Il mancato pagamento delle retribuzioni da parte dell’appaltatore e l’escussione della polizza definitiva da parte della stazione appaltante
A cura di Sonia LAZZINI
Il capitolato generale di appalto,all’articolo 13, da facoltà alle stazioni appaltanti di pagare anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori, le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’appaltatore per l’esecuzione del contratto.
Ministero dei lavori pubblici – Decreto 19 aprile 2000 n. 145 – Regolamento recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici, ai sensi dell’articolo 3, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modificazioni.
Art. 13. Pagamento dei dipendenti dell’appaltatore
1. In caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale dipendente, l’appaltatore è invitato per iscritto dal responsabile del procedimento a provvedervi entro i successivi quindici giorni. Ove egli non provveda o non contesti formalmente e motivatamente la legittimità della richiesta entro il termine sopra assegnato, la stazione appaltante può pagare anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’appaltatore in esecuzione del contratto.
2. I pagamenti di cui al comma 1 fatti dalla stazione appaltante sono provati dalle quietanze predisposte a cura del responsabile del procedimento e sottoscritte dagli interessati.
3. Nel caso di formale contestazione delle richieste da parte dell’appaltatore, il responsabile del procedimento provvede all’inoltro delle richieste e delle contestazioni all’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione per i necessari accertamenti.
La circolare del 21 aprile 2000 del Ministero del Lavoro – nel chiarire che la formulazione della norma, che accorda alla stazione appaltante il diritto di valersi della cauzione definitiva, reca con sé un’implicazione necessaria, riconosce altresì un diritto di valersi sulla cauzione definitiva in quanto sussiste l’obbligo per l’amministrazione appaltante di sostituirsi all’appaltatore nel pagamento e delle retribuzioni dovute ai dipendenti e delle somme da versare agli enti previdenziali , nonché di quant’altro sia necessario alla tutela dei lavoratori in ogni sua forma.
CIRCOLARE N. 26/2000
prot. n. VII/3/I/757
Roma, 21 aprile 2000
Direzione Generale
degli Affari Generali e del Personale Divisione VII
COORDINAMENTO ISPEZIONE DEL LAVORO
“Oggetto: Appalti d’Opera Pubblica – Strumenti di tutela per i dipendenti dell’appaltatore e del subappaltatore.
1. Premessa
Si avverte in maniera sempre più pressante la necessità di rendere maggiormente incisiva ed efficace l’azione di vigilanza sul lavoro negli appalti pubblici, anche in considerazione del fatto che tra gli impegni normativi assunti dal Governo, dalle Regioni e dalle Parti sociali, attraverso la redazione di Carta 2000, è contemplato, tra gli altri, quello di assicurare standards di sicurezza elevati nel settore degli appalti.
La particolare attenzione, inoltre, per il lavoro nei cantieri, mostrata di recente dal Governo attraverso l’impegno assunto in sede di “Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione”, la formulazione di un disegno di legge presentato di recente da questo Ministero e finalizzato a valorizzare il costo della manodopera tra gli elementi di qualificazione del valore dell’appalto (attraverso il riferimento al costo del lavoro per la determinazione del costo delle gare d’appalto), inducono necessariamente a richiamare l’attenzione di codesti uffici anche sulle problematiche relative agli strumenti di tutela dei lavoratori, che l’ordinamento appresta nel campo degli appalti di lavori pubblici.
In particolare, ci si riferisce alle norme concernenti i rapporti tra committente ed appaltatore da un lato e tra appaltatore e subappaltatore dall’altro, sotto i vari profili dell’osservanza dei contratti collettivi nazionali, della materia contributiva nonché di quella concernente la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Ciò al fine di indirizzare l’intervento degli organi ispettivi verso una duplice indagine che sia idonea:
da un lato, con riferimento al controllo del rapporto tra committente ed appaltatore, a coinvolgere il committente stesso sia nelle tematiche riguardanti la sicurezza, la regolarità contributiva e contrattuale sia in quelle concernenti l’informazione che ai committenti stessi va data in caso di accertata irregolarità;
– dall’altro, in relazione al controllo del rapporto tra appaltatore e subappaltatore, ad evidenziare il vincolo di solidarietà che astringe entrambi, anche in forza dell’autorizzazione che il committente deve rilasciare per l’esecuzione delle opere in subappalto.
Si intende, in altre parole, richiamare l’attenzione di codeste Direzioni Provinciali del lavoro – attraverso una ricognizione delle norme disciplinanti la materia de qua – sulla possibilità, attribuita al committente dall’ordinamento, di esperire azioni contrattuali nei confronti dell’appaltatore qualora il medesimo si renda inadempiente agli obblighi convenzionali in senso stretto, previdenziali, nonché a quelli previsti in materia di sicurezza.
A tal proposito, si evidenzia a codesti uffici periferici l’opportunità di contribuire, attraverso apposite segnalazioni alle Amministrazioni competenti (Enti committenti) – ferma restando la comunicazione di reato all’autorità giudiziaria per i corrispondenti illeciti penali -, all’attuazione della tutela operante sul piano strettamente civilistico.
(OMISSIS)
Inadempimento contrattuale – mancata corresponsione della retribuzione
Con specifico riferimento all’obbligo dell’appaltatore di corrispondere ai lavoratori la retribuzione pattuita in misura non inferiore a quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro – obbligo già sancito dall’art. 18, comma 7, L. 19 marzo 1990, n. 55 – l’Amministrazione potrebbe, avvalendosi del disposto di cui all’art. 340 della legge fondamentale sui lavori pubblici (L. 2248/1865, all. F), disporre la rescissione del contratto per la frode e la grave negligenza di cui si sia reso responsabile l’appaltatore contravvenendo agli obblighi e alle condizioni stipulate. Resta inteso, pertanto, che anche a tal fine si renderebbe opportuna una segnalazione del Servizio Ispettivo all’Amministrazione appaltante volta ad evidenziare la soluzione prospettata.
Sempre allo stesso fine, di non minore portata è la tutela apprestata ai dipendenti dell’appaltatore – che subiscano un ritardo, debitamente accertato, nel pagamento delle retribuzioni – dall’art. 17 comma 2 del D.P.R. n. 1063/62, che prevede la facoltà dell’Amministrazione appaltante di pagare d’ufficio le retribuzioni arretrate con le somme dovute all’appaltatore. Anche in questo caso, tuttavia, come per il citato art. 19 del medesimo D.P.R., l’abrogazione operata dall’emanando Regolamento comporterà il venir meno della descritta tutela, in sostituzione della quale potrà invocarsi il disposto dell’art. 101 comma 3 del Regolamento medesimo che, come sopra evidenziato, consente, alle stazioni appaltanti di valersi della cauzione definitiva per provvedere al pagamento di quanto dovuto dall’appaltatore in adempimento degli obblighi legali e collettivi a tutela dei lavoratori.
La formulazione della norma, che accorda alla stazione appaltante il diritto di valersi della cauzione definitiva, reca con sé un’implicazione necessaria: intanto è riconosciuto un diritto di valersi sulla cauzione definitiva in quanto sussiste l’obbligo per l’amministrazione appaltante di sostituirsi all’appaltatore nel pagamento e delle retribuzioni dovute ai dipendenti e delle somme da versare agli enti previdenziali nonché di quant’altro sia necessario alla tutela dei lavoratori in ogni sua forma.
Pertanto l’abrogazione del D.P.R. n. 1063/62 non comporta anche il venir meno della tutela descritta, essendo la medesima recuperata attraverso la, seppur implicita, previsione contenuta all’art. 101, comma 3, del Regolamento citato.
(OMISSIS)
4. Indicazioni operative
– Qualora si verifichi un inadempimento contrattuale dell’appaltatore relativamente al pagamento delle retribuzioni dovute ai dipendenti, sarà cura di codeste Direzioni – oltre che irrogare le sanzioni previste per i corrispondenti illeciti – provvedere a segnalare detto inadempimento alle stazioni appaltanti affinchè le medesime possano procedere ad intentare l’azione di rescissione del contratto (ex art. 340, L. n. 2248/1865, all. F) per la frode e la grave negligenza di cui si sia reso responsabile l’appaltatore contravvenendo agli obblighi e alle condizioni stipulate.
La tempestiva comunicazione consentirà altresì alle Amministrazioni appaltanti di pagare d’ufficio le retribuzioni arretrate con le somme dovute all’appaltatore (ex art. 17, comma 2, D.P.R. n. 1063/62), o comunque utilizzando la cauzione definitiva, così come prevede l’emanando Regolamento.
Le disposizioni di legge in tema di polizza definitiva predispongono la possibilità della stazione appaltante di avvalersi della cauzione definitiva nel caso in cui l’appaltatore sia inadempiente nei confronti dei propri prestatori d’opera.
Comma 2 e 2 bis Articolo 30 della Legge 109/94 s.m.i.
2. L’esecutore dei lavori è obbligato a costituire una garanzia fidejussoria del 10 per cento dell’importo degli stessi. In caso di aggiudicazione con ribasso d’asta superiore al venti per cento la garanzia fidejussoria è aumentata di tanti punti percentuali quanti sono quelli eccedenti il venti per cento. La mancata costituzione della garanzia determina la revoca dell’affidamento e l’acquisizione della cauzione da parte del soggetto appaltante concedente, che aggiudica l’appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria. La garanzia copre gli oneri per il mancato od inesatto adempimento e cessa di avere effetto solo alla data di emissione del certificato di collaudo provvisorio.
2-bis. La fidejussione bancaria o la polizza assicurativa di cui ai commi 1 e 2 dovrà prevedere espressamente la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale e la sua operatività entro 15 giorni a semplice richiesta scritta della stazione appaltante. La fidejussione bancaria o polizza assicurativa relativa alla cauzione provvisoria dovrà avere validità per almeno centottanta giorni dalla data di presentazione dell’offerta.
Art. 101 del D.p.r. 554/99
1. La cauzione definitiva deve permanere fino alla data di emissione del certificato di collaudo provvisorio o del certificato di regolare esecuzione, o comunque decorsi dodici mesi dalla data di ultimazione dei lavori risultante dal relativo certificato.
2. La cauzione viene prestata a garanzia dell’adempimento di tutte le obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni derivanti dall’eventuale inadempimento delle obbligazioni stesse, nonché a garanzia del rimborso delle somme pagate in più all’appaltatore rispetto alle risultanze della liquidazione finale, salva comunque la risarcibilità del maggior danno.
3. Le stazioni appaltanti hanno il diritto di valersi della cauzione per l’eventuale maggiore spesa sostenuta per il completamento dei lavori nel caso di risoluzione del contratto disposta in danno dell’appaltatore. Le stazioni appaltanti hanno inoltre il diritto di valersi della cauzione per provvedere al pagamento di quanto dovuto dall’appaltatore per le inadempienze derivanti dalla inosservanza di norme e prescrizioni dei contratti collettivi, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, protezione, assicurazione, assistenza e sicurezza fisica dei lavoratori comunque presenti in cantiere.
4. La stazione appaltante può richiedere all’appaltatore la reintegrazione della cauzione ove questa sia venuta meno in tutto o in parte; in caso di inottemperanza, la reintegrazione si effettua a valere sui ratei di prezzo da corrispondere all’appaltatore.
La Corte di Cassazione (Sezione lavoro), sentenza 10 marzo 2001, n. 3551 afferma che:
“
(omissis)
L’art. 1676 c.c. – il quale, come è stato rilevato in dottrina, trae origine da norme dettate nel vecchio ordinamento francese e poi trasfuse, prima, nel codice napoleonico del 1805 e, poi, nel codice civile del 1865 (art. 1645, che approntava una tutela a favore dei soli prestatori d’opera manuale) – stabilisce che coloro che hanno svolto attività lavorativa alle dipendenze dell’appaltatore nell’esecuzione di un’opera o nella prestazione di un servizio dal medesimo acquisiti possono agire contro il committente “per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore al tempo in cui essi propongono la domanda”.
Dal contenuto della norma si evince che elementi dell’azione sono:
1) l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.) alle dipendenze di un imprenditore che, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, esercita urla attività diretta al compimento di un’opera o di un servizio nei confronti di un determinato committente verso un corrispettivo (art. 1655 c.c.);
2) l’esecuzione della prestazione lavorativa per il rompimento di quella particolare opera o di quello specifico servizio commissionati da quel determinato committente;
3) l’esistenza di un credito di lavoro in capo ai suddetti lavoratori, inadempiuto da parte dell’appaltatore-datore di lavoro (artt. 2099 e segg. c.c.);
4) in pari tempo, l’esistenza di un credito dell’appaltatore verso il committente in relazione al compimento dell’opera o del servizio commissionatigli (art. 1657 c.c.).
Ricorrendo tutti questi elementi, la legge prevede che i lavoratori, mediante l’esercizio di un’azione contro il committente, possono conseguire direttamente da quest’ultimo la minor somma fra quella che è loro dovuta in conseguenza del rapporto di lavoro e quella che è dovuta all’appaltatore dal medesimo committente in relazione al contratto di appalto stipulato dalle parti.
Ora, come ormai pacificamente si ammette dalla dottrina – a superamento di una concezione che inizialmente era stata sostenuta nella vigenza del codice civile del 1865 – il fatto stesso che la legge parli di “azione diretta contro il committente” e che la legittimazione attiva sia attribuita ai lavoratori “per conseguire quanto è loro dovuto”, sta a significare che si verte in un’ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 2900 c.c. Al contrario dell’azione surrogatoria – che è caratterizzata dalla sostituzione del creditore al proprio debitore per far valere un diritto appartenente a quest’ultimo e per ottenere che il bene oggetto del giudizio possa rientrare nel patrimonio del soggetto sostituito – con l’azione prevista dall’art. 1676 c.c. i lavoratori fanno valere un diritto proprio, che la legge loro riconosce non in sostituzione del loro debitore, ma direttamente: tanto è vero che, come è stato precisato in dottrina, “gli, effetti economici dell’azione si trasmettono automaticamente nella sfera giuridica degli ausiliari” e non nel patrimonio dell’appaltatore.
Di tal che, non diversamente da quanto accade in tutte le ipotesi nelle quali la legge prevede che da parte di un determinato soggetto possa essere promossa un’azione diretta contro un altro soggetto anche in assenza di un originario rapporto (sussistendo un diverso collegamento, operante tramite un terzo soggetto) (cfr., ad esempio, l’art. 1717, quarto comma, c.c., relativo al rapporto fra il mandante e la persona sostituita dal mandatario nonché l’art. 1595, primo comma, c.c., inerente al rapporto fra il locatore e il subconduttore), dal tenore della norma contenuta nell’art. 1676 c.c. risulta che, venuti in essere tutti gli elementi sopra indicati, necessari per il sorgere della fattispecie, immediatamente si determina la nascita di un rapporto diretto fra i lavoratori e il committente, che si aggiunge, sovrapponendosi, all’originario rapporto e che impedisce a quest’ultimo, una volta che il committente ne sia stato reso edotto tramite la domanda rivoltagli, di spiegare l’efficacia sua propria (ciò in vista della sua definitiva estinzione, i cui effetti si consumano con il pagamento eseguito ai lavoratori).
Come è stato osservato in dottrina, infatti, dal giorno in cui è proposta la domanda (che non è necessariamente quella giudiziale) e fino a quello del definitivo pagamento, all’iniziale rapporto di credito fra l’appaltatore e il committente si affianca un nuovo e connesso rapporto, quello fra gli ausiliari dell’appaltatore e il committente: soggetto, quest’ultimo, che per espressa volontà della legge diventa diretto debitore dei lavoratori (come garante ex lege, come si afferma da taluno, o in virtù di un accollo ex lege, come si sostiene da altri) in aggiunta all’appaltatore-datore di lavoro, unico originario debitore.
La previsione di questo particolare meccanismo, come è stato osservato dalla dottrina, ha fondamento in una finalità di natura preminentemente sociale, dato che il legislatore ha voluto predisporre uno strumento che è rivolto a tutelare una categoria di soggetti particolarmente deboli, come sono i lavoratori subordinati, per preservarli dal rischio dell’inadempimento o, peggio ancora, dell’insolvenza del datore di lavoro e che va equiparato, attesa la sud caratteristica collegata alla peculiare funzione, a quelle figure giuridiche, come i privilegi, che sono automaticamente destinate dalla legge a rafforzare, per coloro che si trovano in una determinata situazione, la garanzia generica che tutti i creditori hanno sul patrimonio del loro debitore.
Ratio della disposizione di legge è, quindi, non tanto quella delineata nel presente giudizio dalla difesa del fallimento – la quale, come si è visto, fa riferimento all’esigenza di attribuire ai dipendenti dell’appaltatore un mezzo più rapido per il soddisfacimento delle loro pretese, sostenendo che tale esigenza sarebbe realizzata mediante l’attuazione del principio di “contemporaneità” fra l’accertamento del credito e la successiva esecuzione – quanto quella di garantire agli ausiliari dell’appaltatore, proprio in relazione ad una attività lavorativa prestata per l’esecuzione dell’opera o del servizio appaltati al loro datore di lavoro, il pagamento della retribuzione dovuta per quella determinata attività, in modo da sottrarre il soddisfacimento del relativo diritto al rischio dell’insolvenza del debitore.
Del resto, come pure é stato sottolineato dalla dottrina, la possibilità offerta dalla legge ad una determinata categoria di lavoratori – quelli che hanno prestato la loro attività per quel determinato appalto e nell’interesse di colui che lo ha commissionato – con l’attribuzione ai medesimi di un’azione eccezionale, che permette di soddisfare il credito vantato verso il datore di lavoro mediante il diretto pagamento eseguito dal committente (e senza necessità di far transitare nel patrimonio dell’appaltatore le somme a questi dovute), trova giustificazione proprio nel beneficio che il committente trae dai risultati conseguiti dallo svolgimento di quella particolare attività.
Il che implica, per un verso, che l’appaltatore, dopo la richiesta rivolta dai suoi ausiliari al committente, non può pretendere da questo l’adempimento (né può promuovere nei confronti del medesimo l’esecuzione forzata qualora fosse già munito di un titolo esecutivo) e, per un altro verso, che gli altri creditori dell’appaltatore, che pure hanno la possibilità di soddisfarsi sulle somme dovute dal committente previo esercizio dell’azione surrogataria, tuttavia perdono questa facoltà qualora da parte degli aventi diritto sia stata già esercitata l’azione di cui si discute. Si consideri, d’altra parte, quanto sopra è stato già rilevato, e cioè che il pagamento fatto dal committente agli ausiliari dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1676 c.c. estingue, in corrispondenza della somma versata, sia il debito del medesimo committente verso l’appaltatore, sia il debito di quest’ultimo verso i lavoratori.
Questi principi ricevono applicazione anche nel caso della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore-datore di lavoro.
Posto che l’esercizio dell’azione da parte degli ausiliari impedisce qualsiasi altra iniziativa individuale – non importa se proveniente dall’appaltatore o dagli altri suoi creditori e senza che possa avere rilievo il mezzo processuale impiegato alle stesse conclusioni deve pervenirsi qualora intervenga il fallimento dell’appaltatore, l’esecuzione collettiva non differendo, quanto alla natura e ai limiti che incontra, da quella individuale. E si deve, quindi, affermare che, ai fini di cui si discute, l’apertura del procedimento concorsuale non può incidere sulla posizione di quei lavoratori che hanno già esperito l’azione prevista dalla norma di legge in esame, giacché, se si ritenesse il contrario, si finirebbe con il disconoscere la concreta finalità perseguita dalla legge; sicché, dovendosi escludere che il soddisfacimento delle pretese vantate dagli altri creditori possa essere conseguito con nocumento delle ragioni di quei lavoratori che hanno prestato la loro attività per l’esecuzione dell’opera o del servizio appaltati e che fanno affidamento sulle somme dovute dal committente per tale esecuzione si deve asserire che, se l’azione sia stata già promossa, non ricorre nei confronti della stessa alcun profilo di improcedibilità.
D’altra parte, se si tiene conto del fatto che l’azione ex art. 1676 c.c., che è, per espressa previsione di legge, diretta, incide, in quanto tale, direttamente sul patrimonio di un terzo (il committente) e solo indirettamente su un credito del debitore fallito (del quale, proprio a causa di niella azione, è impedito il realizzo), si comprende come l’apertura del procedimento fallimentare non possa spiegare effetti sulle ragioni vantate dai lavoratori; e non vale, per conseguenza, invocare gli artt. 51 e 52 del r.d. 16 luglio 1942, n. 267, essendo del tutto estranea al fallimento una iniziativa già intrapresa da una particolare categoria di creditori (ai quali dalla legge è accordata una specifica tutela) e tendente al conseguimento di una somma che, non essendo stata ancora corrisposta all’originario creditore, fa parte del patrimonio non già del datore di lavoro fallito, ma del committente (il quale, come é stato sottolineato dalla dottrina, è terzo rispetto al fallimento).
Ai risultati interpretativi finora esposti è già pervenuta questa Corte della sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984, indicata dai ricorrenti. In tale sentenza, a conclusione delle argomentazioni svolte per individuare la natura dell’azione prevista dall’art. 1676 c.c., é stato affermato che “l’apertura del procedimento concorsuale non può precludere l’esperimento di una azione tra terzi. espressamente accordata dalla legge”; ed è stato aggiunto che, se è vero che l’art. 52 della legge fallimentare – che va letto in unione con il precedente art. 51, dettato per le azioni esecutive – apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, impedendo l’esercizio di azioni proposte contro quest’ultimo in sedi diverse da quelle sue proprie, è altrettanto vero che uguale effetto il medesimo articolo di legge non può avere “per le azioni autonome tra terzi, quali l’ausiliario e il committente”, in relazione a somme di danaro che, prima dei pagamento, ancora si trovano nel patrimonio del committente. Conclusioni, codeste, che sono state poi riprese da questa Corte in successive pronunce, nelle quali, allo scopo di determinare la competenza del giudice del lavoro nella controversia promossa dai lavoratori contro il committente, è stato sostenuto che l’azione “è del tutto autonoma da quella esperibile nei confronti dell’appaltatore-datore di lavoro e può dunque esplicarsi davanti al giudice del lavoro anche in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultimo” (Cass. 24 ottobre 1996 n. 9303, Cass. 14 maggio 1998 n, 4897 e Cass. 14 dicembre 1998 n. 12551; cfr. in precedenza anche Cass. 6 giugno 1983 n. 3855).
Dai rilievi fin qui esposti deriva che il sospetto di incostituzionalità dell’art. 1676 C.C. nell’interpretazione che ne è stata data dal Tribunale, prospettato dalla difesa del fallimento ricorrente, non ha ragion d’essere.
Considerato che l’art. 3 della Costituzione nella lettura fattane dalla suddetta difesa in corrispondenza con il principio della par condicio creditorum che presiede le procedure esecutive concorsuali – non può ritenersi violato in presenza di situazioni disomogenee che giustificano una differente disciplina (causata da una precisa scelta di politica legislativa adottata dal legislatore) e considerato, quindi, che la ricorrenza di tali situazioni non può determinare alcun profilo di irrazionalità nel significato dato ad una disposizione di legge, é a dirsi che proprio l’interpretazione data alla norma dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento in tema di tutela del lavoro, in tutte le sue articolazioni, quali si desumono dagli artt. 4, 35 e 36 della Costituzione; con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale dedotta dal fallimento della società I. s.p.a. deve essere dichiarata manifestamente infondata, non essendo irrazionale una norma che accorda uno specifico beneficia a determinati lavoratori, anche rispetto ad altri, in relazione alla attività lavorativa dai medesimi espletata e dalla quale un altro soggetto (il committente, parte del contratto di appalto stipulato con il loro datore di lavoro) ha ricavato un particolare vantaggio.
Le argomentazioni finora svolte, unitariamente considerate, esimono la Corte dal confutare singolarmente tutte le censure dedotte nei due ricorsi sopra indicate con le lettere da a) ad l). Qui va solamente aggiunto che l’articolata conclusione alla quale si perviene in entrambi i ricorsi – la necessità che sia attuato, a causa della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, il concorso di tutti i creditori, l’impossibilità che sia sottratta all’esecuzione concorsuale una parte del patrimonio della società, la pretesa natura esecutiva dell’azione prevista dall’art. 1676 c.c. (la quale, come tale, non potrebbe sopravvivere al fallimento), il fatto che i lavoratori possono ottenere dal committente il pagamento di somme il cui ammontare non superi il credito vantato dall’appaltatore – e frutto di uria non corretta premessa, giacché ambedue i ricorrenti, pur affermando di voler aderire alla tesi secondo cui l’azione accordata dalla legge ai lavoratori, al contrario di quanto è previsto per l’azione surrogatoria, è diretta e autonoma, poi mostrano, in concreto, di dissentirne, come è prova la proposizione, esposta in entrambi. i ricorsi, secondo cui la domanda degli ausiliari dell’appaltatore contro il committente determina le medesime conseguenze del pignoramento presso terzi del credito del datore di lavoro. Con tale proposizione, infatti, si trascura di considerare che il diritto riconosciuto dalla legge ai lavoratori, ricorrendo tutte le condizioni contemplate dalla legge, sorge in capo ai medesimi lavoratori, per affiancarsi, allo scopo di sostituirlo nel momento in cui é eseguito il pagamento, al diritto che già esiste in capo all’appaltatore; e, inoltre, si finisce con il confondere l’azione esecutiva – che viene promossa, anche presso terzi, su un elemento attivo del patrimonio del datore di lavoro e che resta travolta dal fallimento del debitore – con l’azione di cognizione attribuita a determinati soggetti, nei confronti di un terzo, per l’accertamento di un diritto che è loro direttamente riconosciuto dalla legge.
Resta, infine, da esaminare l’ultima censura (indicata con lettera m) dedotta dal Ministero delle Finanze, con la quale quest’ultimo sostiene, come si è detto, che alcune delle lavoratrici che hanno proposto l’azione ex art. 1616 c.c. non avrebbero “mai prestato attività di servizio di pulizia nei locali di proprietà dell’amministrazione finanziaria”.
Per disattendere anche questa censura, basta, da un lato, richiamare l’accertamento compiuto nella sentenza impugnata, nella quale è stato affermato che la prova della “prestazione dell’attività lavorativa presso il Ministero da parte degli appellati” era emersa dai documenti prodotti in giudizio e, soprattutto, dalla deposizione della teste Viventi, funzionaria della medesima amministrazione; e, dall’altro, rilevare che, a fronte di siffatto accertamento, il ricorrente, lungi dal precisare, in concreto, il vizio di omessa o insufficiente motivazione (con l’indicazione di risultanze probatorie non valutate o insufficientemente valutate), si limita a fornire un apprezzamento delle prove diverso da quello compiuto dal giudice di appello.
Ciò posto, passando all’esame del terzo motivo del ricorso proposto dal fallimento. quest’ultimo, nel denunciare la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2906 c.c., 686 c.p.c., 42 e 51 della legge fallimentare, oltre al vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.), sostiene che il Tribunale non avrebbe dato adeguata risposta alle censure (dedotte nell’atto di appello) inerenti al provvedimento di sequestro del credito vantato dalla società I. s.p.a. verso il Ministero delle Finanze, chiesto dai lavoratori ed autorizzato dal Pretore di Roma prima dell’inizio del presente giudizio.
Il ricorrente, in particolare, sottolinea che dal provvedimento autorizzativo del sequestro era derivato un vincolo di indisponibilità sulle somme dovute dal Ministero all’appaltatore, con la conseguenza che, una volta dichiarato il fallimento del debitore, le somme sequestrate, essendo confluite automaticamente nella procedura concorsuale, non potevano essere attribuite ai creditori sequestranti.
Anche questo motivo è privo di fondamento.
Dalle scarne indicazioni fornite dalle parti e dalle altrettanto scarne argomentazioni subite sul punto nella sentenza impugnata, non si riesce compiutamente a comprendere se il provvedimento di sequestro conservativo sulle somme dovute alla società I. s.p.a. dal Ministero delle Finanze fosse stato autorizzata (prima dell’inizio della causa di merito, come è pacifico) a favore dei lavoratori in relazione al credito diretta dagli stessi vantato nei confronti del medesimo Ministero in base all’art. 1676 c.c. – sicché, in tal caso, si sarebbe trattato di un sequestro, su beni mobili, presso il debitore – o se, viceversa (come è più plausibile), il provvedimento del giudice avesse avuto per oggetto il credito della società I. s.p.a. nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
Ricorrendo questa seconda ipotesi, peraltro, non viene chiarito se fosse stata posto in essere lo Speciale procedimento prevista dalla legge per il sequestro presso terzi e, in particolare, se il Ministero delle Finanze avesse, o no, reso la prescritta dichiarazione a norma dell’art. 543 e segg. c.p.c., richiamati dal successivo art. 678 (v., in particolare, l’art. 598 c.p.c., relativo alla mancata comparizione del terzo o al rifiuto di questo a rendere la dichiarazione o alla eventualità che sulla dichiarazione sorgano contestazioni).
In questa situazione di evidente incertezza, le censure dedotte dai fallimento ricorrente non possono trovare accoglimento.
Qualora si fosse realizzata la prima delle due ipotesi sopra delineate (il sequestro presso il debitore-Ministero delle Finanze di beni mobili di proprietà del medesimo), la decisione emessa dal Tribunale dovrebbe rimanere ferma, perché, una volta che sono stati accertati (e liquidati) i crediti fatti valere dai lavoratori direttamente nei confronti dell’amministrazione convenuta, é evidente che la conseguenza non potrebbe che essere quella individuata nella sentenza, impugnata, essendoti il sequestro convertito in pignoramento, a norma dell’art. 686 c.p.c., in danno del debitore nel momento in cui è stata emessa la sentenza di condanna, esecutiva, a conclusione del giudizio di primo grado.
Al contrario, se si fosse realizzata la seconda eventualità (il sequestro di un credito della debitrice società ***** s.p.a., nei confronti del terzo Ministero delle Finanze), a parte che, come è stato sopra esposto, manca in causa qualsiasi indicazione per stabilire se la misura cautelare fosse stata legittimamente eseguita (e il relativo procedimento portato a compimento), non si sarebbe realizzata alcuna possibilità di conversione del sequestro in pignoramento, dato che, come è stato esposto in narrativa, la pronuncia di condanna emessa dal primo giudice a favore dei lavoratori e a carico della società I. s.p.a. è stata travolta dalla decisione, non impugnata da chi ne aveva interesse, con la quale il Tribunale ha dichiarata l’improcedibilità della domanda proposta dai lavoratori “nei confronti del fallimento”. E, anche se si ritenesse il contrario, la conclusione non potrebbe essere diversa, dal momento che, essendo stata la pronuncia dichiarativa di fallimento della società I. s.p.a. emanata, come è pacifico, soltanto dopo che i lavoratori avevano esercitato contro il Ministero l’azione prevista dall’art. 1675 c.c., la priorità della proposizione di tale azione, come è stato spiegato nella trattazione del primo motivo, aveva impedito al fallimento di acquisire all’attivo le somme di danaro di cui si discute.
Va, da ultimo, esaminato il secondo motivo (indicato con i numeri 3 e 4) dell’impugnazione proposta dal Ministero delle Finanze, con il quale quest’ultimo, nel dedurre la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1676 c.c. e il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.), sostiene:
a) che le somme sottoposte a sequestro dai lavoratori attenevano non già ad un contratto di appalto “validamente efficace fra le parti”, ma “alla esecuzione di una attività di servizio di pulizia di locali, svolta solo in via de facto”, non essendo mai “intervenuto un atto di approvazione dello schema di contratto” né risultando che fosse stato emanato un atto di riconoscimento di spesa;
b) che, d’altra parte, anche a ritenere che un contratto fosse stato stipulato, il credito della società appaltatrice non era né certo né liquido né esigibile, dato che la procedura contabile non aveva esaurito il suo iter attraverso la fase dell’impegno di spesa, della liquidazione e dell’ordinazione del pagamento e dato che l’opera svolta non era stata sottoposta, ai sensi dell’art. 351 della legge n. 2248 all. F, a collaudo;
c) che da parte dell’amministrazione finanziaria accorreva effettuare l’accertamento “di eventuali partite di controcrediti, come, del resto, era stato fatto presente al Tribunale nella memoria difensiva del 24 novembre 1998, con la conseguenza che errata è la pronuncia con la quale è stata dichiarata l’inammissibilità delta eccezione di compensazione in quanto irritualmente dedotta, anche perché l’eccezione in questione doveva ritenersi implicitamente compresa nella eccepita inammissibilità di qualsiasi statuizione di condanna senza il necessario riconoscimento del debito nella competente sede amministrativa”.
Anche queste censure sono infondate.
Quanto alla prima, è a dirsi che il ricorrente, dopo avere (implicitamente) dato atto che il contratto di appalto avente per oggetto il servizio di pulizia dei locali del CESID era stato stipulato fra le parti, nemmeno indica per quale ragione la pattuizione sarebbe rimasta priva di effetti (dato che solamente accenna, in modo del tutto generico, alla necessità di un provvedimento di. approvazione, senza peraltro di tale atto specificare la provenienza e, soprattutto, i tempi). Su questo punto della controversia, d’altra parte, sussiste l’accertamento compiuto dal Tribunale, il quale, senza adeguata smentita (mediante l’allegazione, in concreto, di elementi probatori asseritamente non esaminati nella sentenza), ha osservato che “la prova della sottoscrizione e dell’esistenza di un regolare contratto di appalta l’ha fornita lo stessa Ministero, che ha allegata al proprio fascicolo due contratti, di cui il secondo integrativo”.
Riguardo alla seconda censura, poi, va richiamato quanto è stato esposto da questa Corte sia nella (non recente) sentenza n. 3870 del 19 ottobre 1954, sia nella più vicina sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984 (già più volte indicata).
Nella prima di tali sentenze é stato affermato che l’art. 1676 c.c. trova applicazione anche in relazione agli appalti regolati dalla l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F sui lavori pubblici, col solo limite prevista dall’art. 351 di tale legge, dato che l’azione diretta degli ausiliari dell’appaltatore contro la pubblica amministrazione non può essere esercitata durante l’esecuzione delle opere appaltate.
In applicazione di questo principio, quindi, si deve ritenere l’ammissibilità dell’azione promossa dai lavoratori nel presente giudizio, giacché, posto che l’appalto del servizio di pulizia nei locali del CESID era stato compiutamente eseguito, come ha accertato il Tribunale, il ricorrente non ha investito con una apposita censura l’assunto, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui, attesa la natura del servizio appaltato alla società *** s.p.a., l’attività di collaudo non doveva essere espletata.
Nella seconda sentenza è stato precisato che, essendo le norme dettate dal codice civile in tema di appalto applicabili, salvo che non sia espressamente previsto il contrario, anche alle convenzioni stipulate con le pubbliche amministrazioni, l’importanza che la norma contenuta nell’art. 1676 c.c. ha in materia di tutela dei lavoratori trova puntuale riscontro – anche negli appalti per opere eseguite o per servizi. svolti, per conto di una pubblica amministrazione – nell’art. 357 della l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F, la quale espressamente stabilisce che l’amministrazione può “pagare direttamente la mercede giornaliera degli operai” dell’impresa appaltatrice, non corrisposta alle previste scadenze; ed è stato aggiunto che l’art. 351 della medesima legge, che limita la possibilità del sequestro “sul prezzo di appalto”, non può estendere il suo campo di applicazione all’azione diretta, contemplata dal suddetto art. 1676 c.c., giacché la norma, unitamente a quella di cui all’art. 357, sopra indicata, “manifesta, al contrario, la configurabilità di rapporti diretti tra gli ausiliari dell’appaltatore e l’ente committente”.
Considerazione, codesta, che nel caso in esame deve essere recepita per ritenere che, propria per la natura dell’azione e per la finalità che la stessa persegue, non passa trovare spazia la normativa relativa alla osservanza delle norme sulla contabilità.
Della terza censura, infine, va rilevata l’estrema genericità, perché non viene nemmeno chiarito se fra le parti fossero esistenti partite di dare ed avere inerenti al medesimo rapporto o contrapposti crediti relativi a rapporti diversi con la conseguenza che ora non può essere sottoposta a sindacato l’affermazione del Tribunale secondo cui l’eccezione di compensazione non poteva essere esaminata nel merito per non essere stata dedotta, ai sensi degli artt. 1242, primo comma, c.c. e 416 c.p.c., nella memoria difensiva del giudizio di primo grado (cfr. Cass. 25 maggio 1995 n. 5757).
Tenuto conto di tutte le argomentazioni che precedono, poiché la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure dedotte, i ricorsi proposti dal fallimento della società ***. s.p.a. e dal Ministero delle Finanze debbono essere rigettati e i ricorrenti, rimasti soccombenti, debbono essere condannati a pagare, in solido, alle controricorrenti le spese del presente giudizio. Non deve essere emesso alcun provvedimento sulle spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva.
(omissis)”
Va da sé che la stazione appaltante avrà facoltà di escutere la cauzione definitiva presentata dalla ditta esecutrice
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento