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Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207
Il Provvedimento della Banca d’Italia del 2 maggio 2005 ha accertato l’esistenza di una intesa restrittiva della libertà di concorrenza L. n. 287 del 1990, ex art. 2. L’eccezione da sollevare è quella indicata dalla Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207, secondo cui il contratto cosiddetto “a valle” costituisce lo sbocco della suddetta intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. I contratti di fideiussione impugnati, oltre ad estrinsecare l’intesa, la attua. L’art. 1 (prima parte) della legge n. 287 del 1990, deve essere letta come attuazione dell’art. 41 cost., e dunque interpretata in base ai principi dell’ordinamento comunitario. Pertanto in linea con la norma del Trattato (Causa Sirena, 40/70 sent. 18 febbraio 1971 e causa Volk n. 5/69, sent 9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa (SU 2207/2005).
Sempre le SU chiariscono che: La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare “in maniera consistente” il gioco della concorrenza “all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilavante”. La norma molto simile (perché per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall’ambito comunitario) all’art. 81 del Trattato.
Ciò che qui interessa è il fatto che oggetto della tutela della legge n. 287 del 1990, come già del Trattato, è la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull’assetto che trova. Le SU del 2005 spiegano che, la legge non si occupa dell’intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente ancorchè questo possa essere riparato dalla repressione della intesa (cfr quanto al pregiudizio al commercio comunitario/presupposto di applicabilità dell’art. 81, causa Grundig n. 58 del 1964, sentenza 13 luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8 luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico. La più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, così come vuole il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento vietato ( cass. n. 827 del 1999).
Infatti, un’intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori della intesa, infatti, la legge n. 287 del 1990 all’art. 33, contiene una norma di giurisdizione, e una norma di competenza, e con quest’ultima vuol individuare anche il giudice dell’accertamento della nullità, che è il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria.
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La giurisdizione
Per quanto riguarda la giurisdizione, risalente alla repressione della intesa appare datata, in quanto influenzata dalla impostazione che al momento in cui la legge venne emanata era dominante.
Tale impostazione risale alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul Contenzioso Amministrativo del 1865 n. 2248 artt. 4 e 5, coerente, quindi, con la legge comunitaria n. 142 del 1992 che, all’art. 13, che regola la tutela giurisdizionale che consegue alla violazione delle normativa comunitarie in materia di appalti pubblici: tale normativa prevedeva che il risarcimento del danno poteva essere domandato al G.O. da parte di quegli che avesse ottenuto dal G.A. l’annullamento dell’atto amministrativo.
La citata norma è stata abrogata dall’art. 35 u e del d.lgs. n. 80 del 1998 (abrogazione confermata dall’art. 7 lettera e della legge n. 205 del 2000), assetto giurisdizionale che seppur ancora riconoscibile agli inizi degli anni novanta, è stato superato dalla legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (Corte Cost. nn 204 del 2000 e 281 del 2004). Da ciò si comprende il perché dell’attribuzione al G.A. della giurisdizione sull’atto di AGCM, e quindi del potere di dire se l’intesa affermata si è realizzata in contrasto con la legge antitrust n. 287 del 2000; così come è conseguente il potere di giudicare il merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno, stabilendo un unico grado innanzi alla Corte d’appello, competente per territorio (oggi il Tribunale per le Imprrese di Milano, Roma e Napoli).
In tal modo anche coloro che non hanno partecipato al giudizio innanzi alla G.A., perché carenti di interesse, hanno la possibilità di avvalersi processualmente della prova ivi raccolta non trovando ostacoli di carattere costituzionale (art. 125 Cost.), in quanto coerente con l’esigenza di favorire la sollecita soluzione di controversie che attengono all’assetto del mercato. Le SU del 2005 concludono dunque ritenendo che: La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica dalla concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al G.O. ai sensi dell’art. 33 n. 2 della legge n. 287 del 1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da cass. 17475 del 2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere.
Ai sensi dell’ art. 33 comma II, della L. 287/1990 secondo cui: Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti al tribunale competente per territorio presso cui è istituita la sezione specializzata di cui all’art. 1 del d.lg. 26 giugno 2003, n. 168, e successive modificazioni (Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti al tribunale competente per territorio presso cui è istituita la sezione specializzata di cui all’art. 1 del d.lg. 26 giugno 2003, n. 168, e successive modificazioni). La competenza non è del Tribunale per le Imprese presso le Corti d’Appello in quanto l’art. 4 d.lg. 168/2003 al comma 1-ter, come modificato dal D. Lgs 3/2017,stabilisce che Per le controversie di cui all’art. 3, comma 1, lett. c) e d) (LA LETTERA C RIGUARDA PROPRIO : controversie di cui all’art. 33, comma 2, della l. 10 ottobre 1990, n. 287) anche quando ricorrono i presupposti del comma 1-bis , che, secondo gli ordinari criteri di competenza territoriale e nel rispetto delle disposizioni normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari di seguito elencati, sono inderogabilmente competenti:
a) la sezione specializzata in materia di impresa di Milano per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia, Milano, Bologna, Genova, Torino, Trieste, Venezia, Trento e Bolzano (sezione distaccata);
b) la sezione specializzata in materia di impresa di Roma per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia, Roma, Cagliari e Sassari (sezione distaccata);
c) la sezione specializzata in materia di impresa di Napoli per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di corte d’appello di Campobasso, Napoli, Salerno, Bari, Lecce, Taranto (sezione distaccata), Potenza, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo, Reggio Calabria.
3. Il soggetto consumatore
Le SU pone in risalto il fatto che la legge non ignora, nella materia della intesa, l’interesse del consumatore tanto che prevede una ipotesi in cui esso, alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un “periodo limitato” addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale; dice la csazione: Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta esclusione della legittimazione in parola non è prevista espressamente dalla legge, questa peraltro, all’art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della AGCM di autorizzare un’ intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità che fonda “il beneficio del consumatore”. Il consumatore, ovvero l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene: ne consegue che la funzione illecita di una intesa si realizza per con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. Le SU infatti dicono: A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. Per una più completa disamina interpretativa sulla portata della norma bisogna ricordare la sentenza della Corte di Giustizia, Courage, (n. 453 del 1999) che amplia l’ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva, sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto “a valle” costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad estrinsecarla, la attua.
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La legge antitrust: oggetto ed effetto
La legge vieta inoltre le intese che hanno, anche solo per “oggetto” la distorsione di cui si tratta, oltre che per “effetto”, ciò spiega il doppio livello di intervento previsto: quello amministrativo della AGCM / Banca d’Italia e quello riparatorio di cui alla azione di nullità e risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione, che ha ampi poteri sui generis e che opera anche in vista di un pericolo, in quanto finalizzata a prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato.
Il giudice, investito della controversie può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio per cui innanzi alla Corte competente deve essere allegata un’ intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento. La giurisprudenza insegna che il contratto cosiddetto “a valle”, ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da parte del consumatore: tale condotta giustifica la azione individuale di cui all’art. 33.
Infatti le SU del 2005 chiariscono che: la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla “cospirazione anticompetitiva” e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un’intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell’indagine, per la proibizione e la sanzione da parte di AGCM, giacchè la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale dei comportamenti “a valle”. E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti.
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I rimedi: art. 2033 c.c. o 2043 c.c.?
La dichiarazione di nullità potrebbe condurre alla restitutoria di cui all’art. 2033 c.c.., norma che si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c. per l’assenza di qualunque profilo di colpa o dolo nell’accipiens (Cass. 3060 del 1984), mentre chi chiede dichiararsi la nullità di una intesa e allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l’elemento psicologico del dolo o della colpa: in definitiva, qualunque sia la domanda di ripristino della situazione patrimoniale lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo.
Appare, dunque chiaro, che la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, (almeno potenzialmente) il danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (SU n. 500 del 1999): chi subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorchè non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, – l’azione di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990. In conclusione, la domanda giudiziale verterà sulla richiesta di accertamento di una intesa, sulla domanda di nullità del contratto concluso al fine di eliminarne gli effetti, anche attraverso l’eliminazione del sovrapprezzo. Si deve dunque ribadire che la ratio della nullità ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, è quella “di togliere alla volontà anticoncorrenziale a monte ogni funzione di copertura formale dei comportamenti a valle“.
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Provvedimento della Banca d’Italia del 2 maggio 2005
Il richiamato provvedimento della Banca di Italia ha rilevato che: Gli artt. 2, 6 e 8, dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) Le dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, nonché le decisioni del giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni, costituiscano una prova privilegiata, (Cass. 13846/2019) in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti offrano prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie (Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640).
Dunque, il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità Garante per la Concorrenza ha una elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori e consente di presumere, senza violazione del principio praesumptum de praesumpto non admittitur, che dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati, nel quale è ricompreso, come essenziale componente, il pregiudizio subito dal singolo assicurato (Cass. 28 maggio 2014, n. 11904; cfr. pure, in tema, ad es.: Cass. 23 aprile 2014, n. 9116; Cass. 22 maggio 2013, n. 12551; Cass. 9 maggio 2012, n. 7039; Cass. 20 giugno 2011, n. 13486). Anche se l’accertamento effettuato dalla banca d’Italia ha avuto luogo in un procedimento svoltosi tra le imprese e l’autorità competente, “deve ritenersi che la circostanza che il singolo utente o consumatore sia beneficiario della normativa in tema di concorrenza (per tutte, Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475) comporta pure, al fine di attribuire effettività alla tutela dei primi ed un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante, la piena utilizzabilità da parte loro, una volta accertate condotte di violazione della normativa di settore posta anche a loro tutela, degli accertamenti conseguiti nel procedimento di cui pure non sono stati formalmente parte“.
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La prova privilegiata
In linea con il principio espresso, il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico “impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede” (Cass. 20 giugno 2011, n. 13486).
Come ben chiarito dalla cass. 13849/2019: “il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante”: per cui “teorizzare la profonda cesura tra contratto a monte e contratto a valle, per derivarne che, in via generale, la prova dell’uno non può mai costituire anche prova dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato” (Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305).
Tale rilievo si coniuga con una duplice considerazione: per un verso, nel sistema della L. n. 287 del 1990, come del resto nella disciplina comunitaria, private e public enforcement, e cioè tutela civilistica e tutela pubblicistica, sono tra loro complementari; per altro verso, il principio di effettività e di unitarietà dell’ordinamento non consente di ritenere irrilevante il provvedimento amministrativo nel giudizio civile, considerato anche che le due tutele sono previste nell’ambito dello stesso testo normativo e nell’ambito di un’unitaria finalità: tanto più in considerazione dell’”evidente asimmetria informativa tra l’impresa partecipe dell’intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore, che si trova, salvo casi eccezionali da considerare di scuola, nell’impossibilità di fornire la prova tanto dell’intesa anticoncorrenziale quanto del conseguente danno patito e del relativo nesso di causalità” (Cass. 28 maggio 2014, n. 11904).
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L’illecito concorrenziale: la prova
Fondamentale è quindi, l’accertamento dell’intesa restrittiva da parte della Banca d’Italia e non le pronunce di diffide e sanzioni che da essa sono derivate. Il dato costituito dell’illecito concorrenziale deve essere desunto dal contenuto sostanziale e complessivo del provvedimento amministrativo e non da singole locuzioni isolatamente assunte, che potrebbero assumere un significato ambiguo o fuorviante.
Ciò che rileva, ai fini della eccepita inefficacia delle clausole del contratto di fideiussione di cui agli artt. 2, 6 e 8, è il fatto che esse costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata, e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita, come rilevato dalla cit. Cass. Sez. U. 4 febbraio 2005, n. 2207 (cfr. in tema anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, secondo cui ai fini dell’illecito concorrenziale di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, rilevano tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato).
Per quanto sopra, diversamente da quanto sostenuto dalla controparte, ciò che deve essere accertata, non è la diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, ma la coincidenza delle convenute condizioni contrattuali, di cui qui si dibatte, col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva: infatti, l’illecito concorrenziale si configura anche se l’ABI non ha contravvenuto a quanto disposto dalla Banca d’Italia nel provvedimento del 2 maggio 2005.
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