(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 322-ter)
Il fatto
Il Tribunale di Taranto, in funzione di giudice dell’appello ex art. 322 bis cod. proc. pen., decidendo in sede di rinvio a seguito dell’annullamento disposto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2190/2019, in parziale accoglimento degli appelli proposti da C. M., P. G., P. L. e R. C., indagati (ora imputati) per il reato di concorso in peculato aggravato per essersi appropriati di voci stipendiali non dovute inserite nelle rispettive retribuzioni loro spettanti quali dirigenti e direttori dell’ azienda C.T.P. S.p.A. di Taranto, affidataria del servizio di trasporto pubblico dal 2005 al 30/06/2015, ed in parziale modifica del’ordinanza del 22 maggio 2018 con la quale il G.U.P. del Tribunale di Taranto aveva rigettato la richiesta di revoca del sequestro preventivo, disposto in data 18/07/2016, finalizzato alla confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’importo di Euro 947.751,04 del denaro e degli altri beni mobili ed immobili nella disponibilità dei suindicati soggetti, rideterminava il quantum sequestrabile nell’importo di euro 863.129,85.
In particolare, il Tribunale, nell’operare tale rideterminazione, richiamati i principi fissati da Cass. n. 3827/2019, precisava come non potesse trovare accoglimento la tesi difensiva che invocava una ulteriore riduzione del profitto del reato in ragione del fatto che le voci stipendiali percepite illecitamente dovevano ritenersi “al lordo” di imposte, tasse, oneri e ritenute in genere da corrispondersi all’ Erario, ritenendo irrilevante, ai fini del sequestro, che una parte delle somme percepite dovesse essere versata all’ Erario, potendo maturare al più un diritto alla ripetizione delle somme indebitamente corrisposte.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per cassazione, per il tramite dei loro difensori, gli indagati/imputati.
M. formulava tre motivi così enunciati: 1) violazione dell’art. 627 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione lamentandosi come il tribunale avesse eluso il dictum dalla Cassazione in sede di annullamento in quanto il thema decidendum riguardava esclusivamente i poteri del giudice cautelare in relazione alla posizione processuale degli imputati in ragione della insussistente preclusione processuale desunta dall’ emissione del decreto che dispone il giudizio; 2) violazione degli artt. 321 e 322 bis cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione rilevandosi come il tribunale non avesse tenuto conto della circostanza che, secondo la normativa vigente, le somme dovute all’Erario era state trattenute dal datore di lavoro, come evincibile dall’ esame delle buste paga in atti, sicchè le somme in concreto percepite dal ricorrente erano quelle indicate in busta paga al netto dei contributi previdenziali e fiscali, contributi mai percepiti dal C.; 3) violazione degli artt. 321 e 322 bis cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione in relazione all’omesso computo delle somme trattenute sino alla data della decisione (gennaio 2019) e risultanti dalle ulteriori buste paga prodotte in sede di udienza da cui risultavano le trattenute per effetto del provvedimento cautelare.
L. proponeva quattro motivi nei seguenti termini: 1) violazione ed errata applicazione dell’art. 322 ter cod. proc. pen. in relazione all’individuazione del provento-profitto del disposto sequestro funzionale alla confisca per equivalente in relazione all’ art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen.; si osservava al riguardo che, dovendosi rispettare il criterio di proporzionalità che impone di circoscrivere il vincolo cautelare al profitto effettivamente conseguito da intendersi quale vantaggio che si ricava per effetto della commissione del reato, il sequestro doveva riguardare le somme effettivamente percepite e non anche somme relative ad imposte e contributi mai introitate per effetto delle condotte di peculato rilevandosi al contempo come il motivo traesse ulteriore fondamento dalla considerazione che la Corte di Cassazione, nell’adottare la pronunzia di annullamento, aveva demandato al Tribunale un nuovo esame “dell’importo del profitto confiscabile” e, poichè le doglianze difensive si incentravano proprio sull’erroneo computo delle somme relative al pagamento delle imposte e dei contributi agli enti di competenza qualora il giudice di legittimità avesse ritenuto ricompresi nel profitto di peculato anche gli importi corrispondenti a ritenute fiscali, previdenziali ed assistenziali, non avrebbe accolto il motivo, quanto meno per carenza di interesse; 2) violazione dell’art. 627 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione stante il fatto che, nel premettere che la Suprema Corte, in sede di annullamento, sul punto della erroneità del calcolo del profitto in relazione al cd. profitto lordo, aveva rilevato che “…proprio con riferimento al caso concreto come prospettato dallo stesso giudice della cautela, la riduzione del profitto non sembra essere correlata ad una modifica del fatto contestato, neppure nella sua ampiezza storico-temporale, ma solo formulata con riguardo all’errata imputazione nel calcolo del profitto anche di quegli importi neppure introitati per effetto delle condotte di peculato, perchè relativi al pagamento delle imposte e dei contributi agli enti di competenza”, si osservava come il Tribunale avesse finito per ignorare quanto statuito dalla Suprema Corte palesemente contraddicendosi con quanto motivato nel precedente provvedimento oggetto di annullamento; 3) violazione ed errata applicazione dell’art. 322 ter cod. proc. pen. in relazione all’individuazione del provento-profitto del disposto sequestro funzionale alla confisca per equivalente con riferimento alle voci stipendiali del “trattamento minimo complessivo di garanzia” nonché violazione ed errata applicazione dell’art. 322 bis cod. proc. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen. dato che il Tribunale aveva rideterminato il profitto del reato nella misura di euro 104.338,18 in modo distonico rispetto alla parte motiva in cui aveva affermato che andavano decurtate le somme riportate nell’ ultima colonna denominata “Riscontrati” pari al suddetto importo di euro 104.338,18, laddove il quantum sequestrabile, secondo il ragionamento dei giudici di merito, doveva essere pari ad euro 40.649,54; 4) violazione ed errata applicazione degli artt. 322 bis cod. proc. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inesistenza di motivazione in ordine alla richiesta di revoca del sequestro operato sul quinto dello stipendio avendo il tribunale omesso di pronunziare su detta istanza basata su una nota tecnica a firma del consulente di parte versata in atti.
G. deduceva i susseguenti tre motivi: 1) violazione ed errata applicazione dell’art. 322 ter cod. proc. pen. in relazione all’individuazione del provento-profitto del disposto sequestro funzionale alla confisca per equivalente nonché violazione ed errata applicazione degli artt. 322 bis-627 comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen. perchè, nel proporre delle censure sostanzialmente sovrapponibili ai primi due motivi di ricorso avanzati da P. L., si rilevava che, dovendosi rispettare il criterio di proporzionalità che impone di circoscrivere il vincolo cautelare al profitto effettivamente conseguito da intendersi quale vantaggio che si ricava per effetto della commissione del reato, il sequestro doveva riguardare le somme effettivamente percepite e non anche somme relative ad imposte e contributi mai introitate dal ricorrente per effetto delle condotte di peculato, prospettandosi profili di violazione del disposto di cui all’ art. 627 cod. proc. pen. in relazione a quanto statuito dalla Corte di Cassazione in sede di annullamento; 2) violazione ed errata applicazione dell’art. 322 ter cod. proc. pen. in relazione all’individuazione del provento-profitto del disposto sequestro funzionale alla confisca per equivalente con riferimento alle voci stipendiali del “trattamento minimo complessivo di garanzia” nonché violazione ed errata applicazione dell’art. 322 bis cod. proc. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’ art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen., prospettandosi una censura analoga al terzo motivo del ricorso avanzato dal P.; 3) violazione ed errata applicazione degli artt. 322 bis cod. proc. pen. e 125 comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per inesistenza di motivazione in ordine alla richiesta di revoca del sequestro operato sul quinto dello stipendio rilevandosi come il tribunale avesse omesso di pronunziare su detta istanza basata su una nota tecnica a firma del consulente di parte prodotta in atti.
C., a sua volta, deduceva tre motivi di ricorso analoghi a quelli proposti dal C..
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
I ricorsi venivano accolti per le seguenti ragioni.
Prima di esaminare queste ragioni, va però prima osservato come fosse stato disatteso da parte della Corte il motivo di censura formulato da tutti i ricorrenti i quali avevano lamentato che i giudici di merito, nel disattendere l’istanza di riduzione del profitto del reato in ragione del fatto che le voci stipendiali percepite illecitamente dovevano ritenersi “al lordo” di imposte, tasse, oneri e ritenute in genere da corrispondersi all’ Erario, avrebbero violato il dictum della Cassazione e ciò perché, contrariamente a quanto prospettato dai ricorrenti, ad avviso del Supremo Consesso, non sussisteva alcuna violazione dell’ art. 627 cod. proc. pen. dal momento che la Corte di Cassazione, nella pronunzia di annullamento sopra richiamata, si era limitata ad osservare come non sussistesse alcuna preclusione processuale quanto alla chiesta riduzione del disposto sequestro per effetto del rinvio a giudizio degli stessi mentre il Tribunale, nel provvedimento impugnato, aveva solo rilevato, genericamente, l’astratta fondatezza in diritto delle censure; invero a seguito di annullamento per vizio di motivazione, prosegue la Corte nel suo ragionamento giuridico, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di cassazione ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata, poiché egli conserva gli stessi poteri che gli competevano originariamente quale giudice di merito relativamente all’individuazione ed alla valutazione dei dati processuali nell’ambito del capo della sentenza colpito da annullamento (Sez. 2, n. 47060 del 25/09/2013).
Premesso ciò, si reputavano invece fondate le contestazioni relative al quantum sequestrabile.
Dopo aver precisato che gli indagati erano accusati di aver commesso il reato di concorso in peculato aggravato per essersi appropriati di voci stipendiali non dovute inserite nelle rispettive retribuzioni loro spettanti quali dirigenti e direttori dell azienda C.T.P. S.p.A. di Taranto, affidataria del servizio di trasporto pubblico dal 2005 al 30/06/2015, veniva subito dopo rilevato come nella specie venisse in discussione la questione relativa agli ambiti ed ai limiti del sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria ex art. 322 ter cod. pen. la quale può riguardare il prezzo o il profitto del reato contro la P.A..
Orbene, si faceva presente a tal proposito come, nel nostro ordinamento, non vi sia una definizione normativa di profitto: in nessun testo normativo il legislatore ha fornito una nozione generale di “profitto” (né tanto meno ha mai proceduto a specificazioni del tipo “profitto lordo” o “profitto netto“), “apparentemente” utilizzando il termine come semplice elemento descrittivo nelle fattispecie in cui è inserito e rinviando “altrettanto apparentemente” al significato lessicale dello stesso termine: da qui i problemi interpretativi legati al fatto che tale nozione presenta indubbiamente uno spazio semantico “aperto” tenuto conto altresì del fatto che nel linguaggio penalistico il termine ha tradizionalmente assunto un significato oggettivamente ampio ed è stato tralaticiamente utilizzato – in modo assai poco impegnativo sul piano descrittivo – in ambiti normativi assai diversi.
Oltre a ciò, veniva altresì messo in risalto il fatto che, nella fattispecie in esame, rilevasse il profitto del reato menzionato nel primo comma dell’art. 240 cod. pen. come uno degli oggetti della confisca-misura di sicurezza e, in tal senso, sul piano esegetico, osservava la Corte, il profitto del reato è stato tendenzialmente identificato nel generico vantaggio economico ricavato dall’illecito in contrapposizione al “prodotto” e al “prezzo” del reato, il primo inteso come quale risultato empirico dello stesso illecito e il secondo come il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare taluno a commettere il reato.
Detto questo, si evidenziava inoltre come, in generale, il “profitto in senso giuridico” non possa prescindere dalla considerazione che il profitto del reato va determinato “tenendo conto dell’utilità eventualmente conseguita in concreto” non sussistendo altrimenti alcun profitto confiscabile (Cass. sez. 6, 16 gennaio 2013 n. 4297; sez. 6 5 ottobre 2012 n. 42530; sez. 5 14 dicembre 2011 n. 3238; sez. 6 26 marzo 2009 n. 17897) osservandosi a tal riguardo come la Corte di legittimità avesse avuto modo di chiarire, anche a Sezioni Unite, che, “in tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato” (Cass. Sez. U del 03/07/1996).
Per di più, era sottolineato come debba sempre sussistere un rapporto pertinenziale, una relazione diretta, attuale e strumentale, tra il bene sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito, “vantaggio di natura economica” ovvero “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” di “diretta derivazione causale” dall’attività del reo, dunque l’utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa, oltre a precisarsi come non sia possibile addivenire ad “un’estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa comunque scaturire da un reato” (si veda nella motivazione della sentenza Cass. Sez. U del 24/05/2004, n. 29951; richiamata da Cass. Sez. U del 25/10/2005, n. 41936).
Tal che se ne faceva conseguire come fosse, dunque, escluso che possano farsi rientrare nell’alveo del profitto confiscabile quelle conseguenze positive, pur economicamente valutabili, derivanti dal reato che non costituiscano risultato immediato e diretto della condotta illecita.
Proseguendo la disamina delle pronunce emesse in subiecta materia, gli ermellini rimarcavano come le Sezioni Unite si fossero ancora pronunciate sulla definizione di “profitto del reato” anche con la sentenza del 25.6.2009 n. 38691 con la quale avevano confermato la nozione di “profitto del reato” già assunta in SS.UU. n. 38834/2008 per cui il “profitto del reato deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata dal reato” stesso e a tale vantaggio “non va attribuito il significato di utile netto o di reddito, bensì di beneficio aggiunto di tipo patrimoniale” sottolineando inoltre che “occorre una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito” rilevandosi al contempo come in tale sentenza fosse poi stato evidenziato che “il profitto deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al ‘prodotto e ‘prezzo’ del reato” e specificando che il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va invece individuato nel compenso dato o promesso a una determinata persona come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Orbene, seguendo tale impostazione, la Cassazione riteneva in questa pronuncia che erroneamente nella determinazione del profitto del reato ai fini del disposto sequestro fossero state considerate come “profitto” anche le imposte “trattenute” sulla busta paga degli odierni ricorrenti e, quindi, importi riguardanti somme mai incamerate dai predetti considerando essere illogico ritenere che detti importi possano essere configurati quale “effettivo vantaggio economico” che l’autore del peculato consegue in forza del suo comportamento illecito che certamente non comprende somme che non sono di pertinenza dello stesso ma che sono entrate, in via immediata, nella disponibilità dell’Erario posto che le imposte versate dal datore di lavoro per il proprio dipendente attraverso il meccanismo della c.d. ritenuta alla fonte non realizzano in sè alcun lucro per l’autore della condotta illecita mentre ‘illecito vantaggio economico deve ovviamente essere stato conseguito “in concreto” non sussistendo altrimenti alcun profitto confiscabile.
Ciò posto, proprio muovendo da tali considerazioni, i giudici di piazza Cavour ritenevano come non apparisse condivisibile il principio, fatto proprio dai giudici dell’appello cautelare, espresso dalla Corte di Cassazione con la pronunzia n. 3287/2019 che, chiamata a pronunziasi sull’estensione del sequestro a somme corrispondenti a ritenute fiscali e previdenziali, aveva evidenziato come il sequestro sia correlato al profitto conseguito dal ricorrente essendo in tale prospettiva indubitabile che anche le somme corrispondenti alle ritenute versate dall’indagato debbano ricomprendersi in tale nozione quale vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell’illecito richiamandosi in tal senso Cass. Sez. U. n. 31617 del 26/6/2015 nonchè precisando che di “profitto” deve parlarsi con riferimento a tutti gli importi indistintamente calcolati all’origine e nella loro interezza da intendersi oggetto di indebita appropriazione.
Invece, ad avviso della Corte, dal momento che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015) e che, come correttamente evidenziato dalla Suprema Corte, «in virtù del “principio di causalità” e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere ad un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicchè non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, – dep. 2014-, omissis, Rv. 258577; ma anche Sez. un. “omissis”, cit.)» (vedi in parte motiva Sez. 6, n. 1754 del 14/09/2017), non poteva parlarsi, con riferimento alla ritenute fiscali, mai entrate nel patrimonio degli odierni ricorrenti, di profitto del reato.
Pertanto, posto che l’assetto sanzionatorio complessivamente considerato con riferimento all’istituto de quo trova fondamento nella ratio di disincentivare le condotte delittuose in base al principio per cui “il crimine non paga”, da questa valutazione, secondo la Corte, discendeva logicamente che il provvedimento ablatorio dovesse essere compatibile proprio con il guadagno effettivo ricavato dal reato mentre andare oltre la confisca dell’arricchimento dell’autore dell’illecito privandolo di somme non direttamente incamerate e già destinate all’ Erario significherebbe, a detta sempre della Cassazione, affermare che “il crimine costa“, con ciò esulando dal concetto stesso di “profitto” e con le finalità proprie della confisca.
Viceversa, diversa considerazione vale, ad avviso di questo collegio, per i contributi previdenziali versati per conto del dipendente i quali, avendo nell’immediatezza refluenze sul trattamento previdenziale e pensionistico dello stesso, costituiscono, comunque, delle utilità economiche per il dipendente medesimo autore della condotta di peculato costituenti un vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dai reato presupposto.
Sulla scorta delle considerazioni sin qui esposte, il Supremo Consesso disponeva l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al tribunale di Taranto (sezione per il riesame delle misure cautelari reali) al quale era demandato il compito di riesaminare le contestazioni relative al quantum assoggettabile al sequestro sulla scorta del seguente principio di diritto: “In ipotesi di peculato avente ad oggetto voci stipendiali percepite illecitamente da un lavoratore dipendente ai fini del sequestro ex art. 322 ter cod. pen. dovrà procedersi alla quantificazione del profitto con esclusione delle voci stipendiali relative ad imposte e tasse da corrispondersi all’Erario“.
Conclusioni
La sentenza in commento è sicuramente interessante specialmente nella parte in cui esclude dal profitto sequestrabile penalmente le voci stipendiali relative ad imposte e tasse da corrispondersi all’Erario.
Difatti, il Supremo Consesso, in discontinuità con un precedente orientamento nomofilattico con cui era stato diversamente postulato che le somme corrispondenti alle ritenute versate dall’indagato debbano ricomprendersi in tale nozione quale vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell’illecito, affermando invece che non possono includersi le ritenute fiscali nel profitto del reato, formulava il seguente principio di diritto: “In ipotesi di peculato avente ad oggetto voci stipendiali percepite illecitamente da un lavoratore dipendente ai fini del sequestro ex art. 322 ter cod. pen. dovrà procedersi alla quantificazione del profitto con esclusione delle voci stipendiali relative ad imposte e tasse da corrispondersi all’Erario”.
Orbene, nel ritenersi preferibile questo diverso approdo ermeneutico in quanto, ad avviso di chi scrive, più rispettoso di quel condivisibile orientamento nomofilattico secondo il quale il profitto, per essere tipico, deve corrispondere ad un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica sicchè non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali, sarebbe comunque opportuno che su tale questione, stante l’esistenza a questo punto di un contrasto giurisprudenziale, intervenissero le Sezioni Unite, e ciò per una evidente esigenza di certezza del diritto.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, comunque, per le ragioni appena dette in precedenza, non può che essere positivo.
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