Il divieto di espulsione del minorenne
Poiché l’art. 19 t.u. non limita il divieto di espulsione del minorenne alle sole espulsioni prefettizie, la giurisprudenza ne trae ragione, con buoni argomenti di esegesi, per comprendervi anche le espulsioni di competenza dell’autorità giudiziaria[1]. Il minore di età resta dunque espellibile solo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, con provvedimento che parrebbe dover essere adottato necessariamente dal Ministro dell’interno, ai sensi dell’art. 13, c. 1, del testo unico.
Controverso – e secondo alcuni incompatibile con il rinvio operato dall’art. 19 all’art. 13, c. 1 – è però risultato il significato del successivo art. 31, c. 4, il quale dispone che “Qualora ai sensi del presente testo unico debba essere disposta l’espulsione di un minore straniero, il provvedimento è adottato a condizione comunque che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore, su richiesta del questore, dal Tribunale per i minorenni. Il Tribunale per i minorenni decide tempestivamente e comunque non oltre trenta giorni”.
Un’opzione ermeneutica ipotizza che il significato da attribuire all’art. 31, c. 4, t.u., sia quello di rendere competente il tribunale per i minorenni, in luogo del Ministro, riguardo all’espulsione del minore per i motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato di cui all’art. 13, c.1, t.u., nonché per moti- vi di prevenzione del terrorismo[2]. Detta interpretazione condurrebbe ad un rafforzamento notevole della tutela del minore a fronte del potere espulsivo dello Stato, specie dopo che la legge 7 aprile 2017, n. 47, ha introdotto nel testo della norma l’impedimento legale costituito dalla clausola del “rischio di danni gravi”, che andrebbe così a prevalere sul rivale rischio, anche grave, per la sicurezza dello Stato.
Più probabilmente però siamo qui di fronte, più che ad un mancato coordinamento tra l’art. 19 e l’art. 31 t.u., all’imprecisione nell’uso delle parole da parte del legislatore, a fronte della quale parrebbe preferibile un’interpretazione sistematica che consenta di stabilire tra tutte le norme riguardanti l’espulsione che coinvolga un minore di età un rapporto di coerenza. Ciò pare possibile ove si consideri che l’art. 19, c. 2, lett. a), nel vietare l’espulsione del minore, fa comunque “salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi”, facendo così intendere di considerare “espellibile” il minore sottoposto alla responsabilità del genitore o dell’affidatario espulsi.
Benché ciò non sia tecnicamente corretto (il minore al seguito dell’adulto espulso non è infatti destinatario diretto del provvedimento di espulsione, anche se ne viene decisamente coinvolto) tuttavia questo è proprio ciò che il legislatore ha scritto e che con tutta probabilità ha poi inteso presupporre anche nello scrivere il successivo art. 31, c. 4, il quale di conseguenza va letto nel senso che, ove si proceda all’allontanamento del minore al seguito del genitore o dell’affidatario espulsi, il suo allontanamento (lato sensu: espulsione) dovrà essere “adottato, su richiesta del questore, dal Tribunale per i minorenni”.
Giunto a tale esito ermeneutico, l’interprete si avvedrà che in tal modo anche all’interno dell’art. 31, cc. 3 e 4, è ristabilita una maggiore coerenza: il giudice minorile, infatti, ai sensi del c. 3, autorizzerà, in particolari circostanze, il soggiorno dei familiari del minore nel suo imprescindibile interesse, oppure, ai sensi del c. 4, assumerà la responsabilità dell’allontanamento del minore al seguito dei familiari espulsi perché irregolarmente soggiornanti. Resterebbero d’altra parte intatte le prerogative ministeriali in tema di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato anche riguardo a soggetti minori di età.
Sulle modalità dell’allontanamento assieme ai genitori
Coerente con la ricostruzione ora proposta è anche la recente aggiunta all’art. 19 del c. 2-bis, il quale dispone che “il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori nonché dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate”.
Quest’ultima disposizione, che recepisce nel diritto interno alcune delle indicazioni contenute nella direttiva 2008/115/CE a tutela delle “persone vulnerabili”, non potrebbe infatti essere compresa se non avallando l’impropria sinonimia tra “espulsione” e “allontanamento al seguito” utilizzata dal legislatore (ma forse, prima ancora, dalla stessa “direttiva Rimpatri”).
Come è stato esattamente osservato, le clausole della direttiva 2008/115/ CE, sebbene non impediscano l’espulsione (rectius: allontanamento) del minore al seguito dei suoi familiari espulsi, impongono però diverse modalità e tempi nell’esecuzione del provvedimento[3].
L’Italia non sembra, a questo riguardo, avere esattamente recepito le indicazioni del legislatore europeo. La direttiva, all’art. 7, dispone infatti che, nell’adottare il provvedimento di rimpatrio volontario, gli Stati membri pro- roghino, ove necessario, il periodo prima della partenza volontaria “per un periodo congruo, tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale”, tra le quali espresso rilievo è dato alla “esistenza di bambini che frequentano la scuola”. Ma, come è noto, nel diritto italiano dell’immigrazione il rimpatrio volontario è un istituto rimasto sulla carta a causa dei molti ostacoli per chi volesse chiederlo e dell’assenza di incentivi, anche solo di natura giuridica (cioè a costo zero); e privo, in particolare, della previsione di un apprezzabile periodo di preparazione per la partenza volontaria. Né pare realistico, nelle sue attuali condizioni, che l’Italia possa attrezzarsi in modo tale da adempiere a quanto previsto dall’art. 17, parr. 2 e 3, della direttiva, a termini dei quali “le famiglie trattenute in attesa di allontanamento usufruiscono di una sistemazione separata che assicuri loro un adeguato rispetto della vita privata”; e “ai minori trattenuti è offerta la possibilità di svolgere attività di svago, tra cui attività di gioco e ricreative consone alla loro età e, in funzione della durata della permanenza, è dato accesso all’istruzione”.
Al difettoso recepimento della direttiva può però ovviare – limitatamente all’allontanamento dei minori di età – la competenza attribuita dal diritto italiano dell’immigrazione al giudice per i minorenni, il quale ben potrebbe, ad esempio, prescrivere un periodo di mera sospensione dell’esecuzione dell’espulsione del nucleo familiare, in attesa che il minore concluda l’anno scolastico o sia opportunamente sostenuto in vista della nuova prospettiva di vita[4].
Il presente contributo è tratto da “Immigrazione, asilo e cittadinanza” a cura di Paolo Morozzo della Rocca
Ti potrebbe interessare anche “Immigrazione, ricongiungimento familiare”
[1] Cass. pen., 2 dicembre 2014, n. 50379, ove si fa applicazione del combinato disposto degli art. 86 d.P.R. 309 del 1990, 5 e 19, c. 2, lett. d) del t.u. dell’immigrazione, letti alla luce dell’art. 30, c. 1, Cost.
[2] Trib. min. Sassari, 5 gennaio 2016, in www.immigrazione.it.
[3] Guidi m., L’acquisizione del diritto di soggiorno nell’Unione europea in virtù di legami familiari: condizioni e limiti secondo la recente giurisprudenza, in di SalVatore E., michetti M., I diritti degli altri, Napoli, 2014, p. 78.
[4] I problemi suscitati dal difettoso recepimento delle norme sul rimpatrio sono però spes- so superate dal giudice minorile mediante l’autorizzazione di cui all’art. 31, c. 3. Cfr. ad esempio Trib. min. Piemonte, 17 gennaio 2014, in “Dir. imm. e citt.”, 2014, 3, p. 119, che ha autorizzato un genitore straniero già espulso ad un periodo di soggiorno limitato al tempo necessario (nel caso di specie non brevissimo, perché di diciotto mesi) per preparare il figlio al rientro non traumatico nel paese di origine assieme al genitore stesso.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento