 1, c.p.p. Con l’utilizzo del termine “indizio”, come intuibile anche dal fatto che, di regola, ci si trova in una fase quale quella delle indagini preliminari, si vuole evidenziare che si tratta di una base probatoria ancora in evoluzione per ricevere una conferma in dibattimento: si vuole far riferimento tanto alle prove critiche (procedimento logico mediante il quale da un fatto noto si desume l’esistenza di un fatto ancora da provare tramite l’applicazione di massime di esperienza o leggi scientifiche: si pensi ad una testimonianza tramite la quale, in un procedimento volto ad accertare la colpevolezza di un indagato di un omicidio perpetrato nell’abitazione della vittima, si dichiara di aver visto, all’incirca all’ora del decesso, l’asserito soggetto agente del delitto uscire di corsa dall’abitazione – tale prova indiziaria può suggerire al giudice che la persona sottoposta ad indagini si trovava sul luogo del delitto, ma non anche che sia stato egli a commetterlo) quanto alle prove rappresentative (ragionamento che ricava per diretta rappresentazione da un fatto noto, un fatto che deve essere accertato: ad es. la testimonianza di chi riferisca aver visto l’indagato porre in essere la condotta oggetto di contestazione).
Recentemente ed in modo costante gli Ermellini hanno inteso specificare, appunto, che ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, la nozione di indizi di colpevolezza non coincide con quella applicabile per la formulazione del giudizio finale di colpevolezza, bastando, in sede cautelare, l’emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare una qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato[2] e che sia anche solo “grave”, giacchè il comma 1 bis dell’articolo 273 c.p.p. richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non il comma 2 dell’art. 192 c.p.p., che prescrive la precisione e la concordanza accanto alla gravità degli indizi: derivandone, quindi, che gli indizi, ai fini cautelari, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall’art. 192, comma 2, c.p.p., cioè con i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. Con l’aggettivo “gravi”, alla quale si è giunti dal precedente termine “sufficiente” utilizzato nel Codice del 1930, si è voluto specificare che si deve avere una elevata probabilità circa l’effettiva responsabilità penale dell’indagato, dovendo il giudice compiere un giudizio prognostico, anche se allo stato degli atti, sulla “colpevolezza” dell’indagato. Questo quantum è da tenere presente, per ovvie ragioni legate al principio di cui all’art. 27, comma 2, Cost. soprattutto se si è in presenza di una prova critica. Un problema potrebbe porsi nel caso in cui si fosse in presenza di più elementi indizianti, infatti, in tale fattispecie, le valutazioni del giudice della cautela deve essere duplice alla luce del principio di diritto secondo cui “la gravità degli indizi di colpevolezza postula una considerazione non frazionata ma coordinata degli stessi, che consenta di verificare se la valutazione sinottica di essi sia o meno idonea a sciogliere le eventuali incertezze o ambiguità discendenti dall’esame parcellizzato dei singoli elementi di prova, e ad apprezzare quindi la loro effettiva portata dimostrativa e la loro congruenza rispetto al tema di indagine prospettato nel capo di imputazione provvisoria”[3].
Le esigenze cautelari
Alle condizioni generali di applicabilità appena sopra trattate deve aggiungersi che le misure cautelari personali possono essere applicate esclusivamente quando esiste in concreto almeno una delle tassative esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.: i) il pericolo di inquinamento della prova; ii) il pericolo di fuga (per la cui rilevanza deve sussistere anche il convincimento del giudice del fatto che possa essere irrogata una pena superiore a due anni) e iii) quello di reiterazione ovvero di commissione di determinati reati.
La nuova previsione dell’attualità oltre alla concretezza
Con la legge n. 47/2015, il legislatore ha inteso introdurre, oltre al già presente requisito della concretezza, quello della attualità in relazione al pericolo di fuga e di reiterazione, rispettivamente previsti alle lett. b) e c) del suddetto articolo. L’aggettivo “attuale” veniva inizialmente inserito nel testo dell’art. 274 c.p.p. dalla legge n. 332/1995 che, tramite l’art. 3, comma 1, riscriveva integralmente la lett. a) della stessa disposizione del Codice di rito, precisando che il pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova doveva essere concreto e attuale e non meramente concreto, come in precedenza. Sia per il percolo di fuga, sia per quello di reiterazione, continuava a bastare la semplice concretezza fino al 2015.
Non c’è dubbio alcuno sul fatto che questa recentissima riforma abbia inteso imporre al giudice della cautela un più gravoso onere motivazionale, ma non sono mancati gli sforzi di enucleare elementi circostanziali attualizzanti in grado di evidenziare la persistenza delle esigenze cautelari. Ovviamente i tentativi non hanno prodotto particolari risultati positivi, posto che il giudice dovrà scandagliare nei dettagli la fattispecie concreta sottoposta alla sua attenzione, così da cogliere ogni elemento diretto a dimostrare che, nonostante il decorso di un significativo lasso di tempo rispetto al momento di consumazione del reato addebitato, le esigenze cautelari risultano ancora attuali.
Risulta comunque pacifico ormai che possono considerarsi rilevanti, ai fini della valutazione della sussistenza del pericolo di reiterazione della condotta criminosa (e di conseguenza della attualità dello stesso), i precedenti contenuti nel certificato penale piuttosto che i procedimenti pendenti dell’indagato, essendo questi idonei ad indicare la presenza di un concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, ove riguardino ipotesi delittuose caratterizzate da eventi similari oppure, a maggior ragione, identici[4]. Lo stesso vale per le denunce all’autorità giudiziaria per fatti analoghi a quello per cui si sta procedendo posto che gli elementi per una valutazione di pericolosità possono trarsi pure solo da comportamenti o atti concreti non necessariamente aventi natura processuale[5]. Identico sforzo resta, quindi oggi, da farsi per l’individuazione degli elementi che portano a concludere per la presenza del pericolo di fuga e quello di inquinamento probatorio. Si badi bene però che non si richiede che siano attuali i reati per cui si procede, bensì che lo siano le esigenze cautelari[6].
È bene precisare comunque che il trascorrere del tempo dalla commissione del reato non è totalmente irrilevante poiché, anche successivamente all’entrata in vigore della riforma del 2015, non può bastare ad attenuare oppure annullare le esigenze cautelari al fine della sostituzione ovvero della revoca della misura in origine applicata, ma il passare del tempo deve essere valutato, per motivare in ordine agli elementi di fatto da cui sono desunti esigenze cautelari e indizi, solo in fase applicativa e non al fine della sostituzione o della revoca del regime cautelare, come può ricavarsi dal fatto che l’art. 299 c.p.p. non richiede tale valutazione della attualità, a differenza dell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.
La gravità del titolo di reato
Il riformatore del 2015 ha altresì introdotto, alle lettere b) e c) dell’art. 274 c.p.p. che le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede, con ciò volendo sottolinearsi la necessità di fare un’analisi concreta dell’esistenza delle esigenze cautelari che non si limiti alla valutazione dell’allarme sociale ricavabile dalla gravità del fatto quanto, invece, ad altri ed ulteriori elementi indicativi della possibilità che vengano posti in essere nel prossimo futuro fatti omogenei per quelli per cui si procede ovvero che l’interessato si dia alla fuga. Con questa esplicita espressione utilizzata dal legislatore, quest’ultimo, ritiene graniticamente la giurisprudenza che, non ha certamente inteso riferirsi alla modalità e la gravità del fatto-reato, i quali devono, senza soluzione di continuità con quanto avveniva in precedenza, essere presi sempre in considerazione, ma alla sola fattispecie incriminatrice in astratto contestata nel procedimento[7]. Detto orientamento deve ritenersi attuale, dovendo comunque mantenersi fermo quanto previsto dal secondo periodo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. dal quale, a parere di chi scrive, può ricavarsi che solo il legislatore può selezionare delitti talmente gravi e allarmanti dal punto di vista sociale che possono giustificare, sulla base esclusivamente della fattispecie astratta (salvo prove contrarie ammesse in ordine alla presenza di gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari), l’adozione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere ovvero di un’altra in grado comunque di soddisfare le esigenze cautelari presenti in concreto evidenziate – terzo periodo.
Esigenze cautelari di eccezionale rilevanza
Si è trattato fin qui delle esigenze cautelari di natura ordinaria, ma il Codice di rito (art. 275, comma 4 e 4 ter) e leggi speciali (art. 89, D.P.R. 309/1990) prevedono anche che in determinati casi soggettivi e/o circostanze oggettive debbano sussistere esigenze cautelari c.d. di eccezionale rilevanza, le quali si differenziano dalle prime solo per il grado o dall’intensità del pericolo[8] senza trascurare che le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza comportano l’esistenza di puntuali e specifici elementi dai quali emerga un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo dei pericoli ai quali fa riferimento l’art. 274 c.p.p.
La scelta tra le tante misure previste
La scelta della misura cautelare, da parte del giudice che abbia accertato l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di almeno una delle esigenze cautelari, non è libera ma vincolata a limiti formali, in quanto non può disporre una misura più grave di quella richiesta dal P.M., e sostanziali, dovendo rispettare i criteri che sono espressi dall’art. 275 c.p.p. ovvero quelli: i) di adeguatezza della misura cautelare concreta in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare; ii) di proporzionalità alla gravità del fatto e della sanzione che si ritiene potrà essere inflitta; iii) di gradualità, così da applicare la custodia cautelare in carcere esclusivamente qualora ogni altra misura risulti inadeguata ovvero come extrema ratio. Di regola non sono ammessi automatismi né presunzioni e dell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve dare conto con autonoma valutazione nella motivazione della ordinanza genetica in relazione a tutti i temi principali: indizi, esigenze cautelari, motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi (eventualmente) forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura cautelare inframuraria, l’enucleazione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. non possono essere soddisfatte con altre misure. Sempre a tal proposito, e per meglio comprendere l’importanza di una motivazione così completa, l’art. 309, comma 9, c.p.p. modificato dalla legge n. 47/2015 dispone che il Tribunale del riesame (anche conosciuto come Tribunale delle libertà) annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., degli indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa.
Ora, se il primo dei principi detti sopra (di adeguatezza) non sembra particolarmente vincolare il giudice della cautela nella scelta della misura da applicare – se non per la motivazione –, lo stesso non può dirsi per il secondo ed il terzo principi detti (quello di gradualità nel senso sopra specificato e di proporzionalità) considerati determinati divieti imposti, alla base dei quali deve essere compiuta una difficile e delicata prognosi “allo stato degli atti” anche del quantum della condanna, e che oggi si prevede la possibilità di applicazione cumulativa di misure coercitive e interdittive (art. 275, comma 3, c.p.p.) e che il giudicante che intendesse disporre la misura carceraria dovrà comunque indicare le specifiche ragioni per cui ritenga inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico (art. 275, comma 3 bis, c.p.p.).
Risulta lapalissiano da queste scelte del legislatore la volontà di questo di spingere l’autorità decidente a disporre la custodia inframuraria solo in casi estremi, salvi specifici casi e circostanze. In particolare, al giudice sono posti determinati divieti quali, a norma dell’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. quello di provvedere la custodia cautelare in carcere oppure gli arresti domiciliari nel caso in cui ritenga che sarà concessa la sospensione condizionale della pena ex artt. 163 e 164 c.p.p., dunque quando si riterrà che la pena detentiva che verrà irrogata con sentenza in concreto non superi i due anni ed il giudice ritenga che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati; salva sempre la previsione di cui al successivo comma 3 e gli artt. 276, comma 1 ter, e 280, comma 3, c.p.p., ed i casi espressamente previsti dal terzo periodo dello stesso art. 275, comma 2 bis[9], il giudice non può disporre la carcerazione cautelare ove ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni (art. 275, comma 2 bis, secondo periodo, c.p.p.) e quindi la stessa sarà sospesa in attesa dell’applicazione di una misura alternativa (art. 656, comma 5 e 9 c.p.p.)[10].
Presunzioni relative e assoluta in casi determinati
Meritano di essere trattate, anche per l’attenzione ad esse dedicate dal Giudice delle leggi dal 2010 al 2015, le presunzioni relative e assoluta[11] di cui ai periodi secondo e terzo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. Nello specifico, il legislatore, in linea con l’orientamento espresso nel tempo dalla Consulta, ha previsto la presunzione assoluta di adeguatezza della carcerazione preventiva e quella di natura relativa della presenza di almeno una esigenza cautelare (perché “salvo che – a contrario dal modello per così dire ordinario – siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”), laddove sussistano gravi indizi di colpevolezza, esclusivamente nei casi in cui si proceda per i delitti di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p.: in altre parole, in questi casi ed una volta accertata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, la difesa che intenda chiedere la revoca della custodia cautelare – la sostituzione è ovviamente esclusa data l’applicabilità della sola misura estrema – non potrà dimostrare l’adeguatezza di una misura diversa al caso concreto ma, perché possa cadere la presunzione assoluta, è necessario che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussiste alcuna esigenza cautelare, di modo da non poter applicare nessuna delle misure.
Dispone infatti la Corte costituzionale, nella Sentenza n. 265/2010, che “dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità)”.
Il legislatore aveva operato la stessa scelta per le ipotesi in cui si procedeva per altri reati e, con la medesima Sentenza, la Consulta dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, c.p.p. nella parte in cui prevedeva che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 609 bis e 609 quater c.p., doveva applicarsi la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari e non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. In relazione a questi reati appena detti oltre ad altri, infatti, il terzo comma dell’art. 275 c.p.p. prevede, sempre nel caso in cui sussistano gravi indizi di colpevolezza in capo all’indagato, la presunzione della adeguatezza della carcerazione cautelare come relativa (non assoluta, dal momento che si ammette la prova contraria in ordine al fatto che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte anche con altre misure) e della esistenza di almeno una esigenza cautelare sempre ammettendo la prova contraria.
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Note
[1] L’ultima formulazione, scolpita nella Costituzione italiana all’art. 27, comma 2, a differenza di quanto si trova nella C.E.D.U. all’art. 6, par. 2, è preferibile in quanto pone la concentrazione sulla principale questione del processo che è, appunto, la colpevolezza e non l’innocenza. Resta fermo che il significato del principio non muta.
[2] Cass. Pen., Sez. IV, Sentenza n. 53369 del 15 Dicembre 2016.
[3] Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 57410 del 13 Novembre 2018.
[4] Ex plurimis Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 7045 del 12 Novembre 2013.
[5] Cass. Pen., Sez. VI, Sentenza n. 6274 del 15 Febbraio 2016.
[6] Basti come esempio il caso di cui alla Sentenza della Suprema Corte n. 32485 del 7 Maggio 2015.
[7] Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 50179 del 9 Dicembre 2015; Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 2758 dell’8 Ottobre 2015 a mente della quale “difatti se da un lato si è previsto che le situazioni di concreto ed attuale pericolo di reiterazione di condotte criminose non possano essere desunte esclusivamente dalla gravità dei reato per il quale si procede, da un altro lato non si è certo esclusa la possibilità che la pericolosità sociale dell’indagato venga desunta prendendo in esame le concrete modalità attuative della condotta”.
[8] Cass. Pen., Sez. VI, Sentenza n. 7983 del 1 Febbraio 2017 dove, in riferimento alla reiterazione, si è precisato che le qualificate esigenze cautelari richieste dall’art. 275, comma 4, c.p.p. si distinguono da quelle ordinarie solo per il grado del pericolo in quanto “a fronte dell’elevata probabilità di rinnovazione dell’attività delittuosa richiesta dall’art. 274 c.p.p., è necessaria la certezza che l’indagato, ove sottoposto a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, continui nella commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede”.
[9] Quando l’indagato abbia trasgredito le prescrizioni di una misura cautelare; nei procedimenti per i più gravi delitti o di violenza personale; quando non può essere applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari perché il domicilio è inidoneo e nessun’altra misura risulti adeguata.
[10] Con la Sentenza n. 41 del 6 Febbraio 2018 (motivazioni depositate il 2 marzo 2018) la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5 c.p.p. “nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni” considerato il limite di pena per accedere alla misura alternativa più adottata nella prassi, e cioè l’affidamento in prova al servizio sociale di cui all’art. 47 L. 354/1975. Per un approfondimento in merito alle ricadute di tale Sentenza anche sull’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. si consiglia Incostituzionalità dell’art. 656, c. 5 c.p.p. e ricadute in materia cautelare: liberi (quasi) tutti dopo la sentenza n. 41/2018 della Corte Costituzionale?, Matteo Cherubini e Andrea Mingione.
[11] A seconda che sia ammessa o meno prova contraria.
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