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Inquadramento normativo
La condizione è un elemento accidentale che influisce sull’efficacia di un negozio, questa può essere sospensiva o risolutiva[1] e può essere apposta, con riguardo alla materia testamentaria, sia a disposizioni a titolo universale sia a disposizioni a titolo particolare, come previsto all’art. 633 del Codice Civile.
Le condizioni nei negozi mortis causa hanno un regime normativo differente rispetto alle condizioni apposte ai negozi inter vivos; tale diverso regime fonda le sue origini nella giurisprudenza romana classica e, precisamente, nella cosiddetta “regula Sabiniana”[2], il cui principio è stato poi ripreso dal legislatore del ’42 al fine di tutelare il più possibile, in un’ottica di “favor testamenti”, la volontà espressa dal testatore, per sua stessa natura non più riproducibile al momento dell’aperta successione, rispetto alla volontà contrattuale, che, all’occorrenza, può prestarsi alla ripetizione. Piena applicazione di tale “regola” può ritrovarsi nella differenza contenutistica degli articoli 1354 e 634 C.C.: il primo, chiamato a disciplinare l’illiceità o impossibilità della condizione in ambito inter vivos, è improntato al principio vitiatur et vitiat in base al quale una condizione illecita o impossibile determinerebbe la nullità dell’intero contratto[3]; il secondo, chiamato a disciplinare le medesime problematiche patologiche della condizione, ove apposta a un testamento, è improntato al diverso principio vitiatur sed non vitiat in forza del quale la disposizione testamentaria condizionata continuerà a mantenere efficacia ma si considererà non apposta la condizione viziata[4].
Se il legislatore, nel recepire normativamente l’antico principio sabiniano, ha inteso tutelare la libertà di autodeterminazione del testatore nel predisporre la sua volontà per il tempo in cui avrà cessato di vivere, non di meno ha voluto tutelare quella dei beneficiari di disposizioni mortis causa condizionate, ponendo, a loro salvaguardia, dei limiti alla volontà del testatore. In questo panorama devono essere ricomprese le condizioni impossibili e quelle illecite in quanto contrarie a norme imperative, ordine pubblico e buon costume[5].
Un primo espresso limite alla volontà del testatore è previsto all’art. 635 C.C. con riguardo alla condizione di reciprocità: la previsione di tale norma si inserisce, secondo la dottrina prevalente[6], a pieno titolo nell’intento del legislatore di contrastare le condizioni testamentarie coartanti, con le finalità meglio precisate al terzo capoverso del presente paragrafo, in quanto mira ad impedire che, attraverso l’apposizione di tale condizione a una disposizione testamentaria, il beneficiario della stessa possa vedere sacrificata la propria libertà, normativamente tutelata da principi di ordine costituzionale[7] nonché da norme codicistiche[8], di predisporre un atto personalissimo quale è il testamento. Si deve però precisare che la condizione di reciprocità è sanzionata dal legislatore in modo più severo rispetto a quelle illecite o impossibili di cui all’art. 634 C.C.: infatti, l’inserimento di una tale condizione in una disposizione testamentaria, contrariamente al principio enunciato dalla regola sabiniana, determina la nullità dell’intera disposizione testamentaria.
Un secondo limite codicistico alla volontà del testatore è rappresentato dall’art. 636 comma 1 C.C., avente ad oggetto l’illiceità della condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori. Detto limite può essere considerato come un’attuazione concreta della definizione astratta di condizione illecita contenuta nell’art. 634 C.C e per questo ne segue la disciplina, anche in ambito sanzionatorio. Tale norma, che riveste un’ampiezza minore di quella già ricoperta nel Codice del 1865[9], è assurta nel tempo a chiave interpretativa, come infra meglio precisato, per determinare la liceità o meno di condizioni recanti profili di coercizione apposte a disposizioni testamentarie.
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I primi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali
Dopo aver introdotto la normativa codicistica riguardante le condizioni in materia testamentaria, è importante analizzare come i più risalenti orientamenti giurisprudenziali e gli allora prevalenti orientamenti dottrinali[10] abbiano tentato di interpretare in maniera testuale il divieto di cui al primo comma dell’art. 636 C.C., così restringendone l’ambito applicativo alle sole condizioni formulate, in modo tale da impedire, in maniera assoluta o quasi, come infra meglio precisato, le prime nozze, coartando il beneficiario al mantenimento di uno stato civile celibe/nubile, o le ulteriori nozze, scoraggiando così il beneficiario vedovo o divorziato[11] dal contrarre nuovo matrimonio.
Con riguardo a questo orientamento è necessario preliminarmente analizzare alcune risalenti sentenze della Corte di Cassazione[12], le quali, intervenendo in ambito di condizione testamentaria di matrimonio, interpretano in maniera più ampia il requisito dell’assolutezza del divieto matrimoniale comportante l’illiceità della condizione. Dette pronunce, infatti, ritengono che sia illecita la condizione, non formulata come divieto assoluto di matrimonio, con la quale:
“…il testatore impone all’onorato il matrimonio con una determinata persona, escludendone ogni altra”
Dopo aver osservato la moderata elasticità con cui questa prima teoria interpreta l’assolutezza del divieto di matrimonio al fine di decretare l’illiceità della condizione, appare opportuno verificare fino a quale estensione può porsi tale divieto in forma di condizione senza incorrere nell’illiceità. A tal proposito si ritiene utile citare una importante sentenza della Suprema Corte[13], in forza della quale si sono ritenute lecite delle condizioni testamentarie comportanti il divieto di nozze, configurato in senso non assoluto, nei limiti interpretativi di cui sopra, bensì relativo, e, più precisamente, inteso a limitare la scelta del coniuge da parte dell’onorato a una cerchia di persone con determinate caratteristiche o appartenenti a un determinato ceto sociale sulla base del seguente principio:
“La clausola testamentaria, con cui si attribuisce la proprietà di determinati beni a condizione che l’istituito contragga matrimonio con una persona avente certi requisiti, non è illecita né inefficace, non importando una limitazione psichica intollerabile, come tale contraria all’ordine pubblico”
Una volta determinati i principi di diritto adottati da questo orientamento per determinare la liceità o meno delle condizioni testamentarie riguardanti il divieto di matrimonio, è necessario osservare l’interpretazione offerta dai sostenitori di questa teoria[14], e in parte mutuata proprio dalle sopra citate pronunce, per definire i profili di illiceità in condizioni testamentarie atte a coartare aspetti diversi da quelli matrimoniali, ma pur sempre attinenti alla vita dell’onorato. A tal fine, una nota sentenza dei Giudici di Piazza Cavour[15], precisa come:
“Nell’indagine intesa ad accertare se la condizione apposta dal testatore alla istituzione d’erede si risolva in una indebita coartazione oppure in un assecondamento della volontà dell’istituito, si deve avere esclusivo riguardo ai propositi ed alle attitudini che quest’ultimo abbia manifestato al testatore…”
Da tale pronuncia può evincersi come l’illiceità di una condizione testamentaria potenzialmente coartante, secondo tale orientamento, non debba essere valutata in base alla natura del diritto coartato ma debba invece passare dal vaglio delle finalità della stessa, dovendosi concludere per l’illiceità qualora essa sia posta in contrasto con la natura e le aspirazioni dell’onorato e per la piena efficacia qualora sia orientata ad assecondare le intenzioni di quest’ultimo soggetto.
Le posizioni giurisprudenziali sopra esposte con gli orientamenti dottrinali loro relativi hanno egemonizzato la disciplina delle condizioni testamentarie coartanti per un lungo periodo di tempo, non essendosi mai rilevato un forte mutamento di indirizzo fino alla pronuncia trattata nel prossimo paragrafo.
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Revirement della Corte di Cassazione e conseguenze
Come si è avuto modo di accennare, al termine del precedente paragrafo, l’orientamento che ha dominato per decenni il panorama giuridico, con riguardo alle condizioni testamentarie coartanti, nel 2009 è stato profondamente scosso da una sentenza della Suprema Corte[16], la quale, adducendo a sostegno della nuova teoria[17] forti indici normativi, ha mutato la posizione giuridica, ormai ritenuta granitica, con riguardo principalmente al limite imposto alle condizioni testamentarie dall’art. 636 comma 1 C.C. ma anche, e con un’ampiezza applicativa sorprendente, alle condizioni coartanti in ambito successorio in generale.
Nella sentenza in esame la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla liceità di una condizione non propria[18] testamentaria che avrebbe dovuto spingere l’onorato a contrarre nuove nozze, partendo da questo fatto i Giudici di Piazza Cavour hanno sostenuto che:
“…la questione della liceità delle condizioni limitative delle libertà dell’istituito va rivisitata alla luce del riconoscimento, ad opera delle sopravvenute disposizioni costituzionali, dei fondamentali diritti di libertà.”
Una volta applicato tale filtro costituzionale al caso in esame, gli Ermellini non hanno potuto far altro che:
“…affermare la illiceità della condizione di contrarre matrimonio, pur nella attenta considerazione dei citati, risalenti precedenti di questa Corte, alla stregua non già di una lettura estensiva della disposizione dell’art. 636 c.c., comma 1, quanto, piuttosto, della disposizione dell’art. 634 c.c., risultando la condizione di cui si tratta in contrasto con norme imperative e con l’ordine pubblico, in quanto limitativa della libertà dell’individuo in merito alle fondamentali scelte di vita, in cui si esplica la sua personalità ai sensi dell’art. 2 Cost..”
Con tale statuizione la Suprema Corte, richiamando i principi di libertà contenuti nella Costituzione, ne ha altresì ribadito la preminenza rispetto alla libertà del testatore e al favor testamenti sostenendo, quale principio di diritto applicabile in generale a tutte le condizioni testamentarie coartanti, che:
“…la pur indiretta coartazione della volontà reca, di per sé, vulnus alla dignità dell’individuo, nella misura in cui l’alternativa di fronte alla quale lo colloca la apposizione, da parte del testatore, della condizione testamentaria possa indurlo, con la prospettiva di un vantaggio economico, ad una opzione che limita la libera esplicazione della sua personalità.”
Mentre, con riguardo alla condizione testamentaria di matrimonio, oggetto della decisione, ha ritenuto applicabile il seguente principio:
“La condizione, apposta ad una disposizione testamentaria, che subordini la efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio, è ricompresa nella previsione dell’art. 634 c.c., in quanto contraria alla esplicazione della libertà matrimoniale, fornita di copertura costituzionale attraverso gli artt. 2 e 29 Cost. Pertanto, essa si considera non apposta, salvo che risulti che abbia rappresentato il solo motivo ad indurre il testatore a disporre, ipotesi nella quale rende nulla la disposizione testamentaria.”
Come si è potuto osservare, le statuizioni di principio sopra riportate hanno innovato in modo dirompente la ratio con la quale devono essere valutati i profili di illiceità delle condizioni testamentarie coartanti, sia ex art. 634 C.C sia ex art. 636 comma 1 C.C., conseguentemente riducendo notevolmente la libertà del testatore nella materia.
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Un’eccezione giurisprudenziale controversa: la condizione “si sine liberis decesserit”
Il dirompente intervento della Cassazione, esaminato in precedenza, sembrerebbe aver posto un limite invalicabile, anche per l’importanza dei principi difesi, all’inserimento in un testamento di una disposizione sottoposta a una condizione coartante una libertà costituzionalmente garantita, tuttavia, una successiva sentenza della Suprema Corte[19], chiamata a pronunciarsi su una diversa problematica[20], sembra aver riaperto la strada della legittimità a una condizione testamentaria coartante non codificata, le cui caratteristiche verranno infra approfondite, anch’essa retaggio dell’antica giurisprudenza romana.
Si tratta della condizione “si sine liberis decesserit”: detta condizione, apposta ad una disposizione testamentaria, opererà in funzione risolutiva qualora l’onorato muoia senza lasciare figli, ciò in base alla presunzione che, così disponendo, il testatore abbia preferito l’onorato e la sua discendenza rispetto ad altri soggetti ma che, venuto meno l’istituito e in assenza di discendenti dello stesso, il testatore preferisca indicare un diverso beneficiario. Tale condizione opererà altresì come sospensiva in favore del diverso soggetto istituito; la disposizione in suo favore, infatti, avrà efficacia dal momento della morte senza figli dell’originario onorato. La suddetta condizione ha sempre generato controversie giurisprudenziali[21], risolte costantemente in senso favorevole, con riguardo alla sua liceità. Si precisa però come il profilo problematico non sia mai stato rappresentato dalla forza coercitiva della libertà personale determinato dalla condizione, bensì dal suo uso improprio per aggirare il divieto di sostituzione fedecommissaria rubricato all’art. 692 comma 5 C.C.[22] .
Solo alcuni orientamenti dottrinali[23] elaborati tra il 2009 e il 2013, periodo entro il quale sono collocate le due sentenze attualmente in esame, hanno osservato la natura coartante della condizione “si sine liberis decesserit” sostenendone l’illiceità, in quanto destinata a interferire nella sfera personale del beneficiario, in particolare con la sua libertà sessuale e di procreazione.
Anche nella sentenza della Cassazione presa in esame in questo paragrafo non si fa alcun riferimento alla natura coartante di tale condizione, tuttavia, il fatto che tale pronuncia intervenga successivamente a quella del 2009 e non ne tenga minimamente in considerazione la portata innovativa, ha permesso agli interpreti del diritto di ritenere che, implicitamente, quest’ultima pronuncia riconosca eccezionalmente la liceità della condizione testamentaria “si sine liberis decesserit” anche sotto questo diverso profilo.
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Conclusioni e profili operativi
Dopo aver esaminato la materia delle condizioni coartanti in ambito testamentario e l’evoluzione storica della loro disciplina, sembra utile osservare come l’orientamento impostosi da ultimo quale dominante tenda a inibire l’operatore del diritto, il quale sarà naturalmente portato a sconsigliare l’inserimento, in un atto di ultima volontà, di disposizioni condizionate in modo da determinare qualsivoglia coartazione di diritti tutelati a carico del beneficiario.
Si è visto anche come, e in quali situazioni, la condizione “si sine liberis decesserit” sia attualmente reputata lecita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sulla scorta, con riguardo alla sua natura coartante di libertà costituzionali, di un pronunciamento favorevolmente omissivo della Cassazione. La posizione assunta, o meglio non assunta, dalla Suprema Corte con riguardo a quest’ultima condizione testamentaria non fa che ingenerare ulteriore timore negli operatori del diritto. Infatti, seppur ad oggi questa condizione debba ritenersi lecita e quindi non possa esserne rifiutato l’inserimento nel testamento, se richiesto dal cliente, in una controversia futura, potrebbe essere ritenuta illecita, a seguito di un mutamento in tale tenue appiglio giurisprudenziale, e frustrare così l’ultima volontà di un ipotetico testatore ormai deceduto.
Sulla base di quanto esposto, non può pertanto non ritenersi auspicabile una presa di posizione più solida da parte della Suprema Corte a Sezioni Unite per ribadire o rideterminare i limiti all’autonomia del testatore, con riguardo alle disposizioni testamentarie coartanti, rispetto alla libertà di autodeterminazione dell’onorato.
Note
[1] Si precisa che l’art. 848 del Codice Civile del 1865, con riguardo alle condizioni apposte alle disposizioni testamentarie, si esprimeva in maniera meno chiara, non indicando espressamente a quali tipologie di condizioni si riferisse;
[2] Tale regola deve il suo nome alla scuola Sabiniana e consiste nel valutare diversamente le conseguenze giuridiche delle condizioni illecite o impossibili a seconda che esse siano poste in un atto inter vivos oppure mortis causa: nel primo caso ritenendo che le stesse comportino l’invalidità dell’atto; nel secondo sostenendo che la condizione illecita o impossibile debba essere considerata come non apposta, salvando così la disposizione testamentaria nella sua forma pura. A tale regola si opponeva quella sostenuta dalla scuola Proculiana, poi risultata soccombente, orientata a non differenziare le conseguenze giuridiche delle condizioni impossibili o illecite sulla base dell’atto cui sono apposte e decretando così, in ogni caso, l’invalidità della disposizione o del patto;
[3] Si precisa che costituisce eccezione a questo principio la condizione impossibile risolutiva che, ai sensi del comma 2 art. 1354 C.C., deve ritenersi come non apposta e quindi “vitiatur sed non vitiat”;
[4] Oltre a quello disciplinato all’art. 635 C.C. l’unico altro caso in cui la disposizione sottoposta a condizione viziata deve considerarsi nulla è rappresentato dall’art. 634 C.C. il quale, facendo salvo il disposto dell’art. 626 C.C., prescrive che, qualora la condizione viziata si stata apposta per un motivo illecito, l’intera disposizione debba considerarsi nulla. Si precisa che, secondo la migliore interpretazione dottrinale della norma, anche qualora la condizione illecita sia stata apposta quale motivo determinante della disposizione, dovrà applicarsi il dispositivo dell’art. 626 C.C. e ricorrerà il principio vitiatur et vitiat;
[5] Si ricorda come il concetto di buon costume sia per sua stessa natura variabile al mutare del contesto storico, sociale, economico, giuridico e culturale;
[6] Così Bianca, “Le successioni”, quinta edizione, Milano 2015, 353; contra, Cicu, “Testamento”, seconda edizione, Milano 1951, 203 secondo il quale l’illiceità di tale condizione deve essere ricercata nella contrarietà della stessa al divieto di patto successorio ex art. 458 C.C.;
[7] Costituzione art. 42 comma 4;
[8] Art. 587 C.C.;
[9] L’art. 850 comma 3 del Codice Civile del 1865 riconosceva la liceità della condizione recante il divieto di nuove nozze ma solo qualora fosse destinata a gravare sul coniuge del soggetto testatore;
[10] Azzariti-Martinez; “Successione per causa di morte e donazione”, Padova 1942, 508; Gangi, “La successione testamentaria nel vigente diritto italiano”, Milano 1951, II, 195; contra, Caramazza,” Delle successioni testamentarie, in Commentario al codice civile”, diretto da De Martino, Novara 1982; Di Mauro, “Condizioni illecite e testamento”, Napoli 1995, 102;
[11] Si precisa come il legislatore del 1942 non avesse pensato a questa possibilità, introdotta solo a distanza di decenni con la L. 1 dicembre 1970 n.898 disciplinante i casi di scioglimento del matrimonio, ma che, alla luce della stessa, l’illiceità, ex art. 636 C.C. primo comma, della condizione testamentaria diretta a impedire le nuove nozze debba riguardare anche il divieto di contrarre nuove nozze in seguito a divorzio;
[12] Cass., 27 febbraio 1942 n. 568; Cass., 30 maggio 1953 n. 1633;
[13] Cass., 11 gennaio 1986, n. 102;
[14] Giannattasio, “Delle successioni, in Commentario del Codice Civile”, seconda edizione, Torino 1978, 205;
[15] Cass., 18 marzo 1993, n. 3196;
[16] Cass. 15 aprile 2009, n. 8941;
[17] Si precisa come una simile teoria fosse stata già prospettata in epoca precedente da alcuni autori, così: Di Mauro, op. cit., 102 ss.; Bigliazzi Geri, “Successioni, in Trattato di diritto privato”, diretto da Pietro Rescigno, seconda edizione, Torino 2000, 153 ss.;
[18] La condizione apposta al testamento in questione appartiene a quelle definite “in praeteritum vel in praesens collatae” in quanto, nel momento in cui il testamento acquisterà i suoi effetti con l’aperta successione, l’evento dedotto in condizione si dovrà essere già realizzato o non potrà più realizzarsi in quanto il suo avveramento è previsto nel passato;
[19] Cass., 14 ottobre 2013, n. 23278;
[20] Con la sentenza sopra riportata si lamentava l’invalidità della condizione in quanto la si riteneva diretta a conseguire il medesimo risultato di una sostituzione fedecommissaria;
[21] Cass., 17 maggio 1984, n. 3049; Cass., 19 gennaio 1985, n. 150; Cass., 27 novembre 1990, n. 11428; Cass., 14 ottobre 2013, n. 23278;
[22] Si sottolinea infatti come una tale condizione, apposta a una disposizione in favore di una persona notoriamente impossibilitata a procreare, concretizzi, anche se non a mezzo di una duplice istituzione successiva tipica della sostituzione fedecommissaria, i medesimi effetti della predetta sostituzione e vada sanzionata come quest’ultima con la nullità;
[23] Cassano-Zagami, “Manuale della successione testamentaria”, Santarcangelo di Romagna 2010, 606;
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