Gli ”Sham trust”, o ”trust ripugnanti”. Presupposti per l’azione di nullità e casi di esperibilità nell’Ordinamento italiano

Riccardo Monti 05/06/19
Lo studio in sintesi (Abstract): il presente scritto affronta l’articolato tema dei trust affetti da nullità, originaria o sopravvenuta, e della correlata azione giudiziale tesa ad acclararne l’invalidità. Lo sviluppo del problema conoscitivo passerà attraverso un inquadramento generale dell’istituto del trust, gli indici sintomatici del suo impiego distorto ed i rimedi difensivi per la conservazione dell’effetto segregativo.

SOMMARIO:| Premessa | 1. Fisiologia del trust | 2. Patologie d’impiego | 3. L’azione di nullità | 4. La Giurisprudenza sul punto | 5. Lo ”sham” nei reati tributari |

Premessa

”I trust sono stati attratti ai consueti meccanismi elusivi, dei quali la nostra (in)coltura giuridica sembra non potere fare a meno; le sentenze che accolgono le azioni revocatorie si contano a dozzine, ma ad un certo punto si arresteranno perchè i professionisti, anche i più ignoranti, saranno costretti a prendere atto che non è per mezzo dei trust che si riesce a realizzare il sogno del debitore impenitente: tenersi i propri beni senza pagare i propri debiti” (Prof. Avv. Maurizio Lupoi, Presentazione a ”Trust e attività fiduciarie – Quaderni. 13 Studi sul trust”, Wolters Kluver  2018).

Sin dalla sua comparsa in Italia, attraverso la ratifica della Convenzione de L’Aja nel 1989 con la legge n.364 (entrata in vigore il successivo 1 gennaio 1992), il trust ha ricevuto una nutrita diffidenza. Complici soprattutto gli improvvidi impieghi da parte di molti nostri colleghi, che hanno contribuito ad acuire questa percezione a causa dei ripetuti tentativi di elusione dell’art. 2740 c.c. .

Il pregiudizio maggiore, derivato dall’approccio critico e nichilistico di pochi ma perseveranti Osservatori, è nato da una raffigurazione del ”peccato -per richiamare una simbologia biblica- insito nella pietra e non nel peccatore” (”…Molti sanno parlar male, pertanto sconta l’ostracismo di un immaginario collettivo dell’opinione pubblica ignara…La ragione di tanto è la colpevole negligenza di una parte delle professioni vocate all’interno delle quali campeggia supponenza, presumibilmente per celare disinformazione…Allo stesso modo campeggia abbondante improvvisazione nell’affrontare le tematiche e le dinamiche dell’istituto, tanto da scoraggiarne l’adozione…”. Tratto da ”Trust: strumento per la tutela dei patrimoni”, in Fisco e Tasse – Speciale del 27 giugno 2018, studio Crusi&Partners -MI-, dott.comm. rev.cont./trust advisor Vincenzo Crusi).

Due brocardi latini potrebbero essere utili ad orientare il percorso della nostra riflessione:

”Fida terra, infidum mare” (”Sicura è la terra, insicuro il mare”). I trust non rappresentano dei costrutti giuridici artatamente congeniati per aggirare la responsabilità patrimoniale di debitori impenitenti; il problema è uno soltanto, chi li impiega in maniera distorta.

”Frustra legit, qui non intellegit” (”Inutile leggere, se non si capisce”). Le più gravi distorsioni verificatesi in materia di trust, concettuali ed applicative, sono state prodotte da consulenti professionali privi dei requisiti deontologici e del bagaglio di competenze necessari a garantirne un impiego corretto.

La direttrice-guida di questa nostra conversazione appare, quindi, la seguente: qualcosa di finto sarà tale prescindendo dalla forma che la finzione assumerà.

Uno ”sham trust” non è un trust, perchè è ”sham”.

Impieghi farlocchi dei trust arrecano forte discredito a questi straordinari strumenti negoziali:

  1. sussidiari agli istituti civilistici. Un trust correttamente redatto chiarisce da subito al lettore quali esigenze ne hanno richiesto l’impiego, in luogo degli istituti tipici a nostra disposizione. E’ opportuno, quanto conveniente, rendere chiare le ragioni per cui questi ultimi avrebbero limitato, di fatto, l’efficienza ed efficacia del programma voluto dal disponente;
  2. differenziati dagli istituti civilistici. Radicalmente diverse sono le logiche che ne muovono il funzionamento, e la imperterrita volontà dell’interprete italiano di forzare similitudini tra questi due ”microcosmi” giuridici funzionalmente distinti produce, come effetto diretto, quello di alterare la snella dinamica operativa dei trust, al fine di favorire un -apparente- senso di ”sicurezza” nell’operatore professionale formatosi nei percorsi accademici tradizionali;
  3. adeguati alle peculiari e variegate esigenze che la realtà quotidiana chiede di fronteggiare. I trust sono autentiche ”vestizioni sartoriali”, atti che ripudiano il copia-incolla informatico, tipico dei formulari civilistici spesso utilizzati come canovaccio operativo nei nostri studi di avvocati, commercialisti, notai, sino alle camere di consiglio delle aule giudiziarie.

Il trust compone interessi comuni, seppur con logiche speciali di tutela. Non veicola in sé un’intenzione fraudolenta, infatti chi si prefigge come unico scopo il raggiungimento della segregazione patrimoniale per sottrarsi ai creditori potrà farlo in tanti altri modi, più o meno leciti. Non ha bisogno del trust.

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1. Fisiologia del trust

Gli interessi che un trust advisor è chiamato giornalmente a comporre nell’atto istitutivo sono estremamente variegati. Tra di essi, ricordiamo:

-il passaggio generazionale ed il superamento delle defatiganti controversie successorie tra i coeredi;

-la tutela dei soggetti “deboli” alla luce delle evidenti criticità manifestate nella prassi dagli istituti civilistici tradizionali (ad es., la scarsa efficienza del controllo giurisdizionale sull’amministratore di sostegno e il trust previsto dalla legge n.112 del 25 giugno 2016 sul ”Dopo di noi”);

-la predisposizione di garanzie morali ed economiche per le formazioni sociali more uxorio, quando la disciplina del diritto di famiglia non ne salvaguarda adeguatamente le sorti;

-l’assunzione di un ruolo politico da parte di un imprenditore, e la necessità di arginare il conflitto d’interessi emergente dalla commistione dei ruoli di ”controllore” e di ”controllato” (ad es. il ricorso al ”blind trust” per un’impresa partecipante a gare d’appalto pubbliche, il cui socio è stato eletto nella compagine della p.A. che le indìce e/o valuta, ai fini dell’aggiudicazione);

-la liquidazione di patrimoni aziendali ed il preservamento del loro valore economico;

-l’asset protection di players commerciali e professionali che intraprendono attività dagli esiti incerti;

-la stessa prosecuzione di attività di famiglia per le quali è necessario il possesso di determinate qualità (si pensi alla conduzione di una farmacia ed alla morte del soggetto familiare titolare della laurea, in relazione alla norma imperativa di cui all’art.12, co.8, L.475/1968. Si v. A tal proposito ”Trust farmacia”, in Fisco e Tasse – Speciale del 21 luglio 2018, studio Crusi&Partners -MI- dott.comm. rev.cont./trust advisor Vincenzo Crusi).

”Income trusts”, ”charitable trusts”, ”business trusts”, ”pension trusts” etc., gli esempi sono molteplici.

E il fatto che il diritto dei trust non sia stato, finora, codificato dal Legislatore garantisce una maggiore duttilità dello strumento, scaturente dalla mancata tipizzazione, sotto un numerus clausus, di ipotesi applicative.

In termini di inquadramento sistemico, il trust può ritenersi appartenente all’insieme dei negozi giuridici unilaterali, non un contratto, perchè per il suo perfezionamento non è necessaria la partecipazione nè del trustee nè dei beneficiari: il vincolo di destinazione nasce per effetto della dichiarazione del disponente, mentre gli obblighi del trustee intervengono solo dalla sua accettazione del trasferimento; è tendenzialmente recettizio, ad eccezione del trust autodichiarato; a titolo gratuito (sono meno frequenti i casi in cui lo si costituisce in esecuzione di un obbligo assunto), ed in genere configura una liberalità nei confronti di altri soggetti determinati o determinabili; è tendenzialmente irrevocabile, difatti l’inserimento nell’atto istitutivo di clausole che prevedono ipotesi di revocabilità deve essere valutato dal redattore con estrema attenzione, in quanto potrebbero essere ritenute in sede di contenzioso la spia di una mancanza di volontà del disponente di spogliarsi dei beni conferiti nel fondo in trust; atipico, a causa variabile, che sorge per effetto della istituzione di un atto programmatico.

Se da un lato la menzionata atipicità rende il trust uno strumento straordinariamente flessibile, dall’altro l’Ordinamento italiano lo grava di una verifica sulla meritevolezza dell’interesse perseguito dalle ”parti”, nonchè sul rispetto dei limiti all’autonomia privata posti dalle norme interne.

Rilevano in tal senso gli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione, che impongono -rispettivamente- la compatibilità con le norme inderogabili, di c.d. ”applicazione necessaria”, e di ordine pubblico, disponendo in caso contrario la disapplicazione della Convenzione e, dunque, il mancato riconoscimento del trust così istituito.

Ciò si spiega storicamente, confrontando la struttura della c.d. ”Ragion di Stato” mitteleuropea (l’odierno Interesse pubblico) con quella del ”gruppo geo-politico” anglosassone: quest’Ultimo ha da sempre preferito che il Potere pubblico non intervenisse o si intromettesse negli affari privati, in assenza di contrarietà alle poche ma fondamentali norme regolamentatrici del commercio (celebre il laconico oggetto sociale di molte imprese inglesi: “any and all lawful purposes”, qualunque scopo legalmente ammesso, in breve ciò che non è vietato è consentito).

La nostra ”Ragion di Stato”, diversamente, pretende di esercitare sul trust una verifica di meritevolezza ex art. 1322 c.c.. Ciò, però, appare il forzato tentativo di individuare una causa tipica nella struttura di un negozio atipico, con il pericolo di sostituire impropriamente la funzione del negozio di trust con i motivi ad esso sottesi.

Provare a ravvisare una causa tipica nei trust, che sia direttamente ed immediatamente rilevante per l’ordinamento giuridico italiano, è operazione ermeneutica che richiederebbe una previsione normativa specifica, ad oggi mancante: ”Parte della dottrina, al di cui pensiero mi accorgo appartenere, considera detti articoli (il riferimento è agli artt. 13 e 15 della Convenzione) come elementi inibitori, nei paesi di Civil Law, al libero impiego dell’istituto in discorso ove l’unico elemento di estraneità sia rappresentato dalla Legge applicabile. Conseguentemente tale condizione condurrebbe alla paradossale situazione di palese violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta Costituzionale. Invero, le Corti italiane sarebbero obbligate a riconoscere un trust de l’Aja costituito da un cittadino straniero avente beni situati in Italia e regolati da una legge estera, magari quella di San Marino, e potrebbe denegare il riconoscimento dello stesso trust istituito, però, da un cittadino italiano. Ed ecco in soccorso la Suprema Corte di Cassazione, la quale illumina e imprime il giusto orientamento con la produzione di numerose pronunce in funzione delle quali i tribunali italiani devono condurre un esame approfondito dell’atto istitutivo del trust al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie da cui desumere la causa concreta dell’operazione, tenendo in debito conto che non è necessario, ai fini del riconoscimento, che il trust assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto interno; potendo, il trust, essere impiegato per il raggiungimento dei più vari scopi pratici”. Fondare, di tal guisa, il convincimento di nullità su forti e ragionevoli indizi i quali integrino l’animus nocendi e meno su teoremi e intuizioni pregni di pregiudizi…Ho inteso fare alcune riflessioni su detta sentenza (il riferimento è a Trib. MI, Sez.I, sentenza del 16/08/2016 dep. il successivo 25/08, identificativo R.G. I° grado n. 54480/2014) perché ritengo il giudicato emblematico della vulnerabilità del trust interno, ergo, urgente ed improcrastinabile è oramai la emanazione di una legge italiana sul trust non fosse altro perché il nostro Paese fu il primo Paese di Civil Law a ratificare la Convenzione de L’Aja, segno di un alto livello di comprensione e civiltà giuridica” (Crusi&Partners -MI- dott.comm. rev.cont./trust advisor Vincenzo Crusi, ”Il trust de L’Aja autodichiarato a rischio nullità. Così il Tribunale di Milano”, in Fisco e Tasse – Speciale del 10 luglio 2018).

Nei trust devono rappresentare delle ”costanti” solo alcuni specifici elementi caratterizzanti:

– il trasferimento del complesso di diritti dal disponente al trustee, ovvero la dichiarazione unilaterale di trust;

– la segregazione patrimoniale;

– l’affidamento;

– l’esistenza di beneficiari determinati/determinabili o di uno scopo, con conseguente funzionalizzazione del diritto trasferito al trustee;

– l’esistenza di un rapporto fiduciario, in virtù del quale risolvere eventuali profili di conflitto di interesse.

Partendo da questo primo approdo, e rammentando che l’atipicità del negozio non impone alcuna qualificazione/incasellatura dogmatica, l’interprete potrà fermarsi alla mera individuazione, all’interno del negozio atipico, dei suoi parametri generali (vale a dire la sua efficacia obbligatoria o traslativa, la natura corrispettiva, unilaterale o gratuita, l’aleatorietà o commutatività, etc.), per poi verificare il suo funzionamento in base alle regole normative di riferimento, anche se straniere, o adattare al caso di specie le regole generali dell’ordinamento interno, ovvero ancora quelle che, essendo comuni alle figure negoziali maggiormente similari a quella atipica, vengono a rappresentarne impronte caratterizzanti.

Del resto, la Suprema Corte ha in più occasioni ammesso la configurabilità di negozi traslativi atipici, purché sorretti da causa lecita, fondandola sul principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322, co.2, c.c. .

Sul perseguimento di interessi meritevoli di tutela si è espressa in più occasioni la  giurisprudenza, sia di merito che di legittimità. Seppur presenti autorevoli pronunce secondo cui ”…la previsione normativa (cioè la Convenzione), preclude oggi ogni indagine sulla meritevolezza di tutela della causa astratta del trust, che va ravvisata nel programma di segregazione di guisa che un trust avente tutte le caratteristiche di cui all’articolo 2 della Convenzione debba comunque essere riconosciuto come esistente e produttivo di effetti ancorchè autodichiarato” (Trib. Sassari n. 12234/15), e ”la valutazione (astratta) della meritevolezza di tutela è stata compiuta, una volta per tutte, dal legislatore. La legge 16 ottobre 1989, n. 364…infatti, riconoscendo piena validità alla citata convenzione dell’Aja, ha dato cittadinanza nel nostro ordinamento, se così si può dire, all’istituto in oggetto, per cui non è necessario che il giudice provveda di volta in volta a valutare se il singolo contratto risponda al giudizio previsto dal citato art. 1322 cod. civ. (nella premessa alla Convenzione si afferma espressamente che si tratta di un istituto tipico dei Paesi di common law, adottato però anche da altri Paesi con alcune modifiche)” (Cassazione, Sez. III Civile, Ordinanza del 19 aprile 2018 n.9637), nutrita giurisprudenza ritiene ancora che: ”Ai fini del riconoscimento della validità del trust è tuttavia necessario valutare la meritevolezza ex articolo 1322 del codice civile della causa concreta, giustificando il ricorso al trust soltanto il perseguimento di interessi meritevoli di tutela giuridica…” (tra le altre, Trib. Milano del 03/05/2013 e Trib. Reggio Emilia del 14.05.07).

Nelle summenzionate pronunce si introduce una relazione diretta tra la previsione generica di meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2, c.c. e la previsione specifica di cui all’art. 2645-ter c.c. che, come noto, ha introdotto nel nostro Ordinamento la possibilità di ”segregare” alcuni beni per destinarli a scopi meritevoli di tutela specificamente indicati.

La meritevolezza d’interessi cui fa riferimento l’articolo 2645-ter c.c. va identificata nell’idoneità del programma negoziale al raggiungimento di uno scopo lecito, che non sia altrimenti raggiungibile dalle parti nell’espletamento della loro autonomia negoziale mediante l’utilizzo di strumenti tipici, ancorché composti o collegati. Tale norma introduce, quindi, nel nostro Ordinamento il c.d. ”vincolo di destinazione”, ampliando il modello dei negozi destinatori.

I primi commentatori della norma in esame, nel presupposto che la meritevolezza sia sinonimo di liceità, hanno ritenuto che l’introduzione del vincolo di destinazione vanificherebbe la portata del secondo comma dell’art. 2740 c.c., giacché consentirebbe all’autonomia privata la costituzione di patrimoni separati sulla base degli interessi più disparati, anche per fini meramente egoistici, purché leciti. Infatti, lasciando prevalere la volontà dei privati su quella del legislatore, il dettato normativo del citato articolo non avrebbe più ragion d’essere.

In proposito, sostiene una parte della dottrina, la creazione di patrimoni separati fuori dalle ipotesi tipiche determinerebbe il sorgere, in capo ai privati, di un largo margine discrezionale, finendo con l’offrire al debitore una possibile via di fuga e facilitando operazioni fraudolente, con conseguente abrogazione, seppur implicita, dell’articolo 2740 c.c. . In tal modo si arriverebbe a fare della “destinazione” un deforme succedaneo del trust, a servizio di qualsiasi finalità.

Sul punto la giurisprudenza ha ritenuto che “Il vincolo di cui all’art. 2645 ter c.c. – norma da interpretare restrittivamente per non svuotare di significato il principio della responsabilità patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. – non può essere unilateralmente autodestinato su di un bene già in proprietà con un negozio destinatario puro, ma può unicamente collegarsi ad altra fattispecie negoziale, tipica od atipica, dotata di autonoma causa” (Trib. Reggio Emilia del 10/03/2015, Trib. Monza del 20/01/2015).

Ma sia chiaro: trust e vincoli di cui all’art.2645-ter c.c. sono ambiti che vanno tenuti assolutamente distinti, seppur nel ”pentolone” del pregiudizio sia più facile cucinare tutto lì, in una volta sola.

Per il legislatore italiano, peraltro, ulteriore elemento essenziale per la validità del trust (che anche in ciò si differenzia dall’istituto di cui all’art. 2645-ter c.c.) è rappresentato dalla completa esclusione del bene in esso conferito dalla sfera giuridico/patrimoniale del disponente.

Il trust, dunque, si sostanzia nell’affidamento a un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale ”proprietario” (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai beneficiari.

Ne consegue che “presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli sulla base delle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio” (Cass. Pen. n. 46137/2014, conformi Cass. pen. Sez. V, 24/01/2011, n. 13276, Cass. pen. Sez. III, 21/04/2017, n. 36801,  Cass. pen. Sez. III, 07/11/2017, n. 20862).

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2. Patologie d’impiego

La parola “sham” (finzione, menzogna) comparve inizialmente in una pronuncia della Court of Appeal inglese del 1967 in materia di contratti di “sale and lease back”, per indicare un atto compiuto al fine di ingenerare nei terzi il convincimento che fosse stata pattuita tra le parti una  obbligazione contrattuale differente rispetto a quella effettiva (“sham contract”).

Nel mondo del trust si è affermata con prodigiosa rapidità la valenza aggettivale nell’espressione “sham trust”, così codificando un errore di prospettiva, perché l’attributo “sham” andrebbe riferito all’atto istitutivo o altro documento, non al rapporto giuridicoQuesto errore di prospettiva non è percepito dal giurista di diritto civile, il quale istintivamente accosta “sham” a “simulazione” e, quindi, necessariamente carica il primo termine delle valenze concettuali del secondo, senza considerareche non è mai esistita in common law una teoria giuridica della simulazione” (tratto da: Corte Sammarinese per il Trust e i rapporti fiduciari, collegiale Presidente Maurizio Lupoi, a latere Antonio Gambaro – Paul Matthews. Causa n. 2017/04VG – Ordinanza del 5 dicembre 2017).

La Pronuncia richiamata riporta alcuni casi di Giurisprudenza anglosassone sullo ”sham”, in cui la categoria è stata ritenuta ricorrente quando, ad esempio:

– in un trust autodichiarato da due persone, una delle due non aveva alcuna intenzione di fare nascere un trust e l’altra non si era neanche chiesta che cosa stesse firmando;

– senza alcuna previa intesa fra disponente e trustee, nel corso del rapporto, il trustee accetti supinamente ogni richiesta che il disponente gli faccia, ma non quando il trustee valuti ciascuna volta tutti i fattori rilevanti;

– quando le parti abbiano diversi reali intendimenti, purché entrambe accettino che il negozio che hanno stipulato non corrisponda alla loro apparente volontà e sia quindi una “pretence” ”.

L’intesa previa – l’unica prospettazione che collocherebbe il tema dello sham nell’area della simulazione di diritto civile – si ha quando il disponente ha voluto il trust per realizzare un progetto non esplicitato dall’atto istitutivo e il trustee – sebbene non formalmente tenutovi – esercita ogni suo potere per l’attuazione di quel progetto.

Possiamo, pertanto, ritenere che lo ”sham” non sia riducibile alla simulazione civilisticamente intesa.

Inoltre, il controllo da parte del disponente dei beni in trust, tenendo da parte il trustee, non conduce necessariamente a individuare uno “sham”, sia perché potrebbe trattarsi dell’inadempimento del trustee,  sia perché potremmo trovarci di fronte ad un trust il cui trustee sia privo dell’ordinario compendio di facoltà che lo contraddistingue (come il nominee nel “bare trust”, o trust ”nudo”).

È discusso se un trust inizialmente “sham” possa divenire un trust ordinario quando, mutato il trustee, il nuovo agisca onestamente al solo vantaggio dei beneficiari.

Secondo alcune recenti pronunce non si ha peraltro “sham” senza un ulteriore requisito, quello del comune proposito di produrre nei terzi un falso convincimento circa la natura del rapporto.

Invero, alcune recenti posizioni legano lo “sham” all’agire fraudolento.

Questa varietà di regole interpretative dimostra che non esiste una concezione giuridica di “sham” generalmente condivisa.

La giurisprudenza italiana ha accolto il termine “sham”…attribuendogli una accezione vicina a quella del termine inglese “pretence”, ossia “una mera apparenza”, e facendone regolarmente derivare la nullità del trust. Risultano numerosi impieghi del termine nella giurisprudenza civile di merito, usualmente nella accezione di “simulazione”, sebbene non appaia alcuna analisi del tema legata alla visione della simulazione degli atti unilaterali secondo il codice civile italiano (art. 1414, co. 3, c.c.)” (Ordinanza Corte sammarinese citata).

Occorrerà, in proposito, non limitarsi alla volontà – per così dire – “ufficiale” indicata nell’atto, ma avere riguardo alle circostanze che hanno prodotto tale volontà e, soprattutto, all’effettivo comportamento successivamente tenuto nello svolgimento dei rapporti negoziali.

Per quanto concerne in particolare lo sham trust, queste tipologie di atti sono state dichiarate simulate (e, quindi, nulle o, comunque, inefficaci) allorquando il disponente abbia mantenuto un controllo rilevante sull’attività compiuta dal trustee, potendosi ritenere in ragione di tanto che, di fatto, non vi era stato un effettivo spossessamento del patrimonio, ma si era perseguito l’unico -fraudolento- scopo di eludere i diritti dei terzi sul patrimonio del disponente.

Le Comunicazioni UIF costituiscono un importante ausilio nell’opera di valutazione delle fattispecie concrete di ”apparenza”:

  1. Sotto il profilo soggettivo meriteranno particolare attenzione i seguenti fattori:

– istituzione di trust da parte di soggetti che, in base alle informazioni disponibili, risultano:

  • in una situazione finanziaria di difficoltà o prossima all’insolvenza, ovvero sottoposti in passato a procedure fallimentari o di crisi;
  • gravati da ingenti debiti tributari con l’Amministrazione finanziaria;

– presenza a vario titolo nel trust di soggetti che, in base alle informazioni disponibili, sono sottoposti a indagini;

– conferimento dell’incarico di trustee a un soggetto che, in base alle informazioni acquisite in sede di adeguata verifica, presenta un profilo palesemente incoerente con la complessità dell’attività gestoria richiesta e le finalità del trust (ad es. per entità/natura dei cespiti del fondo);

– reticenza del trustee nel fornire documentazione inerente al trust (es. atto istitutivo), con conseguente ostacolo all’individuazione del titolare effettivo e dello scopo del trust;

– coincidenza tra disponente e trustee (i c.d. trust ”autodichiarati”), tra disponente e guardiano, ovvero sussistenza di rapporti di parentela o anche di lavoro subordinato fra gli stessi;

– frequente rilascio, da parte del trustee, di deleghe ad operare, specie se a favore del disponente o di soggetti a lui prossimi;

– revoca del trustee da parte del guardiano priva di apparente giustificazione;

– finalità del trust che appaiono incongrue rispetto ai rapporti personali, economici o giuridici intercorrenti tra disponente e beneficiari del trust ovvero tra disponente e guardiano;

– presenza del disponente fra i beneficiari di capitale, o indicazione dello stesso quale unico beneficiario, specie se non risulta chiaramente percepibile la causa istitutiva del trust;

– la previsione di una coincidenza tra disponente e trustee (c.d. trust autodichiarato) ovvero tra disponente e guardiano può essere considerato il segnale dell’assenza di effettiva volontà del disponente di modificare il suo rapporto con i beni conferiti in trust. Peraltro nei trust familiari, la coincidenza tra disponente e trustee/ guardiano, l’esistenza di rapporti di parentela tra gli stessi e la coincidenza tra disponente e beneficiari possono essere fisiologici. Nei trust esteri, al contrario, la qualità di trust autodichiarato può essere motivata dalla necessità di agevolare l’avvio del trust: in questi casi, infatti, non è infrequente che la costituzione della provvista iniziale del trust fund sia effettuata dallo stesso trustee professionale straniero, mentre i successivi conferimenti siano realizzati ad opera del vero disponente (“de facto settlor”).

  1. Sotto il profilo oggettivo:

– istituzione del trust per scrittura privata autenticata e/o atto pubblico con ravvicinata ampia modifica dell’atto stesso mediante adozione di diversa forma giuridica (es. scrittura privata non autenticata);

– istituzione del trust in Paesi o territori a rischio, specie se il disponente o un beneficiario è residente in Italia, o se il fondo sia costituito anche con beni immobili siti in Italia. Il luogo di “istituzione” nel presente contesto va riferito a quello di “residenza fiscale” del trust; non rileva, invece, a questi fini, la scelta della legge regolatrice né il luogo di redazione dell’atto istitutivo o dei successivi atti di collocazione del trust al vertice di una complessa catena partecipativa, soprattutto se con diramazioni in Paesi o territori a rischio;

– presenza, nell’atto istitutivo del trust, di clausole che:

  • subordinano sistematicamente l’attività del trustee al consenso del disponente, dei beneficiari o del guardiano, specie in presenza di rapporti di parentela o di contiguità tra trustee e detti soggetti;
  • impongono al trustee l’obbligo di rendiconto nei confronti del solo disponente, specie se questi non figuri fra i beneficiari;
  • prevedono il sistematico e ingiustificato utilizzo da parte del disponente di beni conferiti in trust;
  • non risultano comprensibili dal disponente in quanto particolarmente complesse;

– costituzione in trust di:

  • beni la cui consistenza o natura risulti incoerente rispetto alle finalità o alla tipologia del trust;
  • beni recentemente pervenuti al disponente di cui non sia nota la provenienza, specie nel caso di trust ”opaco”;
  • aziende con indicazione nell’atto istitutivo del trust di finalità generiche;

– attività gestoria da parte del trustee non coerente rispetto agli scopi che il trust dovrebbe perseguire in base all’atto istitutivo;

– operazioni di gestione effettuate dal trustee con la sistematica presenza del disponente, del guardiano o dei beneficiari;

– frequenti dazioni in favore di nominativi ricorrenti in trust opachi, specie se effettuate verso Paesi o territori a rischio;

– dazione al guardiano, a titolo di remunerazione per l’incarico svolto, di cespiti del fondo in trust o di somme non corrispondenti a quelli eventualmente previsti dall’atto istitutivo.

3. L’azione di nullità

La nullità è la più grave forma di invalidità dei negozi giuridici, determinata da un vizio che li rende inidonei a produrre i loro effetti e, perciò, inefficaci.

E’ assoluta quando (di regola) la legittimazione ad impugnare il negozio spetti a chiunque vi abbia interesse, mentre è relativa quando la legittimazione è propria solo di alcuni soggetti specifici.

Può poi essere originaria o successiva, quando il venir meno degli effetti dipende da un vizio strutturale e intrinseco della fattispecie, ovvero da un fatto successivo, che pone nel nulla gli effetti di un negozio che, alla sua nascita, era valido ed efficace.

Il Codice Civile italiano definisce e tipizza l’intervento della sanzione della nullità nei contratti:

  1. contrarietà a norme imperative;
  2. mancanza di uno dei requisiti essenziali prescritti dall’art. 1325 c.c. (causa, oggetto, accordo delle parti, forma ad substantiam);
  3. causa illecita (articolo 1343);
  4. frode alla legge (articolo 1344);
  5. motivo illecito e comune ad entrambi i contraenti (articolo 1345);
  6. oggetto impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile (articolo 1346);
  7. condizione illecita (articolo 1354);
  8. apposizione di una condizione sospensiva meramente potestativa (articolo 1355);
  9. tutti gli altri casi di nullità stabiliti dalla legge.

Il negozio nullo non può essere sanato, salvo che la legge non prescriva diversamente.

Se un trust integra uno o più dei casi elencati (es. Trust sham, perchè falsamente liquidatorio), sia per un fattore presente al momento della sua istituzione, che per una modifica sopravvenuta o un atto dispositivo posteriore, si pone il problema di capire chi possa proporre l’azione di nullità e se vi siano dei limiti temporali alla stessa.

L’azione per far dichiarare la nullità di un negozio, notoriamente, non è soggetta a prescrizione (ex artt. 1422 e 2934 c.c.). Poniamo, però, il caso che un disponente abbia conferito in trust il suo patrimonio, quindi l’atto è stato assoggettato a trascrizione nei pubblici registri per la pubblicità legale (art. 2643 c.c.): le domande dirette a far dichiarare la sua nullità, nonchè quelle dirette a impugnare la validità della sua stessa trascrizione, vanno esse stesse trascritte (art. 2952, co.6, c.c.).

Ma se la domanda giudiziale viene trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (art. 2952, co.6, c.c.).

Ciò sta a significare che se il disponente conferisse in un fondo in trust un suo cespite immobiliare e l’atto pubblico venisse registrato alla data del 01.01.2019 (poco importa se il disponente fosse in bonis al momento del trasferimento, salvo che ciò non abbia rilevanza penale, avendo, le fattispecie di reato, riguardo all’elemento soggettivo dell’agente come costitutivo), la presenza di una causa di nullità al momento istitutivo, modificativo o dispositivo successivo, non avrebbe ”seguito” nell’inficiare gli atti di cessione di diritti compiuti dal trustee sui beni segregati, qualora l’avvio di un’azione per la sua declaratoria ope iudicis venisse trascritta dopo il 31.12.2024 .

Chiariamo i termini con un esempio: ove il trustee vendesse l’immobile conferito in trust ad un terzo soggetto estraneo, nel quinquennio considerato, la vendita non verrebbe inficiata (quindi non avrebbe reversibilità l’alienazione del bene) neanche a seguito di sentenza che acclarasse la nullità del trust o dell’atto dispositivo posteriore, salvo la prova della mala fede del terzo acquirente.

La vendita sarebbe, in tal caso, validamente conclusa e inattaccabile, perchè gli atti di disposizione del fondo -seppur valutati nulli- sopravvivono in ragione del legittimo affidamento del terzo in buona fede.

L’azione di nullità si introduce con atto di citazione da notificarsi al trustee e non al trust, perchè quest’ultimo è privo di personalità giuridica in quanto considerato un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, intestati al trustee.

Il trustee, perciò, è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, dispone ed ha il libero esercizio dei diritti (sebbene vincolati ad un fine) che vi si fanno valere e pertanto è ”capace” di stare in giudizio ex art. 75 c.p.c., non quale legale rappresentante dei beneficiari o di altro soggetto giuridico. Egli, in effetti, è titolare di una proprietà “dovuta” o “destinata” (Prof. Avv. Maurizio Lupoi, ”L’atto istitutivo di trust”).

Quanto al Giudice competente, la clausola contenuta nell’atto istitutivo può valere per i soggetti del trust quali il disponente, il trustee ed i beneficiari, ma non anche per i soggetti che rispetto ad esso si pongono in una posizione di terzietà.

Nel caso dell’azione di nullità non si vogliono far valere diritti nati dal trust, ma si contesta l’atto dispositivo della segregazione dei beni in trust o, quantomeno, la sua non opponibilità nei confronti di terzi aventi interesse.

La competenza giurisdizionale spetterà quindi ai giudici dello Stato in cui è domiciliato il convenuto. Ove i soggetti coinvolti nella causa avessero il domicilio in altro Paese, è possibile convenirli tutti davanti al Giudice del luogo in cui uno qualsiasi è domiciliato, sempre che tra le domande giudiziali esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione ed una decisione uniche, così da prevenire il conflitto tra giudicati.

L’individuazione dell’azione più idonea va fatta alla luce della situazione concreta emergente dall’atto costitutivo, sarà pertanto preferibile esperire un’azione per declaratoria di nullità dell’atto istitutivo del trust in quanto il medesimo è ”sham”, quando il settlor si è spogliato solo fittiziamente del bene conferito, continuando ad esercitare sullo stesso un potere uti dominus, emergendo in questo caso una vera e propria simulazione del trust. La nullità va fatta valere ai sensi dell’art. 1418 c.c. e degli artt. 13 e 15, lett. e), della Convenzione de L’Aja.

Al contrario, sarà preferibile promuovere un’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. qualora non ricorrano le condizioni necessarie per far dichiarare il trust come ”sham”, ma quest’ultimo appaia comunque posto in essere al fine di pregiudicare le ragioni dei creditori del settlor, sempre che si possa almeno supporre la cosiddetta scientia damni in capo al disponente.

I presupposti per l’accoglimento dell’azione revocatoria sono a) la sussistenza di una ragione di credito da parte del soggetto che agisce; b) l’eventus damni, cioè il compimento di un atto che non necessariamente determini l’insolvenza del debitore, ma renda anche soltanto più difficoltosa una eventuale futura soddisfazione del creditore mediante una modifica del patrimonio non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche sotto quello qualitativo; c) la scientia damni da parte del debitore, consistente nella generica, ma effettiva consapevolezza del danno che si arreca agli interessi del creditore, senza che assuma rilievo l’intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore.

In particolare, in relazione all’elemento del danno, l’elaborazione giurisprudenziale è solita considerare in re ipsa l’eventus damni, quale presupposto dell’azione revocatoria ordinaria, allorquando l’atto di disposizione determini la perdita concreta ed effettiva della garanzia patrimoniale del debitore; con le ulteriori precisazioni che la revocatoria ordinaria di atti a titolo gratuito non postula che il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore sia conosciuto, oltre che dal debitore, anche dal terzo beneficiario e, per i crediti sorti dopo, non richiede anche la partecipatio fraudis del terzo come specifico elemento psicologico, così come per gli atti a titolo oneroso.

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4. La Giurisprudenza sul punto

Sulla tematica che occupa la nostra riflessione si sono espresse, tra le altre, tre corti di merito (il Tribunale di Forlì con un’ordinanza del 16.2.2015, e due sentenze, rispettivamente quella pronunciata dal Tribunale di Genova il 18 febbraio 2015 e quella del Tribunale di Sassari del  20 febbraio 2015).

Tali provvedimenti si sono pronunciati in ordine alle domande di nullità, simulazione o revocatoria poste in essere da alcuni creditori dei disponenti nei confronti dei rispettivi trust, tutti istituiti successivamente all’insorgere di posizioni debitorie dei disponenti medesimi.

Quello che accomuna queste sentenze è l’intento di delineare il corretto ambito di utilizzo di questo istituto. Ed invero, come sopra indicato, la nozione di trust contenuta nella Convenzione dell’Aja è assai ampia, non essendo necessaria la distinzione tra la figura del disponente e quella del trustee, e non essendo richiesto come elemento essenziale il trasferimento dei beni dal disponente al trustee, è sufficiente che i beni siano posti sotto il controllo autonomo di quest’ultimo, con esclusione di qualunque interferenza da parte del disponente.

Ma nel caso in cui il trust, oltre ad essere autodichiarato, contempli il disponente anche nella veste di unico beneficiario, siamo invece in presenza di un’ipotesi d’impiego del tutto ”sham”, posta in essere al solo scopo di frustare le pretese dei creditori, sottraendo alla garanzia patrimoniale del disponente i beni di più agevole aggredibilità.

I° CASO, TRIBUNALE DI FORLI’: qui il trustee agisce ex art. 702 c.p.c. per chiedere di dichiarare l’insussistenza del diritto di una banca a iscrivere ipoteca su beni immobili segregati in un trust, mentre la banca contestava la domanda chiedendo in via riconvenzionale dichiararsi la nullità dell’atto istitutivo del trust, dell’atto di destinazione ex articolo 2645-ter c.c. e, in via subordinata, la revocatoria dell’atto di conferimento dei beni in trust. Dello stesso tenore la domanda riconvenzionale di altro convenuto.

La sentenza offre spunti particolarmente interessanti.

Il caso in questione attiene a un trust autodichiarato con funzioni liquidatorie nel quale il disponente, soggetto non fallibile e già fideiussore, nell’interesse di una società, a favore di alcune banche, aveva apportato beni personali al trust che aveva come beneficiari i creditori della medesima società avendo questa richiesto l’ammissione alla procedura di concordato. Il trustee, a sua volta, risultava essere un soggetto terzo non legato da particolari vincoli con il disponente.

II° CASO, TRIBUNALE DI GENOVA: la Banca attrice chiede la revocatoria dell’atto istitutivo di un trust nel quale la convenuta, sua debitrice, conferiva il proprio unico bene immobile consistente nella quota di un mezzo dell’immobile di cui la stessa era comproprietaria col marito. La disponente assumeva, essa stessa, anche la qualifica di trustee, e il trust risultava essere stato istituito per “far fronte al mantenimento del miglior tenore di vita possibile della figlia A.M., nata nel 1974”.

La convenuta ha resistito affermando che la costituzione del trust non era avvenuta in frode ai creditori, ma per motivi di carattere familiare/personale legati ai propri difficili rapporti col marito.

III° CASO, TRIBUNALE DI SASSARI: il terzo caso risulta più articolato, essendosi in presenza di due atti di trust risalenti, il primo, al 2006, e l’altro, al 2010.

Il primo di essi risultava essere stato istituito “per provvedere alla sicurezza economica dei propri discendenti, prevenire eventuali dissensi fra di essi ed evitare che dispongano dei beni in trust prima di una certa data “ (cinquanta anni, n.d.r.).

Del secondo trust la sentenza non fornisce indicazioni precise, ma è lecito ritenere che le finalità di questo trust non dovevano discostarsi troppo da quelle del precedente.

Sul tema della nullità, che in tutti e tre i casi viene evocato, la domanda viene respinta con ineccepibile argomentare.

Nel caso di Forlì, dopo aver richiamato la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che esclude comunque, per i trust liquidatori, la sanzione della nullità dell’atto istituivo del trust, si fa rilevare come esso non corresse il rischio di incorrere nella sanzione della irriconoscibilità, dal momento che non si poneva in alternativa rispetto alla procedura concorsuale, ma andava a rivestire una posizione accessoria rispetto alla procedura di concordato, e inoltre perché il disponente aveva agito come fideiussore, non personalmente fallibile, e pertanto non si era sottratto a una possibile procedura concorsuale.

Nel caso di Genova, la richiesta della banca creditrice consisteva in una domanda di revocatoria che, per la verità, non ha avuto difficoltà ad essere accordata. La Corte genovese infatti, pur ritenendo le finalità del trust di per sé non censurabili, avvicinandosi questo “a una sorta di fondo patrimoniale orientato nell’interesse della famiglia”, non ha potuto non rilevare come, a fronte delle sia pur rispettabili e meritevoli intenzioni del disponente, lo stesso aveva ricevuto la notifica di un atto di costituzione in mora e di un decreto ingiuntivo prima di procedere alla istituzione del trust, situazioni che integravano, chiaramente, il ricorrere dell’eventus e della scientia damni.

Nei due casi di trust esaminati dalla corte sassarese, le domande attrici miravano a far dichiarare in via principale la nullità dei trust, in via subordinata la simulazione, e in via ulteriormente subordinata la revocatoria dei conferimenti effettuati.

La situazione fattuale di questi due trust poteva prestare il fianco, a un esame superficiale, a una censura del comportamento posto in essere, atteso che, a parte le finalità del trust che rientravano fra quelle tipiche di una protezione familiare, il trustee risultava essere il coniuge del disponente e beneficiari i loro figli, o i discendenti di questi, a loro subentrati nell’arco del periodo di durata del trust, mentre il fondo in trust comprendeva una serie di cespiti immobiliari di proprietà del disponente.

In realtà il tribunale non si è fatto distogliere da questi elementi, osservando opportunamente come “il fatto che il trust sia maturato interamente nel contesto familiare e che il disponente non abbia perso interamente il controllo dei beni inizialmente conferiti in trust, riservandosi il diritto di abitarvi, non rappresenta, da solo, indice sicuro di illiceità o del carattere fittizio dell’operazione realizzata”; e ancora, “il fatto che il negozio sia maturato nel contesto familiare non è poi circostanza indicativa dell’apparenza della relativa operazione”.

Infatti, ai fini della simulazione è necessario provare, non solo, che “attraverso l’alienazione di un bene…il debitore abbia inteso sottrarre il bene alla garanzia generica dei creditori, ma è necessario provare specificamente che questa alienazione sia stata soltanto apparente, nel senso che l’alienante abbia inteso dismettere la titolarità del diritto, né l’altra parte abbia inteso acquisirla” (Cass. nn. 8188/1994 e 25490/2008).

Respinte le domande per quanto atteneva la declaratoria di nullità e il riconoscimento della simulazione, viene invece accolta la richiesta di revocatoria posta in via ulteriormente subordinata, con riferimento, però, all’apporto di beni al secondo trust, essendo ormai non più esperibile l’azione per i beni apportati nel trust più risalente.

Dalle riferite sentenze possono trarsi le seguenti riflessioni:

  • Viene ribadito che di nullità dell’atto istitutivo non si può parlare, potendo questa categoria, al massimo, essere invocata, per difetto di causa, relativamente ai singoli apporti effettuati quando l’atto istitutivo non sia riconoscibile (Cfr. Cass n. 10105/2014).

Che poi sovente atto istitutivo e atto di conferimento coincidano, non muta la risposta da dare, non potendo comunque, l’eventuale nullità di un apporto, riverberarsi sulla legittimità dell’atto istitutivo, che come tale è un atto neutro.

Osserva inoltre puntualmente il Tribunale di Forlì che “il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria non presuppone l’accertamento dell’invalidità dell’atto dispositivo e non comporta il riacquisto del bene al patrimonio del disponente”.

A sua volta, il Tribunale di Sassari rileva come “la previsione normativa (la Convenzione) preclude oggi ogni indagine sulla meritevolezza di tutela della causa astratta del trust, che va ravvisata nel programma di segregazioneE così un trust avente tutte le caratteristiche di cui all’art. 2 della Convenzione, deve essere riconosciuto come esistente e produttivo di effetti, ancorché autodichiarato…”, ma “ai fini del riconoscimento delle validità del trust è tuttavia necessario valutare la meritevolezza ex articolo 1322 c.c. della causa concreta, giustificando il ricorso al trust soltanto il perseguimento di interessi meritevoli di tutela giuridica” (conformi Trib. Milano del 3 maggio 2013 e Tribunale di Reggio Emilia del 14 maggio 2007).

In questo senso si è registrata una significativa evoluzione del concetto di causa, anche a seguito del révirement del Supremo Collegio in tal senso (Per tutte, Cass. n. 10490/ 2006: “La causa del contratto consiste nella funzione economica individuale del negozio posto in essere, è la ragione concreta che persegue il singolo e specifico contratto, a prescindere dalla volontà dei contraenti, e non coincide con il tipo contrattuale astratto scelto dalle parti”).

La valutazione della meritevolezza della causa concreta è ormai divenuta un esame ineliminabile in ogni sentenza che si occupi di trust e conseguentemente, nella redazione degli atti un’attenzione particolare viene posta oggi nella sottolineatura, in genere nelle premesse, degli aspetti che sono tali da rendere quell’atto meritevole di tutela secondo l’ordinamento.

  • La domanda di simulazione era stata dedotta in relazione al caso di Sassari. Al riguardo parte attrice aveva chiesto che venisse dichiarata la simulazione dell’atto di trust ex art. 1414 ss c.c. .

Nel rigettare tale domanda la Corte sassarese sottolinea come non rilevi, ai fini dell’integrazione della fattispecie, il dato relativo alla sottrazione del bene alla garanzia generica dei creditori, essendo invece necessario far rilevare l’apparenza della costruzione posta in essere, cosa che invece manifestamente non ricorreva nel caso in esame, essendo chiaro che il trasferimento era voluto quand’anche, in denegata ipotesi, lo fosse stato per sottrarre il bene alla garanzia dei creditori.

Data la struttura dell’atto, si sarebbe potuta invocare la sua nullità in quanto ”sham” secondo la legge regolatrice, assumendo che in realtà il disponente aveva mantenuto la disponibilità dei beni conferiti.

In questo senso il fatto che trustee fosse il coniuge del disponente avrebbe offerto, almeno formalmente, più di un appiglio a questa tesi (com è noto, un trust è ”sham” secondo la legge di Jersey quando, oltre all’intenzione simulatoria, tanto il disponente che il trustee abbiano avuto la comune intenzione di ingannare i terzi).

In realtà il tribunale svolge un’attenta analisi e raggiunge conclusioni pienamente condivisibili in ordine alla legittimità (e meritevolezza) della struttura posta in essere, tale da escludere alcun dubbio in proposito.

  • I tre casi esaminati vedono tutti – fatta eccezione solo per un caso di azione promossa oltre il termine quinquennale – l’accoglimento della domanda di revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., che quindi si rivela come lo strumento più incisivo al fine di smontare situazioni più o meno artificiose.

E’ probabilmente questa una delle attenzioni maggiori che deve porre in essere il disponente di un trust, e cioè la presenza di situazioni debitorie a suo carico.

Al riguardo, infatti, la norma è fin troppo chiara e non consente scappatoie. Le condizioni dell’azione sono infatti date:

a) dalla titolarità di un credito (sia pur soggetto a condizione o a termine), anche privo dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità;

b) dal pregiudizio, anche potenziale, all’aspettativa di soddisfacimento del creditore;

c) dalla consapevolezza del debitore e del terzo acquirente di recare pregiudizio alle ragioni del creditore. Pregiudizio (eventus damni) che ricorre tutte le volte che si verifichino maggiori difficoltà e incertezze nell’esazione del credito (Cass. n. 8048/2009), anche se al debitore è concesso provare che, nonostante l’atto di disposizione, non è stata pregiudicata la possibilità per il creditore di soddisfarsi senza difficoltà (Cass.n.25490/2008).

Il rigore di tale previsioni porta a ritenere che anche la presenza, nell’atto istitutivo, di clausole appositamente redatte non possa escludere, in teoria, l’esperimento dell’azione.

Per giunta, siccome l’atto di apporto dei singoli beni è da considerare atto a titolo gratuito, non si rende neppure necessaria la prova della consapevolezza del pregiudizio da parte del terzo.

Pronunce simili a quelle in precedenza esaminate si sono succedute con grande frequenza nel corso degli anni, soprattutto da parte dei Tribunali fallimentari, che hanno dichiarato la nullità di trust interni.

Sono i c.d. “trusts ripugnanti”, definizione coniata dal Tribunale di Bologna in una nota sentenza del 1° ottobre 2003 per quei trust liquidatori che perseguono fini non compatibili con l’ordinamento giuridico italiano e, come tali, non sono meritevoli di riconoscimento ai sensi dell’art.13 della Convenzione de L’Aja, perchè istituiti per sottrarre il residuo attivo patrimoniale di aziende in avanzato stato di decozione e destinate, giocoforza, al fallimento.

Dette pronunce sono state da ultimo rafforzate anche da un intervento della Suprema Corte (Cassazione civile, sez. I, 9 maggio 2014, n. 10105), che, seppur per altre vie, in tema di trust liquidatorio definito “anti-concorsuale”, vale a dire finalizzato a sostituirsi alla procedura fallimentare e ad impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente, ha stabilito che questo non è riconoscibile e non produce alcun effetto nell’ordinamento italiano in virtù di quanto disposto dall’art.15, lett. e), Convenzione, “ponendosi esso oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio e non consentendo il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo” (Sul punto si v. ”Il trust nella chiusura anticipata del fallimento ex art. 118 L.F.”, in Fisco e Tasse – Speciale del 28 agosto 2018, studio Crusi&Partners -MI-, dott.comm. rev.cont./trust advisor Vincenzo Crusi).

Sinteticamente, dunque, con tali pronunce possiamo rilevare come, da un lato, si confermi la tendenza a non riconoscere cittadinanza a quei tentativi volti a costituire dei trust su piani dogmaticamente inaccettabili, evocando a sproposito categorie inapplicabili e, dall’altro, come il ricorso abusivo allo strumento “trust” non potrà sperare di ricevere protezione da parte dell’ordinamento.

Sul punto risulta utile soffermarsi sull’art.15 della Convenzione, che impedisce di dare validità a trust che sono costituiti in violazione dei principi inderogabili dell’ordinamento in cui si opera; trust che, nel caso, non sono solo revocabili ma piuttosto nulli, perché in contrasto con la predetta previsione.

5. Lo ”Sham” nei reati tributari

 

Secondo la Cassazione (sez. III penale, sentenza del 07/11/2017 dep. l’11/05/2018, n. 20862) è reato costituire uno ”sham trust”, poiché lo sperato effetto segregativo dei beni vincolati consuma la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, punita dal noto art.11 del D.Lgs. 74/2000.

Questa sentenza non vuole colpire un trust autodichiarato in quanto tale, sia chiaro: l’imputato è stato condannato per avere, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, agli interessi ed alle sanzioni, per un ammontare complessivo di Euro 149.316,47, alienato simulatamente i propri beni in maniera idonea a rendere del tutto inefficace la procedura di riscossione coattiva dell’ex Equitalia (oggi A.d.E.R.).

Lo stesso, insieme alla moglie, aveva costituito un trust trasferendovi le unità immobiliari, ciascuno per la propria quota di proprietà. I beneficiari erano individuati nei disponenti stessi e, in via successiva, nella figlia.

L’imputato ha quindi sostenuto in Cassazione che la nullità dello ”sham trust” determina l’improduttività dell’effetto segregativo nei confronti dell’Agenzia delle entrate, pertanto -secondo la Difesa dello stesso- il reato non sussisterebbe perchè trust inidoneo a “rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva” e, quindi, ad integrare la fattispecie di reato contestata.

Tutti i gradi di giudizio, tuttavia, avevano sconfessato tale tesi.

La Corte di appello di Milano, dopo aver affermato che il trust autodichiarato può far sorgere fortissimi sospetti di essere simulato, e quindi di essere una struttura fittizia o una costruzione artificiosa “come nel caso in esame“, ha affermato che non ogni trust autodichiarato è automaticamente inesistente o nullo, come invece sostiene la Difesa dell’imputato: ciò sia perchè le leggi straniere che disciplinano il trust ammettono il trust autodichiarato, sia perchè nell’ordinamento italiano esistono una pluralità di fattispecie di vincoli auto-istituiti ed anche nella prassi vi sono applicazioni di tale schema (come i cc.dd. ”escrow accounts”, cioè i depositi di somme in garanzia che un professionista riceve per conto dei suoi clienti).

Secondo la Corte di appello di Milano, la legge straniera che conosce il trust ed adottata nell’atto costitutivo (i Giudici delle tre fasi di questo giudizio non parlano di atto istitutivo, perchè pensano al trust come ad un contratto e ragionano secondo le logiche delle società commerciali ”schermo”), la Jersey Law del 1984 (e ss.mm.) ammette il trust autodichiarato. In particolare l’art.10, co.12, della Jersey Law prevede che “Un Disponente od un trustee di un trust possono essere anche Beneficiari dello stesso trust“.

La Corte di appello di Milano ha rappresentato altresì che il trust autodichiarato non è neanche contrario a norme inderogabili, alle norme di applicazione necessaria ed a quelle relative all’ordine pubblico, perchè nessuna di queste norme riguarda, sia pure indirettamente, la possibilità di dar vita al trust autodichiarato.

Dopo aver ribadito la natura simulatoria legata alla perdita solo apparente del controllo dei beni del disponente, la Corte ha affermato che la nullità del trust non deriva dalla coincidenza tra disponente e trustee (“trustee non significa necessariamente “terzo”, e ben potrebbe coincidere con il disponente“), ma dall’analisi complessiva delle clausole dell’atto, dalla verifica in concreto dei poteri che il disponente si riserva ed attribuisce al trustee, sia che queste figure s’identifichino, sia che si tratti di soggetti diversi.

Deve quindi ritenersi che la Corte di appello di Milano, avendo qualificato in più passaggi il trust come simulato, abbia effettuato tale verifica dell’atto e abbia escluso la nullità.

La Difesa dell’imputato contesta in Cassazione la motivazione della sentenza di appello sulla soluzione di diritto relativa alla questione incidentale civile sul vizio dello ”sham trust” (atto nullo o simulato) e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art.11, chiedendo in sostanza di qualificare lo sham trust autodichiarato quale nullo, e di ritenere quindi escluso dall’ambito applicativo dell’art. 11 l’atto nullo, pur se commesso al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte.

La Cassazione invece, una volta che il trust sia stato qualificato quale atto simulato, ritiene del tutto corretta la soluzione in diritto, ai fini della sussistenza del reato ex art.11 D.Lgs. n. 74/2000, perchè la fattispecie sanziona ”chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte, per un ammontare complessivo superiore a 50.000,00 Euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.

Come affermato da Cass. Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, Di Tullio, attraverso l’incriminazione della condotta prevista dall’art.11, il Legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (sul punto, Cass. Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori).

La norma punisce due distinte condotte: l’alienazione simulata ed il compimento di atti fraudolenti.

Secondo il costante indirizzo della giurisprudenza, il delitto è un reato di pericolo concreto; di conseguenza, in ossequio al principio di offensività, si deve valutare l’idoneità “ex ante” dell’atto a mettere in pericolo la garanzia patrimoniale del debito erariale.

La diminuzione della garanzia può essere anche solo parziale, non necessariamente totale (Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio), purchè effettivamente in grado di mettere a rischio l’esazione del credito.

La tesi difensiva di fatto cerca di escludere dall’ambito applicativo dell’art. 11 gli atti nulli, in chiaro contrasto con la formulazione dell’art. 11 e con la sua natura di reato di pericolo; un contratto (la Suprema Corte non parla del trust come di un atto) fraudolento concluso in violazione dell’art.11 può essere nullo ma concretizzare comunque la condotta penalmente rilevante.

Ed invero, la norma menzionata contiene un esplicito divieto, sanzionato penalmente, di non porre in essere atti (fra cui rientrano tutti gli atti giuridici, compresi i trust) fraudolenti idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.

La norma è diretta alla tutela di un interesse pubblico generale: evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche, dovere peraltro previsto dall’art. 53 della Costituzione in ragione della capacità contributiva.

Il divieto previsto dall’art. 11, avendo rilevanza penale, non ha alcuna possibilità di esenzione dalla sua osservanza e pertanto la norma che impone il divieto deve essere considerata imperativa: di conseguenza, il contratto concluso con la finalità fraudolenta prevista dall’art. 11 ed in violazione del divieto ivi previsto è nullo per contrasto con norma imperativa, ai sensi dell’art. 1418 c.c. .

In tal caso infatti, si concretizza la violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sull’annullabilità dei contratti.

Conclude sul punto pertanto la Corte, sostenendo che: “il carattere fraudolento di determinate operazioni negoziali presuppone, quale dato pressochè costante, che l’attività fraudolenta sia nascosta attraverso lo schermo formale di attività o documenti apparentemente regolari (Cass. Sez. 3, n. 40319 del 2016) o l’adozione di un atto formalmente lecito – come l’alienazione di un bene – però caratterizzato da una componente di artificio o di inganno (Cass. Sez. 3 del 16 maggio 2012 n. 25677). Realizzando il trust – anche ove lo si ritenga nullo secondo le norme del codice civile, perchè sham trust, con la coincidenza tra disponente e trustee – il ricorrente ha creato uno schermo formale, un diaframma, tra il patrimonio personale e proprietà costituita in trust, nel quale è confluito il suo patrimonio immobiliare; e ciò ha fatto, in maniera del tutto incontestata, per la finalità elusiva delle ragioni creditorie erariali (sulla rilevanza penale di una tale condotta cfr. Cass. Sez. 5, del 24 gennaio 2011 n. 13276, che ha ritenuto sussistente il fumus del delitto ex art. 11 D.Lgs. n. 74/2000 nel caso di sham trust). Tale schermo formale però può cadere solo quando si riveli la situazione di mera apparenza; quando cioè emerga che, pur nella presenza formale del trust, l’indagato continui ad amministrare i beni, conservandone la piena disponibilità. L’atto fraudolento allora, pur se ha natura di sham trust, rende più difficoltosa l’azione di recupero del bene, perchè già con il trust è stato sottratto in un primo momento alle ragioni dell’Erario; in secondo momento perchè comunque, essendo l’atto giuridico formalmente esistente, si dovrà dimostrare la sua nullità, procedendo giudizialmente per ottenere la sua eliminazione dal mondo giuridico e, solo dopo, procedere all’esecuzione sul bene“.

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