L’inadempimento e il conseguente risarcimento vengono valutati non unicamente sulla base del comportamento tenuto dal debitore, ma anche di quello che avrebbe dovuto assumere il creditore, in forza dell’art. 1227 c.c.
A differenza del primo comma del citato articolo, in cui si fa riferimento al comportamento colposo tenuto dal creditore danneggiato, il quale rileva ai fini della riduzione proporzionale del risarcimento; l’ipotesi di cui al secondo comma, prevede che un fatto dannoso, imputabile al solo debitore, ne escluda la risarcibilità limitatamente alle conseguenze ulteriori che il soggetto avrebbe potuto evitare con un proprio comportamento, successivo all’evento, utilizzando l’ordinaria diligenza.
Il comma secondo, pertanto, si caratterizza per assumere la forma di un’eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento costituisce un autonomo dovere giuridico di comportarsi secondo i criteri di buona fede e correttezza, di cui all’art. 1175 c.c.
Tale principio assume carattere costituzionalmente riconosciuto all’art. 2 Cost, secondo cui per l’appunto il debitore e il creditore debbono comportarsi correttamente in un’ottica di solidarietà corporativa. Pertanto, la buona fede in senso oggettivo si atteggia come criterio di reciprocità e quindi come impegno tale da imporre a ciascuna parte di comportarsi, a prescindere dagli oneri contrattuali e da quelli extracontrattuali del neminem laedere, in modo da preservare gli interessi dell’altra persona.
L’assunto di cui all’art. 1227 co. 2 c.c. nel porre la questione dell’inevitabilità da parte del creditore con l’uso dell’ordinaria diligenza nel condotta, non si limita a richiedere a quest’ultimo la mera inerzia di fronte all’altrui comportamento, bensì gli impone una condotta diretta e attiva che limiti le conseguenze dannose da parte della controinteressato. Le condotte comprese nell’ordinaria diligenza, pertanto, sono ritenute tutte quelle che non siano considerate eccezionali, ad alto rischio o di rilevante sacrificio per la parte.
La disposizione quindi, diversamente da quanto accade nel primo comma che richiede una sola azione omissiva, racchiude in sé una duplice condotta: una attiva, di evitabilità del danno; e una omissiva di inerzia davanti all’altrui comportamento.
Qualora il danneggiato abbia avuto la possibilità di evitare o interrompere mediante un contributo positivo di cooperazione, la serie di conseguenze dannose ascrivibili all’autore del reato, tale circostanza può comportare una ripartizione finale delle conseguenze economiche diversa, riconoscendo al danneggiato la solo differenza tra il complessivo ammontare del danno effettivamente subito e quella porzione di esso che poteva essere evitato con l’ordinaria diligenza. Tale comportamento attivo da parte del creditore non deve essere tale, però, da sostituirsi a quanto dovuto dal debitore.
Particolare rilevo nell’ambito della responsabilità del creditore danneggiato, assume la casistica relativa al settore sanitario nelle ipotesi di morte della vittima da incidente stradale che abbia rifiutato le cure mediche.
Il rifiuto e il consenso del paziente
Il rifiuto e il consenso sono espressione della libera volontà del soggetto, e in quanto tali devono essere assecondate dall’ordinamento.
Entrambi devono essere: effettivo, ovvero non necessariamente espresso né simulato; liberi, non viziato da violenza ed errore; spontaneo e attuale, cioè esistente al momento del fatto e perdurante per tutta la durata di questo.
Il principio di autodeterminazione è dunque, rinvenibile nell’art. 5 c.c., che letto a contrario con la doppia negativa stabilirebbe: ”gli atti di disposizione del proprio corpo non sono vietati, a meno che non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando non siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” .
Gli atti di disposizione consentiti, anche a titolo oneroso, riguardano parti o prodotti del proprio corpo, destinati comunque alla loro eliminazione (ad esempio capelli, unghie); al contrario la vendita del sangue e del midollo osseo è vietata, perché risulta contraria al principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al buon costume. Tali atti vengono ricondotti nell’alveo del consenso dell’avente diritto e non possono essere eseguiti, in caso di inadempimento, in forma specifica, con un mero risarcimento dei danni, perché non è possibile intervenire sul corpo contro l’altrui volontà, così come previsto dall’art. 13 co. 2 e 32 co. 2 Cost.
È bene sottolineare che il diritto alla vita è inviolabile e dunque indisponibile, in forza dell’art. 2 Cost. In ragione di ciò, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio sono penalmente sanzionati ex art. 579 e 580 c.p., ma anche dall’art. 27 co 4 Cost che vieta la pena di morte.
Ci si è chiesti se sussista un diritto del paziente, giuridicamente riconosciuto e tutelato, a rifiutare le cure, anche qualora questo possa comportare un grave pericolo per la vita dello stesso.
Sul punto, sono intervenuti due orientamenti.
Il primo indirizzo è volto a dare credito ai principi solidaristici e di indisponibilità del bene, ricavabili dall’artt. 5 c.c., art. 32 Cost, nonché agli artt. 579 e 580 c.p. In forza di tale orientamento, il paziente non sarebbe legittimato a rifiutare le cure, qualora tale negazione determini un grave pericolo alla sua vita. Sulla base di ciò si riconoscerebbe un vero e proprio onere per il medico di prestare le proprie cure, dovendo, pertanto, intervenire anche in caso di rifiuto espresso del paziente, con conseguente configurabilità di una responsabilità penale omissiva a carico del sanitario.
Di diversa opinione, risulta l’altra parte della dottrina che, invece, asseconda il principio consensualistico di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost.: in cui quest’ultimo, dovrebbe essere letto tanto quanto diritto alla vita, quanto a quello di lasciarsi morire, in ragione del più ampio principio di autodeterminazione.
A sostegno di quest’ultimo inquadramento, le cure obbligatorie sarebbero solo le ipotesi limite, come nel caso di scelte di carattere generale e pubblicistico, di tutela della collettività, di cui al co. 2 dell’art. 32 Cost. Pertanto, qualora il medico intervenga contro l’altrui volontà risulterebbe penalmente perseguibile per violenza privata, ex art. 610 c.p.
I motivi del rifiuto alle cure mediche possono essere di diverse natura. È il caso ad esempio dei testimoni di Geova, i quali possono manifestare la volontà di non subire trasfusioni di sangue, anche salva vita; nell’ipotesi di interventi d’urgenza, la dichiarazione di rifiuto alle cure mediche può essere espressa preventivamente con una dichiarazione scritta che menzioni anche il pericolo di vita.
Un dissenso espresso del malato a iniziare o proseguire le cure impone al medico curante di procedere con l’attività, pena la violazione della suddetta libertà di autodeterminazione del paziente.
Il tema relativo al consenso ovvero il dissenso informato ha, dunque, negli ultimi anni spostato l’epicentro dal medico al paziente.
Inoltre, il codice di deontologia medica, che se da una parte impone al medico il dovere di curare e mantenere in vita il paziente art. 35, dall’altro lo vincola alla desistenze dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti art. 32 ovvero, nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimersi, di proseguirla fino a quando la stessa sia ritenuta ragionevolmente utile.
Il principio dell’autodeterminazione individuale nella responsabilità sanitaria deve oggi considerarsi positivamente acquisito al nostro ordinamento giuridico, è fonte di un obbligo di informazione tale da recepire un valido consenso o dissenso, quale condizione di liceità di ogni tipo intervento lesivo della sfera psicofisica della persona, oltre a rilevare ai fini dell’applicabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p.
Sulla base di questo orientamento, pertanto, si ritiene che in caso di liquidazione del danno alla persona è da considerarsi irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad un intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, dal momento che non può configurarsi a suo carico nessun vincolo a sottoporsi all’intervento stesso, non essendo il rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di cui all’art. 1227 c.c. In ragione di ciò, gli eredi potranno vantare nei confronti del debitore un risarcimento del danno non patrimoniale, iure proprio, per la perdita del rapporto parentale.
Ulteriore questione riguarda l’ipotesi di ammissibilità del concorso colposo del creditore per non aver intrapreso nell’immediato le azioni giudiziarie.
L’art. 1227 co. 2 c.c., seppur non espressamente richiamato dall’art. 30 co. 3 c.p.a., deve essere pacificamente applicabile nel processo. La disposizione amministrativa prevede un’azione di condanna al risarcimento del danno cagionato per effetto dell’illegittima attività dell’amministrazione, la quale può essere esercitata in via autonoma nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva e nelle ipotesi descritte dalla norma, ovvero di concerto con l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo.
L’annullamento del provvedimento illegittimo
Pare a questo riguardo superata la tesi sostenuta dal Consiglio di Stato, in base alla quale la mancata proposizione della domanda di annullamento del provvedimento illegittimo impedirebbe la proposizione della successiva domanda risarcitoria. Quindi seppur vero che si ritiene riconosciuto l’autonoma proponibilità della domanda di risarcimento del danno, si deve aggiungere che il giudice nella sua attività valutativa dovrà tenere conto di tutte le circostanze di fatto e del comportamento che è stato assunto dalle parti, escludendo l’ipotesi di risarcimento nel caso in cui il danno si sarebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza, anche con l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.
Il Consiglio di Stato ha così deciso che non occorre più la domanda di annullamento a monte di quella risarcitoria; dovrà invece essere il giudice a decidere sulla fondatezza o meno della domanda risarcitoria proposta. L’azione di annullamento non costituendo più un limite processuale, viene considerata a contrario quale strumento sostanziale, volta eventualmente a escludere la risarcibilità di quei danni che, sulla base di un giudizio causale ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati con un’impugnazione tempestiva. La mancata impugnazione, pertanto, condiziona l’accertamento del giudice, il quale non potrà valutare il nesso causale tra il provvedimento amministrativo e il danno, e dunque si concretizzerebbe in una rigetto del risarcimento.
Il nesso causale si considera spezzato, qualora l’interessato non abbia esercitato tutti i mezzi processuali in suo possesso per evitare una qualsiasi forma di pregiudizio, di cui successivamente invoca il ristoro per equivalente.
In conclusione, il principio di cui all’art. 1227 co. 2 c.c. è intento a creare un legame di correttezza e solidarietà reciproca tra le parti, alla luce di quanto disposto dall’art. 2 Cost e dell’art. 1175 c.c. Tale onere del creditore danneggiato deve essere adeguatamente valutato da parte del giudice, il quale può valutare una diminuzione del risarcimento, in caso di concorso colposo del soggetto.
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