Imposta di registro sul decreto ingiuntivo ottenuto dal fideiussore

Commento al recente intervento con cui le Sezioni Unite si sono pronunciate nel senso della tassazione proporzionale.

Sommario: 1. La questione controversa. – 2. Il contrasto giurisprudenziale e la soluzione delle Sezioni Unite. – 3. Il criterio chiave. – 4. Una soluzione sempre valida? 5. Volume

Con sentenza n. 18520/2019, pronunciata il 07.05.2019 e depositata il 10.07.2019, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione sono intervenute in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, chiarendo le modalità di tassazione del decreto ingiuntivo ottenuto da chi, in qualità di garante, abbia assolto il debito nei confronti del creditore garantito ed abbia poi agito in via monitoria nei confronti del debitore principale al fine di ottenere il rimborso di quanto versato.

Come si vedrà, pur giungendo a risultati assolutamente condivisibili, la pronuncia in esame segue tuttavia un percorso argomentativo strettamente ancorato alle specificità del caso concreto, perdendo forse così l’occasione di risolvere una volta per tutte una questione che spesso contrappone contribuenti ed amministrazione finanziaria.

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1. La questione controversa

Nel caso di specie, la vicenda rimessa al vaglio del Supremo Collegio nasceva dalla pretesa di una società di assicurazioni – che aveva stipulato con un proprio cliente una polizza fideiussoria necessaria ai fini dell’ottenimento di un rimborso IVA[1] – di vedersi rimborsare da parte dell’amministrazione finanziaria l’imposta di registro assolta (nella misura proporzionale del 3% sul valore della condanna) in relazione al decreto ingiuntivo con cui la società stessa aveva chiesto ed ottenuto la condanna del proprio cliente alla restituzione delle somme versate in seguito all’escussione della polizza.

Ricordato che “l’assunzione di fideiussioni e di altre garanzie” costituisce operazione rientrante nel campo di applicazione dell’IVA[2], a venire in rilievo è il noto principio di alternatività tra IVA e registro, sancito dal legislatore tributario al fine di regolare i rapporti tra le due principali forme di imposizione indiretta ed evitare così ipotesi di doppia tassazione del medesimo fenomeno economico. Sancito in via generale dall’art. 40 D.P.R. 131/1986, il quale prevede che gli atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi soggetti ad imposta sul valore aggiunto scontino l’imposta di registro in misura fissa, anziché proporzionale, il principio in parola trova una specifica declinazione in riferimento agli atti giudiziari attraverso il combinato disposto dell’art. 8, comma 1, lett. b), Tariffa, parte I, allegata al medesimo D.P.R. e della nota II in calce all’appena menzionato art. 8.

Secondo la tesi della società assicuratrice il decreto ingiuntivo della cui tassazione si discute, avendo ad oggetto somme riferibili ad un rapporto soggetto ad IVA (vale a dire quello nascente dalla menzionata polizza fideiussoria), avrebbe dovuto essere considerato esente da imposta di registro o, più realisticamente, scontare tale imposta esclusivamente in misura fissa (pari dunque ad euro 200,00).

Il silenzio diniego opposto dall’Agenzia delle Entrate veniva dal contribuente impugnato dinanzi alla competente commissione tributaria provinciale, che – in parziale accoglimento del ricorso, dopo aver escluso di poter ravvisare un caso di esenzione da imposta di registro – disponeva il rimborso della differenza tra l’imposta proporzionale versata e quella in misura fissa effettivamente dovuta; a seguito di impugnazione, la decisione trovava poi conferma anche in grado successivo, dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale.

2. Il contrasto giurisprudenziale e la soluzione delle Sezioni Unite

Approdata in Cassazione, la vicenda – a fronte del contrasto giurisprudenziale emergente dalle molteplici pronunce rese in argomento dalla sezione tributaria – veniva infine rimessa alle Sezioni Unite.

Ad un indirizzo favorevole ad una tassazione in misura fissa dei decreti ingiuntivi come quello controverso, argomentata sulla scorta di un asserito collegamento negoziale tra obbligazione principale e obbligazione di garanzia, tale da configurare un’operazione unitaria ed inscindibile, si contrapponeva infatti un diverso orientamento propenso invece a ravvisare rapporti distinti e perciò autonomamente tassabili. In particolare, tale secondo filone evidenziava come “il titolo da cui deriva il debito principale è distinto dalla polizza fideiussoria, dalla quale trae origine la prestazione di garanzia, e che assume la configurazione di contratto autonomo di garanzia“: alla luce di ciò, considerando in maniera frazionata i rapporti intercorrenti tra ciascuno dei soggetti coinvolti nella vicenda (debitore principale, creditore, garante), sarebbe evidente che “il garante, a seguito del pagamento, non fa valere nei confronti del debitore corrispettivi di prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto“.

È proprio quest’ultimo l’orientamento che le Sezioni Unite scelgono di avallare, sulla base di considerazioni di carattere sia formale che sostanziale. In primo luogo viene infatti richiamato il nuovo dettato dell’art. 20 D.P.R. 131/1986, introdotto a fine 2017 con un intervento espressamente qualificato di interpretazione autentica, in base al quale l’imposta di registro va, di regola, applicata a ciascun singolo atto prescindendo da eventuali atti ad esso collegati; in seconda battuta, ed in modo decisamente più tranchant, si osserva poi come “in realtà, già a monte non è possibile configurare alcuna operazione complessiva e inscindibile“. E ciò perché – spiegano le Sezioni Unite – “la polizza fideiussoria non mira a garantire l’adempimento dell’obbligazione principale, bensì a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore“. La prestazione posta in essere dal garante è quindi altra, diversa ed autonoma rispetto a quella oggetto dell’obbligazione principale, avendo come obiettivo il “trasferimento da un soggetto a un altro del rischio economico derivante dalla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale oppure dall’insussistenza dei presupposti per ottenere il rimborso dell’IVA” (cfr. Cass. Civ., SS.UU. n. 3947 del 18.02.2010).

Alla luce della riscontrata “autonomia di titoli e di conseguenti rapporti“, il Supremo Collegio esclude quindi la possibilità di “configurare un’operazione unitaria e inscindibile“, assoggettabile ad imposta di registro in misura fissa come invece sostenuto nell’impugnata pronuncia di merito.

Nel pervenire a tale decisione, le Sezioni Unite osservano come nel caso di specie non ricorra neppure l’istituto della surrogazione, pur invocato dalla società contribuente.

Non ricorre un’ipotesi di surrogazione legale perché “in virtù del contratto autonomo di garanzia incorporato nella polizza fideiussoria, […], il garante non è tenuto con altri, ma neanche per altri al pagamento del debito, ovviamente altrui, perché è tenuto per sé all’adempimento dell’obbligazione che scaturisce dal contratto stipulato e che ha contenuto diverso rispetto a quella originaria del debitore principale“. “Il rapporto autonomo di garanzia” – prosegue la Suprema Corte – “si caratterizza morfologicamente proprio perché, a differenza della fideiussione, non sorge tra garante e creditore, ma tra garante e debitore, e ha oggetto diverso da quello del debito principale, [con la conseguenza per cui] il creditore, che non è parte, si limita a beneficiarne degli effetti“.

Non ricorre nemmeno un’ipotesi di surrogazione per volontà del creditore, ex art. 1201 c.c., in quanto l’azione esperita dalla società di assicurazioni nei confronti del proprio cliente va più correttamente intesa come rivalsa esercitata dal garante nei confronti del debitore principale al fine di ottenere il rimborso di quanto versato.

Dopo aver così distinto i singoli rapporti (di provvista e di valuta) intercorrenti rispettivamente tra garante e debitore e tra debitore e creditore, il Supremo Collegio giunge a smentire il presupposto di fondo del primo tra i due orientamenti giurisprudenziali in contrasto, secondo cui “la condanna al pagamento in favore del garante non [potrebbe] che riferirsi a obbligazione di natura anche fiscalmente identica a quella originaria“; chiarisce al contrario come “la natura del rapporto di valuta, ossia di quello tra debitore e creditore, e, in particolare, l’eventuale riferibilità di esso a operazione soggetta a IVA, non riescono a comunicarsi al rapporto di provvista, cioè a quello tra garante e debitore, altro e autonomo, l’oggetto del quale può essere al più soltanto economicamente identico a quello del primo[3].

3. Il criterio chiave

Se il lettore si fermasse a questo punto della sentenza in commento, dovrebbe probabilmente ritenere che le conclusioni sinora raggiunte riguardino esclusivamente il trattamento fiscale degli atti giudiziari recanti condanna del debitore principale al rimborso delle somme pagate dal garante a fronte della stipula di una polizza fideiussoria o di un contratto autonomo di garanzia. È infatti su queste due figure negoziali, nella pratica assimilabili l’una all’altra, che le Sezioni Unite incentrano e svolgono gran parte dell’apparato motivazionale sin qui ricostruito.

Ricordate le sostanziali differenze che dottrina e giurisprudenza ravvisano tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia[4] – per cui “nella fideiussione il garante è debitore allo stesso modo del debitore principale, [mentre] nel contratto autonomo di garanzia e nella polizza fideiussoria il garante, è debitore di una prestazione diversa” (così Cass. Civ., sez. III, ord. n. 9200 del 13.04.2018) – si dovrebbe di conseguenza ritenere che quanto sin qui enunciato non valga per gli atti giudiziari recanti condanna alla restituzione di somme pagate dal garante nell’ambito di un classico rapporto fideiussorio.

Tale impressione è tuttavia smentita dall’ultima parte della pronuncia in esame, laddove – a parere di chi scrive – risiede il vero nocciolo della questione. Correttamente infatti la Suprema Corte osserva che “quando il garante chiede l’emissione del decreto ingiuntivo per ottenere dal debitore principale quanto ha versato al creditore, non fa affatto valere il credito da corrispettivo per la prestazione resa al debitore, in seno al rapporto che a lui lo lega“. Al contrario “egli si limita […] a ristorarsi di quanto versato, mediante l’esercizio di azione di rivalsa nei confronti del debitore“. “Sicché” – ed è questo il nodo cruciale – “il titolo giudiziario ottenuto dal garante, concernendo la somma già da lui versata, non ha ad oggetto il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto: non dispone una prestazione soggetta a IVA, ossia quella di garanzia, già eseguita e verosimilmente remunerata col premio; per conseguenza, non ne riguarda il corrispettivo, ossia il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente“.

Secondo il condivisibile orientamento della Corte di legittimità, ciò che davvero conta – ai fini della questione in esame – è considerare l’oggetto della condanna recata dall’atto giudiziario sottoposto a tassazione e chiedersi se esso rientri o meno nel campo di applicazione dell’IVA. Con riferimento all’azione di rivalsa esperita dal garante escusso, la risposta fornita dalla Suprema Corte è negativa: oggetto di condanna è il pagamento di una somma che, ancorché economicamente identica a quella dovuta nell’ambito del rapporto principale, non ha certamente natura di “corrispettivo” ai sensi della disciplina in materia di imposta sul valore aggiunto. Il che è più che sufficiente per escludere l’applicazione del principio di alternatività IVA/registro.

Tale conclusione esprime un principio generale concernente le modalità di applicazione dell’imposta di registro, suscettibile di applicazione in tutti i casi in cui l’interprete sia chiamato a verificare quale regime fiscale applicare ad un determinato atto alla luce del menzionato criterio di alternatività.

4. Una soluzione sempre valida?

Se dunque a contare è la natura della somma oggetto di condanna in decreto ingiuntivo, la soluzione raggiunta dalla Suprema Corte – nel senso dell’esclusione della natura di corrispettivo e dunque del pieno assoggettamento all’imposta proporzionale di registro[5]dovrebbe valere anche in relazione a forme di garanzia diverse da quelle espressamente considerate in sentenza, in relazione al caso concreto[6]. Il carattere accessorio o autonomo della garanzia stipulata “a monte” – assieme ai suoi inevitabili riflessi sulla prestazione che il garante è tenuto ad eseguire in caso di inadempimento del debitore principale – non sembra poter spostare la valutazione che l’amministrazione finanziaria deve operare “a valle”, nel momento in cui il garante agisce in rivalsa verso il proprio cliente: sia in caso di fideiussione, sia in caso di polizza fideiussoria o contratto autonomo di garanzia, ciò che il garante chiede ed ottiene tramite decreto ingiuntivo è una somma di denaro equivalente a quella versata in adempimento della garanzia prestata, non qualificabile però come “corrispettivo” ai fini IVA.

Verso tale lettura era del resto già orientata la precedente prassi amministrativa[7], da ultimo ribadita attraverso la Risoluzione n. 70/E del 30.07.2019 dell’Agenzia delle Entrate, emanata proprio a seguito della pronuncia giurisprudenziale in commento.

Nel richiamare numerosi altri precedenti di legittimità, il menzionato documento di prassi non opera alcuna distinzione tra atti giudiziari recanti una condanna fondata su polizza fideiussoria o contratto autonomo di garanzia e atti giudiziari aventi ad oggetto un’azione di rivalsa nell’ambito di un classico rapporto fideiussorio: si evidenzia anzi come “la natura accessoria del contratto di fideiussione ha una valenza civilistica, mentre in ambito tributario, e segnatamente nell’ambito dell’imposta di registro, in cui viene colpita la singola manifestazione di ricchezza e la connessa capacità contributiva, viene in rilievo il principio dell’autonomia dei singoli negozi, escludendosi espressamente «l’unitarietà e inscindibilità dell’operazione complessiva»“.

Alla luce di quanto sopra, la recente pronuncia delle Sezioni Unite da un lato va senz’altro accolta positivamente perché ribadisce la validità del criterio guida già individuato dalla giurisprudenza precedente ed applicato dall’amministrazione finanziaria; dall’altro lato però non chiude definitivamente la porta a possibili contrasti interpretativi che potrebbero sorgere alla luce di un impianto motivazionale che, concentrandosi per buona parte sul carattere autonomo di determinati tipi di garanzia, nulla dice invece in relazione al caso in cui il rapporto di garanzia si configuri come accessorio. In conseguenza di ciò, un lettore sufficientemente spregiudicato potrebbe forse arrivare a sostenere che il condivisibile principio di diritto enunciato non si applichi a forme di garanzia diverse da quelle implicate nel caso concreto risolto dalla Corte.

Soltanto la concreta attività di applicazione dell’imposta da parte dell’amministrazione finanziaria e il diritto vivente nelle aule delle commissioni tributarie e della Suprema Corte diranno se tale timore è fondato.

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Note

[1] Si tratta della garanzia richiesta dall’art. 38 bis D.P.R. 633/1972 per poter in alcune ipotesi procedere all’esecuzione di rimborsi del credito IVA.

[2] SI tratta, più in particolare, di operazione esente, ai sensi dell’art. 10 D.P.R. 633/1972.

[3] Opportuna l’osservazione aggiunta immediatamente di seguito, laddove la Corte puntualizza che tale conclusione “a maggior ragione vale nel caso in cui la polizza fideiussoria sia prestata ai fini dell’ottenimento del rimborso dell’IVA: in relazione alla pretesa di rimborso nei confronti del fisco non si configurano «corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto»“.

[4] Sulla distinzione tra fideiussione, contratto autonomo di garanzia e figure affini, si veda l’autorevole intervento di Cass. Civ., SS.UU. n. 3947 del 18.02.2010.

[5] Si riporta il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite: “in tema d’imposta di registro, il decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del debitore dal garante che abbia stipulato una polizza fideiussoria e che sia stato escusso dal creditore è soggetto all’imposta con aliquota proporzionale al valore della condanna, in quanto il garante non fa valere corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto, ma esercita un’azione di rimborso di quanto versato“.

[6] Del resto, come riconosciuto da Cass. Civ, sez. I, ord. n. 26062 del 02.11.2017, seppur in relazione ad una diversa fattispecie, concernente il diritto fallimentare, “le diversità strutturali e funzionali che intercorrono tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia non determinano differenze di regime giuridico sotto ogni profilo“.

[7] Cfr. in particolare Risoluzione 22/E del 22.02.2017 dell’Agenzia delle Entrate.

Dott. Matteo Bertelli

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