Interpretazione del testamento

Redazione 03/12/02
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di Avv. Francesco Coppola
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Nell’interpretazione del testamento è affermazione ormai costante e del tutto condivisibile che le norme dettate per la cosiddetta interpretazione soggettiva dei contratti (artt. 1362-1365), con gli adattamenti resi necessari dalla diversa natura della fattispecie negoziale, sono applicabili anche ai negozi mortis causa ed in particolare al testamento.
Come rilevato in dottrina (Grassetti, Interpretazione dei negozi giuridici mortis causa Noviss. Dig. It.) tali norme sono espressione del principio voluntas spectanda che nell’ambito degli atti mortis causa e in principal modo del testamento ha una ragione in più per essere affermato: la non rinnovabilità del negozio.
L’esigenza che a tale principio si collega ha portato la giurisprudenza consolidata a formulare a più riprese il convincimento che l’interpretazione del testamento, rispetto a quella del contratto e del negozio giuridico in generale, impone una più penetrante ricerca della volontà del testatore.
Questa posizione, in aderenza alla norma dettata dall’art. 1362 c.c., da un lato ha reso ancor più sentita la necessità di andare oltre il significato letterale delle espressioni adoperate (logicamente non avrebbe senso pensare che il de cuius sia sempre un tecnico del diritto da cui si possa pretendere l’uso, con cognizione di causa, del linguaggio giuridico).
Dall’altro, in conseguenza di tale esigenza, ha cercato di valorizzare, riconoscendo all’interprete ampia libertà d’indagine, una valutazione globale della volontà del de cuius, tenendo conto di elementi di carattere sia testuale che extratestuale.
Si è affermato così in giurisprudenza che “L’interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, con riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda stessa, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore medesimo. Pertanto il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purchè non contrastante e antitetico, e si prestino ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione del de cuius.” (Cass. 7025/86).

Da tale conclusione la giurisprudenza non ha mancato di ricavare preziose soluzioni in relazione ai numerosi problemi interpretativi che l’esperienza giuridica di volta in volta ha proposto in materia testamentaria.
Basti pensare alle difficoltà di inquadramento create da quei lasciti nei quali l’attribuzione mortis causa di beni determinati può in prima analisi, alla stregua della formulazione dell’art. 588 c.c., consentire la loro classificazione indifferentemente come legato o come istituzione (ex re certa) di erede (cfr. Cass. 1266/1987).
Ed ancora, ai dubbi connessi alla distinzione tra legato in sostituzione e legato in conto di legittima o ancora tra onere testamentario e legato e così via.
Ma non sono mancate, addirittura, pronunce che hanno fatto applicazione dei suddetti criteri ermeneutici, ed in particolare dell’art. 1362 c.c., per stabilire se di fronte a una scrittura autografa, contenente la manifestazione delle ultime volontà del dichiarante di compiere un’attribuzione patrimoniale gratuita a favore di un soggetto determinato, si fosse in presenza di un atto mortis causa (testamento) ovvero inter vivos (donazione, in particolare una donazione rimuneratoria) (cfr. Cass. 1077/92).
Fino ad arrivare a casi nei quali l’utilizzo di tali norme interpretative ha permesso di escludere la sussistenza di un testamento per l’assenza di qualsiasi manifestazione definitiva di volontà diretta a disporre dei propri beni (per il tempo successivo alla morte) (cfr. Cass. 8668/90).

Come detto in precedenza, nell’interpretazione (soggettiva) del negozio testamentario, dottrina e giurisprudenza, in ossequio all’essenza della fattispecie giuridica, hanno costantemente riconosciuto all’interprete i più ampi margini di manovra, legittimando la valutazione (anche) di dati non desumibili dalla scheda testamentaria purchè inerenti in qualche modo alla persona del de cuius, ed in particolare al suo comportamento anteriore e posteriore alla redazione della scheda medesima (considerando irrilevante viceversa il comportamento degli eredi e/o dei legatari).

A questa apparente uniformità di indirizzo giurisprudenziale ha fatto riscontro, però, una serie di distinguo e di puntualizzazioni tali da determinare, nella sostanza, un quadro d’insieme estremamente variegato sia pure riconducibile, in linea di massima, a due filoni interpretativi.
Invero, pur avendo la giurisprudenza, come visto, recepito il canone lessicale-psicologico come fondamentale nell’interpretazione testamentaria, profonde divisioni in seno ad essa si sono prodotte allorquando si è trattato di riconoscere prevalenza all’elemento letterale o a quello psicologico.
Secondo un primo orientamento il ricorso ad elementi extratestuali (consentito dalla previsione del 2° co. dell’art. 1362 c.c.) sarebbe possibile solo laddove dall’indagine condotta sul testo residuino ambiguità non altrimenti superabili.
Laddove viceversa dall’analisi della (sola) scheda testamentaria si evinca chiaramente il senso della volontà del de cuius, qualsiasi ulteriore accertamento dovrà ritenersi precluso.
Un secondo orientamento privilegiando la componente psicologica rileva che solo la giusta valutazione complessiva e contemporanea (oltre che del contenuto della scheda) di tutti gli elementi a disposizione, riconducibili alla persona del testatore, permetterebbe una corretta e fedele ricostruzione dell’intenzione del testatore.
Tale ultima posizione, a giudizio di chi scrive, si lascia preferire, se non altro, per l’ovvia considerazione che anche una volontà testamentaria univoca e (in apparenza) chiaramente desumibile dalla scheda può risultare in contrasto con l’effettiva intenzione del de cuius quale ricavabile da dati non testuali.
In tal caso, se la materia testamentaria, per giudizio sostanzialmente unanime, è caratterizzata da una più pressante necessità di individuare la reale volontà testamentaria, non potrà non risultare in stridente contraddizione con tale esigenza la limitazione dell’indagine al piano lessicale.
Tale orientamento, del resto, trova un’importante conferma proprio in materia testamentaria e, precisamente, nella norma contenuta nell’art. 625 c.c. laddove si precisa che “Se la persona dell’erede o del legatario è stata erroneamente indicata, la disposizione ha effetto, quando dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva nominare”.

Ovviamente, anche chi propende per una lettura meno rigida delle norme di interpretazione soggettiva puntualizza, correttamente, che il ricorso ad elementi esterni alla scheda testamentaria in tanto è possibile in quanto sia diretto a interpretare le disposizioni testamentarie, non certo a integrare il testamento attraverso una ricostruzione di quella che avrebbe potuto essere la volontà del de cuius rispetto ai beni e alle situazioni giuridiche da lui del tutto trascurate nella redazione della scheda.

Insomma, la volontà testamentaria dovrà pur sempre trovare “adeguata espressione nelle forme testamentarie” (Trabucchi, Il rispetto del testo), pena l’impossibilità per la stessa di produrre il benchè minimo effetto, ma nella ricerca del suo significato l’interprete potrà e dovrà immedesimarsi nel testatore e attribuire alle parole contenute nella scheda il significato con il quale il de cuius le ha adoperate (in tal senso Perego, Interpretazione del testamento e norme sull’interpretazione dei contratti 1970, Foro Padano).

Quanto alle altre norme di interpretazione cd. soggettiva, vale a dire gli artt. 1363, 1364 e 1365 c.c., è senz’altro da condividere l’indirizzo, prevalente in dottrina, che individua in tali disposizioni un’integrazione e un complemento di quella contenuta nell’art. 1362 c.c.
In particolare si è affermato che i criteri in esse contenute sono strumentali rispetto all’obiettivo fissato dall’art. 1362 c.c.: essi non hanno, in altri termini, la funzione di chiarire il risultato cui deve tendere l’attività ermeneutica (compito assolto, come visto, dall’art.1362 c.c.) bensì quella di indicare il metodo cui uniformarsi nella ricerca di tale risultato.

Alle regole di interpretazione cd. soggettiva che, come visto, mirano a ricostruire la volontà testamentaria espressa o comunque desumibile da elementi inerenti alla persona del de cuius, vengono contrapposte (così come in materia contrattuale) le norme di interpretazione cd. oggettiva (1367-1371) le quali sono dirette a risolvere i dubbi interpretativi attraverso criteri predisposti dalla legge.

Prima di passare all’esame di questo secondo gruppo di norme, è opportuno soffermarsi su quella che generalmente è considerata una disposizione intermedia, una sorta di ponte tra i due gruppi di cui sopra: l’art. 1366 c.c.

Riguardo a tale disposizione diciamo subito che è decisamente prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, la tesi della sua inapplicabilità alla materia testamentaria.
La ragione fondamentale addotta a sostegno di tale opinione è che tale disposizione nell’ambito contrattuale si giustifica per la recettizietà della dichiarazione del contraente e il conseguente affidamento che la stessa è idonea a determinare nell’accipiens.
In altri termini, data una dichiarazione che controparte aveva ragionevolmente diritto di intendere secondo un certo significato, questo è il significato rilevante per il diritto, e il dichiarante non può invocarne uno diverso appellandosi ad una presunta diversa volontà da parte sua.
Orbene, in materia testamentaria non vi è alcuna dichiarazione recettizia (tale non potendosi considerare la volontà espressa dal de cuius nelle clausole dispositive), in quanto i beneficiari delle disposizioni mortis causa non sono i destinatari dell’atto bensì, come si è rilevato (Bigliazzi-Geri, Il testamento, Il profilo negoziale dell’atto 1976), unicamente lo strumento necessario ad attuare la regolamentazione della situazione post mortem.
Non essendovi dichiarazioni recettizie non vi è, conseguentemente, alcun affidamento da tutelare e mancherà pertanto il presupposto indispensabile per l’applicazione dell’art. 1366 c.c.
Né in contrario risulta appagante osservare, seguendo l’argomentazione sviluppata da alcuni autori (cfr. per tutti Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano 1952), che la disposizione in esame sarebbe rivolta all’interprete: una lettura in tale chiave della norma si rivelerebbe del tutto irrilevante sul piano precettivo, esprimendo un principio ovvio e, come tale, non bisognevole di alcuna norma di legge.

Per quanto attiene alle restanti norme sull’interpretazione dei contratti (interpretazione cd. oggettiva o integrativa) va sottolineato innanzitutto che le stesse hanno carattere sussidario: la loro applicazione cioè è subordinata alla circostanza che l’utilizzo delle altre norme non ha consentito di conseguire alcun risultato certo.
In tali casi il legislatore, prendendo atto dell’impossibilità di ricostruire alla stregua degli strumenti disponibili la volontà reale o presunta dei contraenti, in ossequio a un principio di economia giuridica, interviene imponendo di riconoscere all’accordo un “proprio” significato.

In merito alla loro estensibilità agli atti mortis causa, se si fa eccezione per l’art. 1370 c.c. la cui compatibilità con la materia testamentaria è unanimemente esclusa, la posizione sia della giurisprudenza sia, più marcatamente, della dottrina risulta estremamente differenziata.

Tale circostanza rende indispensabile una valutazione specifica per ciascuna di esse.

L’art. 1367 c.c., che enuncia il principio di conservazione del contratto, è sicuramente la norma che ha alimentato il maggior dibattito.
Invero, all’orientamento sostanzialmente compatto della giurisprudenza della S.C., favorevole ad un utilizzo del principio di conservazione anche per il testamento (cfr. per tutte Cass. 1402/89), fanno riscontro delle profonde divisioni da parte della dottrina.
L’argomentazione più convincente sviluppata da coloro che negano l’estensione fa leva sulla arbitrarietà di una scelta che privilegi la successione testamentaria a quella legittima (Stolfi, Teoria del negozio giuridico 1947).
In altri termini, si fa notare, il ricorso al principio di conservazione ha un senso nel campo contrattuale ove una volta accertata la volontà di vincolarsi da parte dei contraenti è logicamente corretto trarre le dovute conseguenze sul piano dell’efficacia, optando per una soluzione che garantisca un effetto ad un’altra che negando qualsiasi effetto finisca per travolgere la stessa (certa) volontà contrattuale.
Tale conclusione non si attaglierebbe, viceversa all’ambito degli atti mortis causa ove, secondo i sostenitori di tale tesi, alla mancanza di una certa e chiara volontà testamentaria ben sarebbe possibile sopperire con il ricorso alle norme dettate per la successione legittima, idonee comunque a garantire una piena regolamentazione post mortem dei rapporti giuridici del defunto.

Dell’opinione testè esposta la premessa è senz’altro corretta: una volontà testamentaria del tutto ipotetica che, in quanto tale, ben potrebbe essere contraria a quella manifestata (in modo oscuro e comunque non identificabile con i canoni dell’interpretazione soggettiva) dal testatore, logicamente, va posta sullo stesso piano, della mancanza di volontà (e quindi della successione legittima).
La conclusione che da tale premessa si ricava, al contrario, lascia abbastanza perplessi, sembrando contraddetta dalla stessa argomentazione di fondo: se infatti volontà (testamentaria) ipotetica e mancanza di volontà (testamentaria) sono equiparabili non c’è ragione logica che giustifichi la scelta di quest’ultima e quindi sostanzialmente della successione legittima (esattamente come non vi è ragione logica che consenta di privilegiare la volontà ipotetica e quindi la successione testamentaria).

Ma se i principi della logica non consentono di pervenire ad una soluzione pienamente appagante risulta evidente la necessità di affrontare il problema con strumenti normativi, che rappresentano del resto la principale bussola per chi, operatore del diritto, si trovi costantemente nella situazione di doversi orientare nel mare delle complesse e talora inestricabili problematiche di carattere giuridico.

In questa prospettiva si rivela estremamente suggestiva la posizione di chi muovendo dal tenore di talune disposizioni dettate in sede propria sottolinea la forte considerazione, anche sociale, riconosciuta dal legislatore al negozio testamentario (Perego, Favor legis e testamento 1970).
In particolare il riferimento operato da questa dottrina riguarda l’art. 590 c.c. (intitolato “conferma ed esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie nulle” secondo il quale “La nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione”), l’art. 607 c.c. (relativo alla “validità del testamento segreto come olografo” che così recita: “Il testamento segreto, che manca di qualche requisito suo proprio, ha effetto come testamento olografo, qualora di questo abbia i requisiti”) e l’art. 634 c.c. ( il quale, in tema di condizioni impossibili o illecite, stabilisce che “Nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, salvo quanto è stabillito dall’art. 626”).

L’argomentazione svolta si presenta sufficientemente solida da vincere la critica di quanti dubitano dell’esistenza nel nostro ordinamento giuridico di un vero e proprio favor testamenti.
Le norme citate denotano, al di là di qualsivoglia perplessità linguistica, un’autentica scelta di campo del legislatore per la salvezza del testamento in tutti i casi nei quali sia identificabile una volontà testamentaria seria, e ciò a prescindere dal motivo (sia esso un vizio o il tenore ambiguo) che ne metta in dubbio l’efficacia.

Il dibattito sull’estensione dell’art.1367 alla materia testamentaria, in realtà, non è altro che il riflesso del contrasto esistente in dottrina sulla preminenza di valore tra la successione testamentaria e quella legittima.
Coloro che riconoscono preminenza alla successione regolata dalla legge sostengono che la stessa non è ispirata ad un interesse individuale, come quella testamentaria, bensì all’interesse superiore della famiglia (cfr. per tutti Cicu, Testamento 1951).
Tale argomentazione è contrastata da chi (Ferri, Successioni in generale 1980) sottolinea l’impossibilità di liquidare la questione richiamandosi al fondamento dei due istituti, in quanto la stessa non può che dipendere da (mere) scelte di politica legislativa.
Orbene, si osserva (Capozzi, Successioni e donazioni 1983) <<il legislatore stabilendo all’art. 457 co. 2° c.c. (“non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria”) che le norme sulla successione legittima sono dispositive e non cogenti ha, in tal modo, inteso riconoscere alla successione testamentaria non solo prevalenza (nel senso appunto che la presenza di un testamento valido ed efficace escluderebbe l’operatività, almeno per la parte oggetto di disposizione, delle norme sulla successione legittima) ma anche preminenza sulla successione legittima>>.
La questione presenta notevoli risvolti pratici: si pensi innanzitutto al caso in cui il testatore disponendo solo in parte delle proprie sostanze istituisca un successibile ex lege nella quota legale.
In tal caso, qualora si ritenga preminente la successione legittima all’istituito spetterà comunque e soltanto la suddetta quota.
Per coloro che riconoscono preminenza di valore alla successione testamentaria, viceversa, all’erede istituito andrà riconosciuta, oltre alla quota legale, la possibilità di concorrere sul residuo con gli altri successibili ex lege.

Ma non basta: l’adesione a tale ultima tesi comporterà altre importanti conseguenze come, ad esempio, l’operatività del diritto di commutazione previsto dall’art. 537 co. 3° o la possibilità di considerare erede l’istituito nella quota legale, anche a seguito di una modifica legislativa che escluda lo stesso dalla categoria dei successibili ex lege.

Quanto alle norme contenute negli artt. 1368 e 1369 c.c., va segnalato che ad alcune pronunce della S.C. che si sono espresse per l’utilizzo dei relativi criteri ermeneutici anche all’ambito del testamento, si contrappone l’orientamento negativo decisamente prevalente in dottrina.
La ragione fondamentale di dissenso fa leva sulla considerazione che manca identità di ratio, e quindi non sussiste la condizione essenziale per l’estensione delle suddette norme.
In particolare si sostiene che tali disposizioni, in materia contrattuale, si ispirano all’esigenza di tutelare l’altrui affidamento, esigenza che, evidentemente, esula dal negozio testamentario (Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile).

Per quanto concerne infine il rapporto tra l’art. 1371 c.c. e il testamento dottrina e giurisprudenza si presentano equamente divise.

L’opinione che esclude la possibilità di estendere tale norma al campo degli atti mortis causa si fonda sulla considerazione che in materia testamentaria non è ipotizzabile alcun conflitto di interessi tra i soggetti del rapporto successorio, ossia tra il defunto, da un lato, e l’erede e/o il legatario, dall’altro (Grassetti, op. cit.).
Di diverso avviso coloro che, spostando la prospettiva dal momento formativo del negozio a quello della titolarità del conseguente rapporto giuridico, sostengono l’utilizzabilità della norma anche in relazione al testamento.
Per costoro, cioè, il conflitto da dirimere non riguarderebbe il de cuius (autore del negozio) e i beneficiari delle disposizioni mortis causa, bensì solo l’erede e il legatario (protagonisti del rapporto giuridico regolato con il testamento), con la conseguenza che ogni eventuale dubbio residuo sulla portata delle attribuzioni testamentarie andrebbe risolto a favore dell’erede (per tutti Oppo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico 1943).
Tale argomentazione lascia perplessi in quanto l’attività interpretativa non può non essere posta in relazione alla nascita del negozio, vale a dire in rapporto al momento in cui prendono vita le clausole negoziali oggetto dell’interpretazione medesima.
Svincolare a priori e comunque l’operazione ermeneutica dal naturale collegamento con l’autore del negozio (la cui volontà, del resto, è pur sempre al centro dell’indagine) significa, a giudizio di chi scrive, andare oltre quei limiti rigorosi imposti all’interprete nell’applicazione analogica di norme giuridiche.

Naturalmente le norme sull’interpretazione dei contratti non esauriscono il tema dell’ermeneutica testamentaria: l’operatore del diritto nel suo compito di far luce sul significato delle clausole testamentarie dovrà ovviamente tener conto anche dei criteri fissati da disposizioni dettate in sede propria.
Anzi, poiché tali norme riguardano specificamente la materia testamentaria, è principalmente ad esse che occorre far riferimento allorchè sorgano dubbi sulla reale portata della volontà del de cuius.
Purtroppo non avendo tali norme ricevuto dal legislatore un inquadramento organico, i tentativi di una trattazione sistematica delle stesse incontrano non poche difficoltà.

Orbene pur avendo ben chiara l’impossibilità in questa sede di offrire un quadro completo ed esaustivo delle disposizioni in questione, si ritiene quantomeno opportuno segnalare quelle norme alle quali generalmente viene riconosciuto un ruolo ermeneutico fondamentale.

In tale prospettiva, l’attenzione si concentra innanzitutto sul citato art. 625 c.c., rispetto al quale però la dottrina appare quantomai divisa.

La funzione interpretativa della norma viene accreditata, in realtà, unicamente da coloro che accettando la possibilità del ricorso a elementi extratestuali per chiarire la volontà del de cuius, vede nella disposizione in oggetto una conferma di tale approccio (per tutti, Perego, op. cit.).

Di contrario avviso sono invece quegli autori che riconoscendo alla sola scheda testamentaria il compito di individuare la concreta intenzione del testatore, configurano la disposizione de qua come una deroga al formalismo testamentario (Cicu, op. cit.) e un intervento di rettifica della disposizione viziata (Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento 1954).
Sono state indicate in precedenza le ragioni per le quali si ritiene preferibile l’adesione alla prima opinione.
Qui si può solo aggiungere che confondere la volontà testamentaria (che necessariamente va espressa nel testamento, per il suesposto principio formalistico) con il significato di tale volontà (per la cui ricerca ben si potrà prescindere dal contenuto della scheda) integra un evidente errore di metodo in relazione all’obiettivo, unanimemente condiviso, di fornire l’esatta rappresentazione dell’effettiva intenzione del de cuius.

Altra importante norma di riferimento per l’interprete è contenuta nell’art. 588 c.c.

Tale norma assolve il compito fondamentale di fornire all’operatore giuridico lo strumento per l’inquadramento di una disposizione di ultima volontà nell’uno o l’altro dei due modelli nei quali tradizionalmente viene esaurito il novero delle possibili attribuzioni mortis causa: l’istituzione di erede e il legato.

A più riprese la S.C. ha chiarito, richiamandosi appunto all’art.588 c.c. nel suo insieme, che “al fine di stabilire se una disposizione testamentaria sia a titolo universale o particolare, l’interprete deve compiere una duplice indagine, l’una di carattere oggettivo circa il contenuto dell’atto e l’altra di carattere soggettivo sulla intenzione del testatore” aggiungendo, riguardo a quest’ultima, che la stessa “nel caso di istituzione ex re certa deve essere più completa e penetrante di quella necessaria, invece, quando il testatore detta le disposizioni con riferimento alla quantità indeterminata dei suoi beni” (Cass. 3304/1981).
E’ possibile peraltro che nonostante il ricorso ai criteri di interpretazione soggettiva, rimanga incerta la natura del lascito disposto dal testatore.
In tal caso, l’opinione di autorevole dottrina (Trabucchi, Legato, Nov. D. 1963), assolutamente condivisa da chi scrive, è che nel dubbio l’attribuzione mortis causa andrà considerata a titolo particolare: si rileva infatti che, pur non esistendo come in altri ordinamenti una presunzione esplicita del legislatore in favore del legato, la necessità di provare la precisa intenzione del testatore (la norma dice: “quando risulti”) di voler lasciare un bene “come quota del patrimonio” fa pensare che anche nel nostro ordinamento la preferenza, sia pure in assenza di altri elementi, vada riconosciuta al legato.

Vanno ricordate infine tutte quelle situazioni nelle quali il legislatore prefigura un certo regolamento ma ammette la possibilità di una diversa volontà del testatore ovvero indica i presupposti cui subordina la rilevanza di una data volontà testamentaria.
Si pensi, nel primo caso, a tutte quelle disposizioni nelle quali il legislatore ricorre alla dizione “se non ha diversamente disposto” (v. artt. 647,662,668 c.c.) o a quella identica “salvo che il testatore abbia diversamente disposto” (v. artt. 640,669 c.c.) o a formule simili come “quando non costa una contraria volontà del testatore” (v. art. 663 c.c.) e ad altre equivalenti (v. artt. 638,674,686,690, 734, ecc.), e, nel secondo caso, a quelle norme nelle quali il verificarsi di una data situazione è condizionata all’esistenza di una certa dichiarazione (v. ad es. artt. 558, 648 c.c.) per la quale talora è richiesta la forma espressa (v. artt. 552, 564 c.c.).
Orbene, tralasciando la disputa sulla natura dispositiva o interpretativa di ciascuna di esse, è fuori dubbio che anche esse dovranno dirigere l’attività dell’interprete nella ricerca di quella volontà testamentaria che lo stesso legislatore attuale ha palesemente dimostrato di considerare assolutamente preminente sulla valutazione di qualsiasi altro elemento.
Avv. Francesco Coppola
Avvocato civilista, con studio in Napoli -80129 – via E. Suarez 4/G (Parco De Risi) e in Aversa (CE) alla via E. Corcione n.23. Tel: 0812292168; email : studiof.coppola@libero.it

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