Sfruttamento del lavoro e riduzione in schiavitù: problemi interpretativi ed evoluzioni giurisprudenziali

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Corte di Assise di Lecce, sentenza 13 luglio 2017, dep. 25 ottobre 2017

Normativa di riferimento: artt. 416, 600, 603 bis c.p. e 12 c. 5 del d.lgs. 286/1998

I fatti

Era l’estate del 2011 quando i braccianti africani della baraccopoli di Masseria Boncuri trovarono la forza di protestare contro quella che, alla fine, si rivelò un’articolata organizzazione criminale transnazionale finalizzata al reclutamento di cittadini extracomunitari – introdotti clandestinamente in Italia o comunque presenti irregolarmente sul territorio – da destinare allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie a Nardò, il secondo centro più grande della provincia di Lecce

La Corte d’Assise di Lecce, nel 2017, ritenne sussistente la responsabilità penale di 13 imputati (in relazione ai reati di associazione per delinquere, riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, violenza privata, nonché per la violazione dell’art. 12 comma 5 del D.L.gs. n. 286/1998), decapitando l’intero apparato dell’organizzazione criminale che, secondo gli inquirenti, operava da anni in molte zone del Sud Italia, tra cui Rosarno, già famosa per le rivolte del 2010.

La sentenza, che ha riconosciuto per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù in un procedimento concernente il mondo del lavoro, rappresentava una svolta storica nel mondo della giurisprudenza italiana ma soprattutto nella lotta contro la criminalità organizzata.

A circa due anni dalla decisione però, la Corte d’assise d’appello di Lecce ribalta il provvedimento: assolti 11 dei 13 imputati condannati in primo grado per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti.

In attesa del deposito della motivazione, ripercorriamo le ragioni che hanno guidato i giudici di primo grado e, in particolare, la preziosa disamina svolta relativamente alla distinzione tra gli artt. 600 e 603 bis del codice penale.

Contenuto del provvedimento

La Corte d’assise di Lecce, dopo aver preliminarmente esaminato le varie questioni processuali sollevate dalle parti, procedeva con un’attenta analisi dei reati contestati nei capi di imputazione.

Relativamente all’art. 416 c.p. (“Associazione per delinquere”), poneva l’attenzione sul sesto comma (secondo cui: “se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti previsti dagli artt. 600, 601 e 602, nonché dall’art. 12 comma 3 bis del T.U. sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero … si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma …”), precisando che la previsione di tale fattispecie è giustificata dall’esigenza di affidare alla figura del reato in questione il compito fronteggiare qualsiasi tipologia di criminalità sociale. Il sesto comma quindi, introdotto dalla legge n. 228/2003 – la stessa che, per l’appunto, ha modificato l’art. 600 c.p. – prevede una pena più elevata, chiaramente finalizzata a contrastare il business della criminalità organizzata internazionale, business sempre più caratterizzato dal traffico di esseri umani e dalle c.d. nuove schiavitù.

Proseguiva poi esaminando più fattispecie criminose di reati-fine: il delitto di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.), ossia il c.d. caporalato, il delitto di estorsione (art. 629 c.p.) e, infine, la violazione dell’art. 12 comma 5 del d.lgs. n. 286/1998, ossia il favoreggiamento, a fini di sfruttamento, della permanenza nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari.

Ebbene, sotto questo profilo la Corte ha ritenuto fondamentale porre l’attenzione sul rapporto intercorrente tra le varie figure di “caporalato” e il delitto di riduzione in schiavitù. Dopo aver descritto il fenomeno del caporalato da un punto di vista sociologico, infatti, i Giudici spiegavano che il modello di caporalato analizzato nel caso di specie è quello “più rozzo e brutale, dell’intermediazione a fini di sfruttamento dei lavoratori extracomunitari in agricoltura”. Procedevano quindi con un’analisi della normativa che nel corso degli anni ha tentato di contrastare tale fenomeno, seppur con scarsi risultati: probabilmente per la mancata previsione di responsabilità in capo al datore di lavoro (principale beneficiario del caporalato) e per l’insufficiente descrizione del concetto di sfruttamento.

È proprio per tali ragioni che è intervenuta una rivisitazione della norma (ritenuta possibile, secondo molti, proprio per l’importanza assunta dal procedimento trattato), attraverso la legge n. 199/2016, entrata in vigore il 04.11.2016. Per effetto di tale innovazione legislativa, oggi lo sfruttamento risulta svincolato dal requisito della “violenza/minaccia/intimidazione” (trasformate in circostanze aggravanti e comportanti un aumento di pena), ed è addebitabile, oltre che al caporale, anche al datore di lavoro (aspetto più importante).

Dopo aver circoscritto la fattispecie del caporalato, la Corte ritornava sulla questione cruciale del procedimento, ossia la linea di demarcazione fra la fattispecie esaminata e quella della riduzione in schiavitù (posto che l’art. 603 bis c.p. recita espressamente “salvo che il fatto non costituisca più grave reato). Le due figure infatti prevedono sostanzialmente gravi condotte costrittive legate al lavoro.

Circa l’ambito di operatività del reato di cui all’art. 600 c.p., le Sezioni Unite della Cassazione (con sentenza 20.11.1996, n. 261), optando per una concezione più estensiva, avevano in precedenza statuito che per “condizione analoga alla schiavitù” doveva intendersi: “qualsiasi situazione di fatto in cui la condotta dell’agente avesse per effetto la riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo … soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione, analogo a quello che viene riconosciuto al padrone sullo schiavo negli ordinamenti in cui la schiavitù era ammessa”. Le Sezioni Unite precisarono, peraltro, che le condizioni analoghe alla schiavitù contenute nella Convenzione di Ginevra dovevano considerarsi meramente esemplificative. Tuttavia, in vista del Protocollo contro il traffico di migranti del 1997, la decisione quadro 2002/629/GAI e i Protocolli aggiuntivi alla Convenzione di Ginevra, si rese necessaria una ridefinizione della figura di reato: tale esigenze venne soddisfatta con la legge n. 228/2003 che, ponendosi in regime di continuità normativa con il precedente dettato normativo, modificava l’art. 600 c.p. e che, sostanzialmente, coincide con quello oggi in vigore (la disposizione venne infatti rimodificata con il d.lgs. n. 24/2014, che introdusse la fattispecie relativa al prelievo di organi e di altre attività illecite).

Ebbene, il delitto oggi individua una fattispecie multipla a forma libera, che comporta l’esercizio su di una persona di poteri di signoria corrispondenti al diritto di proprietà e la riduzione o il mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, finalizzata al suo sfruttamento, con differenti modalità.

A tal proposito, assume fondamentale importanza il concetto di “soggezione continuativa”. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. 25408/2013), questo andrebbe rapportato al vulnus arrecato all’altrui libertà di determinazione, nel senso che “esso non può essere escluso qualora si verifichi una qualche limitata forma di autonomia della vittima”.  Proprio per tale interpretazione, la questione si rivela particolarmente importante in relazione alla condizione degli immigrati. Infatti, secondo la stessa giurisprudenza della Corte (Cass. n. 46128/2008): “integra il delitto di riduzione in schiavitù, mediante approfittamento dello stato di necessità altrui, la condotta di chi approfitta della mancanza di alternative esistenziali di un immigrato da un Paese povero, imponendogli condizioni di vita abnormi e sfruttandone le prestazioni lavorative, al fine (ad esempio) di conseguire il saldo del debito da questi contratto con chi ne ha agevolato l’immigrazione clandestina.” In altri termini quindi, e in accordo con quanto disposto nella decisione-quadro UE 2002/629/GAI sulla lotta alla tratta degli esseri umani (di cui la legge n. 228/2003), quello che si rende necessario per la sussistenza della riduzione in schiavitù è “una situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale”, e quindi una vulnerabilità capace di compromettere “radicalmente la libertà di scelta della vittima, che non ha altra scelta se non quella di sottostare all’abuso” (Cass. n. 31647/2016).

Tali pronunce, si inseriscono perfettamente nel quadro normativo che fa da scenario alla fattispecie esaminata: la legge 30 luglio 2002 n. 189, meglio nota come “legge Bossi – Fini”, vincola il permesso di soggiorno del cittadino extracomunitario alle prestazioni lavorative; tale legge è stata seguita, nel 2009, dall’introduzione del reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato” (previsto dall’art. 10 bis del d.lgs. n. 286/1998). Dal combinato disposto delle due norme risulta una situazione di costante precarietà per il cittadino extracomunitario, che spesso, per salvaguardare la propria permanenza nel territorio dello stato, si trova costretto ad accettare lavori alle condizioni dettate, il più delle volte, dalle organizzazioni criminali, costantemente alla ricerca di manodopera controllabile e disposta a sottomettersi.

Altro punto controverso, al vaglio della Corte d’assise di Lecce, è stato quello relativo alla continuatività della soggezione, che potrebbe rischiare di escludere dalla previsione della norma tutte quelle fattispecie che si svolgono nel contesto di attività stagionali. Tuttavia i Giudici hanno osservato che tale requisito possa ritenersi sussistente non solo in virtù di una “durata prolungata di tempo” ovvero di una “certa permanenza”, ma anche quando sussistono determinate condizioni come quelle elencate, a titolo esemplificativo, in Cass. n. 40045/2010, tra cui la privazione dei passaporti o dei documenti, il collocamento in luoghi isolati privi di relazioni esterne, la privazione di spostarsi liberamente sul territorio, l’incapacità di sottrarsi alla sfruttamento ecc. (circostanze che, nel caso di specie, sussistevano).

Conclusioni

Alla luce di tutte le considerazioni sopraesposte, la Corte d’assise di Lecce ha spiegato come la differenza fra il reato di cui all’art. 603 bis c.p. e quello di cui all’art. 600 c.p. risieda, fondamentalmente, nella maggiore gravità di quest’ultimo, consistente in una più estesa privazione della libertà di autodeterminazione, oltre che nella circostanza che la riduzione in schiavitù si innesca nello sfruttamento del lavoro senza tuttavia esaurirsi in questo ambito. Concludeva, quindi, spiegando che “le due fattispecie si atteggiano, in un certo senso, come due cerchi concentrici: più grande quello dell’art. 603 bis c.p., più piccolo quello di cui all’art. 600 c.p.” con la logica conseguenza che “tutto ciò che è caporalato non è necessariamente schiavitù, ma ciò che è schiavitù è, ancor prima, caporalato”.

In definitiva, la Corte, all’esito dell’istruzione dibattimentale e richiamate tutte le ragioni a fondamento della decisione, ha ritenuto sussistente – a carico di 13 imputati – tanto il delitto di associazione per delinquere quanto quello di riduzione in schiavitù, in esso assorbite le restanti fattispecie delittuose (estorsione e favoreggiamento della permanenza di clandestini) della rubrica, in quanto segmenti dell’unitaria figura delittuosa riconducibile al paradigma normativo di cui all’art. 600 c.p. (e ritenuto tale reato in continuazione con il reato associativo – meno grave sotto il profilo sanzionatorio – essendo evidente come entrambe le condotte fossero sorrette dal medesimo disegno criminoso).

Roberto Sciacchitano

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