(Riferimento normativo: D.lgs. n. 285/1992, art. 186, c. 7)
Il fatto
La Corte di appello di Trieste, in accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero, riformava parzialmente la pronuncia di primo grado aumentando la pena irrogata all’imputato e, decidendo anche sull’impugnazione di quest’ultimo, confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale il Tribunale della stessa città aveva condannato C.M. in relazione ai reati di cui all’art. 186 C.d.S., comma 7, (capo a), artt. 81 e 341 bis c.p. (capo b), per essersi rifiutato di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia di Stato che lo avevano fermato dopo che lo stesso era stato visto alla guida di un motociclo ape, nonché per avere offeso, in presenza di più persone, il prestigio dei due poliziotti che lo avevano fermato, G.N. e B.A..
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza presentava ricorso per Cassazione l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale aveva a sua volta dedotto i seguenti due motivi: a) violazione di legge, in relazione al contestato art. 186 C.d.S., comma 7, per avere la Corte territoriale confermato la condanna dell’imputato in relazione al reato di cui al capo d’imputazione a) benché fosse risultato che lo stesso era stato fermato dopo aver parcheggiato la sua ape, essere entrato in un bar ed essere poi uscito dal locale, dunque quando doveva essere considerato un mero pedone e non un conducente di un veicolo; b) violazione di legge, in relazione all’art. 341 bis c.p., per avere la Corte distrettuale confermato la sentenza di condanna di primo grado nonostante non fosse risultato provato che le persone presenti avessero percepito le frasi oltraggiose pronunciate dal C., peraltro rivolte all’indirizzo non dei due agenti di polizia, ma degli ignoti autori dell’imbrattamento di un monumento.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il ricorso proposto veniva rigettato alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava a tal proposito – dopo avere rilevato che l’art. 186 C.d.S., comma 7, sanziona la condotta del “conducente” di un mezzo che rifiuta di sottoporsi all’esame alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia in caso di incidente stradale ovvero “quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool” – come sia di tutta evidenza che il termine “conducente” si riferisca a colui che guida o che ha guidato – fino a poco prima della richiesta degli agenti di polizia – un veicolo come si desume, oltre che dal significato letterale della norma incriminatrice, anche dal divieto, fissato dal comma 1 dello stesso articolo, di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche che, ad avviso della Corte, indica chiaramente come sia genericamente vietata qualsivoglia conduzione di veicoli nella fase in cui le capacità percettive e reattive possono essere negativamente condizionate da una precedente assunzione di quelle bevande.
Oltre a quanto sin qui esposto, gli Ermellini osservavano come in questo senso si fosse espressa anche la stessa giurisprudenza della Cassazione per la quale, ai fini del reato di guida in stato di ebbrezza, rientra nella “nozione di guida” la condotta di chi si trovi all’interno del veicolo (nella specie, in stato di alterazione, nell’atto di dormire con le mani e la testa poste sul volante) quando sia accertato che egli abbia, in precedenza, deliberatamente movimentato il mezzo in area pubblica o quantomeno destinata al pubblico (Sez. 7, n. 10476 del 20/01/2010) così come in senso conforme è stato sostenuto che, in materia di circolazione stradale, deve ritenersi che la “fermata” costituisca una fase della circolazione talché è del tutto irrilevante, ai fini della contestazione del reato di guida in stato di ebbrezza, se il veicolo condotto dall’imputato risultato positivo all’alcoltest fosse, al momento dell’effettuazione del controllo, fermo ovvero in moto (Sez. 4, n. 37631 del 25/09/2007).
Alla luce di siffatti criteri ermeneutici, i giudici di piazza Cavour ritenevano come dovesse escludersi nel caso di specie la configurabilità della denunciata violazione di legge avendo la Corte di appello di Trieste evidenziato nella sentenza oggetto di impugnazione che – come videoregistrato da una camera posta nelle vicinanze – l’imputato era stato fermato dagli agenti di polizia la notte del 22 aprile 2013 verso le 22.57 dopo che lo stesso, alle 22.55, era stato videoripreso alla guida del suo motociclo ape in movimento nella piazza ove il mezzo era stato poi parcheggiato con le quattro luci accese.
A fronte di ciò, secondo la Corte, solo con un inammissibile salto logico sarebbe stato possibile affermare – così come sostenuto nell’atto di impugnazione – che, dopo aver parcheggiato, il veicolo il C. avesse perso la sua qualità di conducente diventando mero pedone della strada posto che era stato visto alla guida dell’ape pochi attimi prima di essere stato fermato dai poliziotti che lo aveva così notato in evidente stato di ebbrezza alcolica e che, perciò, avevano deciso di sottoporlo all’alcoltest tenuto conto altresì del fatto che, solamente con il ricorso per cassazione, l’imputato aveva prospettato di essere stato fermato dagli agenti poco dopo essere uscito dal bar dove aveva consumato un bicchiere di vino quasi a voler rappresentare (invero, per la prima volta) che lo stato di ebbrezza fosse sopravvenuto rispetto al momento della guida del veicolo ma, ad avviso del Supremo Consesso, questa soluzione ricostruttiva dei fatti era stata offerta dall’impugnante in maniera solo congetturale il che rendeva la relativa doglianza non ammissibile considerato che l’imputato non aveva dedotto alcun vizio di motivazione e che tale diversa ricostruzione dei fatti era stata fornita come eventuale, senza alcun concreto aggancio ad emergenze processuali, della cui mancata valutazione da parte dei giudici di merito il ricorrente non si era neppure lamentato.
Ciò posto, venendo a trattare il secondo motivo del ricorso, questo veniva reputato inammissibile perché, ad opinione della Suprema Corte, presentato per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge posto che l’imputato aveva formulato una serie di doglianze che, al di là del dato enunciativo, si risolvevano in non consentite censure in fatto all’apparato argomentativo su cui fondava la sentenza gravata, prospettando una diversa e alternativa lettura degli acquisiti elementi informativi ossia una cosa non consentita in sede di legittimità.
Al contrario, secondo la Cassazione, con una convincente motivazione, nella quale non era riconoscibile alcun vizio di illogicità, la Corte territoriale aveva spiegato come il reato di oltraggio a pubblici ufficiali fosse nella fattispecie configurabile atteso che era stato dimostrato che le frasi offensive e minacciose erano state rivolte dall’imputato proprio all’indirizzo dei due agenti di polizia attraverso una ricostruzione del fatto non frutto di alcun travisamento delle prove e, rispetto alla quale, l’imputato con il ricorso si era limitato a fornire, peraltro in termini molto generici, una versione meramente alternativa.
Da ultimo si segnalava come non fosse nemmeno configurabile una violazione di legge in ordine alla riconosciuta percepibilità delle offese da parte dei presenti in quanto è pacifico negli orientamenti interpretativi elaborati in sede nomofilattica che, ai fini della configurabilità del reato di oltraggio di cui all’art. 341-bis c.p., è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la P.A. di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie (così Sez. 6, n. 19010 del 28/03/2017; Sez. 6, n. 15440 del 17/03/2016).
Conclusioni
La decisione qui in commento è assai interessante nella parte in cui viene postulato che può commettere il reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento del livello alcolemico riguarda non solo colui che guida un’autovettura, ma anche chi ha guidato – fino a poco prima della richiesta degli agenti di polizia – un veicolo.
Va da sé dunque che elaborare una strategia difensiva che invece sostenga la non configurabilità di questo illecito penale nel secondo caso appena menzionato incontra il rischio di non garantire un esito positivo per il proprio assistito, e ciò proprio alla luce di quanto enunciato in tale pronuncia.
Siffatta decisione, pertanto, deve essere presa nella dovuta considerazione ove si verifichino situazioni analoghe a quella trattata in questa sentenza.
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