(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 599-bis)
Il fatto
L’imputato impugnava la sentenza con la quale, in esito a giudizio abbreviato, la Corte di Appello di Bari, esclusa la recidiva, gli aveva applicato – a seguito di rinuncia ai motivi di appello in punto di qualificazione giuridica del fatto – previo concordato con il Procuratore generale, la pena di anni quattro di reclusione ed Euro 14.000,00 di multa, in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.
La Corte distrettuale, praticata la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche sulla pena di anni otto di reclusione, difatti, era pervenuta alla pena di anni sei di reclusione e, con la diminuente del rito, alla rideterminazione, nella misura indicata, del trattamento punitivo, con una statuizione che aveva comportato la revoca della disposta interdizione legale e la sostituzione della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella di anni cinque.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Con unico motivo di ricorso il ricorrente denunciava l’illegalità sopravvenuta della pena inflittagli per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 40 del 23 gennaio 2019 con la quale il Giudice delle leggi ha dichiarato la illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, in conseguenza della quale, il minimo della pena detentiva, sulla quale è stato ragguagliato il trattamento sanzionatorio inflitto al ricorrente, è ora previsto in anni sei di reclusione anziché in anni otto di reclusione.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il ricorso veniva ritenuto fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come la Corte Costituzionale, con sentenza n. 40 del 23 gennaio 2019, depositata in data 8 marzo 2019 e pubblicata il 13 marzo 2019, avesse dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, il cui reato era contestato all’imputato, nella parte in cui prevedeva un minimo edittale di otto anziché sei anni di reclusione, limite quest’ultimo già rinvenibile nell’ordinamento e ritenuto più adeguato ai fatti “di confine” nel sistema punitivo dei reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti.
Premesso ciò, gli Ermellini evidenziavano come, secondo i principi affermati dalle Sezioni Unite (sentenza n. 33040 del 26/02/2015), è illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato sui limiti edittali del citato art. 73, comma 1, in vigore al momento del fatto ma dichiarato successivamente incostituzionale anche nel caso in cui l’oggetto della statuizione sia costituito dal solo trattamento sanzionatorio atteso che la radicale modifica del quadro normativo di riferimento impone la rivalutazione delle situazioni giudicate ed oggetto di ricorso alla luce dei principi sulla successione di leggi nel tempo dettati dall’art. 2 c.p., comma 4, nonché dall’art. 7, par. 1, CEDU, secondo cui l’imputato ha diritto di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza fino a che non sia intervenuta sentenza passata in giudicato.
Tal che se ne faceva conseguire la sopravvenuta illegalità della pena determinata nel caso di specie essendo stata determinata sulla base di parametri edittali in vigore al momento del fatto – su pena base detentiva di anni otto di reclusione – successivamente dichiarati incostituzionali con la citata sentenza del giudice delle leggi.
Rilevava tuttavia il Supremo Consesso come non potesse trovare accoglimento la richiesta del difensore di rideterminare il trattamento sanzionatorio inflitto al ricorrente in quanto la pena applicata ha il proprio fondamento genetico nell’accordo tra le parti che, a seguito della sopravvenuta illegalità, deve essere rinnovato; dunque, alla stregua di ciò,
la sentenza impugnata, ad avviso della Corte, doveva essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Bari.
Nel decidere in tal senso, i giudici di piazza Cavour ritenevano però necessario esplicitare le ragioni del disposto annullamento con rinvio in quanto nelle decisioni già assunte sempre in sede di legittimità ordinaria, nelle ipotesi di illegalità sopravvenuta della pena, pur con la precisazione che questa riguardava solo l’entità della pena, non era stata oggetto di esame esplicito la questione relativa agli effetti e, prima ancora alla portata, della decisione di annullamento fermo restando che tale questione era stata, invece, esaminata dalle Sezioni Unite in relazione alla sentenza di applicazione della pena di cui all’art. 444 c.p.p. in relazione alla quale si era pervenuti alla decisione secondo la quale, nel giudizio che segue ad annullamento senza rinvio della sentenza di patteggiamento determinato dall’illegalità della pena, le parti sono rimesse dinanzi al giudice nelle medesime condizioni in cui si trovavano prima dell’accordo annullato e pertanto non era a loro preclusa la possibilità di riproporlo, sia pure in termini diversi (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010).
Il quesito attineva, dunque, alla possibilità di ritenere, alimentando la sovrapposizione fra concordato in appello e patteggiamento ex art. 444 c.p.p., che trovasse applicazione la medesima conclusione in relazione alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p..
Orbene, in relazione a tale tematica processuale, i giudici di piazza Cavour facevano presente come la soluzione non fosse, tuttavia, univoca.
La disposizione di cui all’art. 610 c.p.p., comma 5-bis, sul procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione, se difatti accomuna ai fini delle modalità di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, la sentenza recettizia del concordato in appello a quella di applicazione pena, tuttavia, al di là di tale equiparazione, ad avviso del Supremo Consesso, non è dato rinvenire altri elementi comuni che possano far convergere su un comune epilogo decisorio in caso di annullamento della decisione da parte della Corte di legittimità.
In particolare, a differenza di quanto è stabilito dall’art. 448 c.p.p., comma 2-bis per la sentenza di applicazione della pena – che limita all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena e della misura di sicurezza -, non si rinviene invece un’analoga disciplina specifica sui margini di ricorribilità della sentenza recettizia del concordato in appello.
Di talché, alla stregua di ciò, gli Ermellini giungevano alla conclusione secondo cui il relativo regime impugnatorio e le sue conseguenze devono essere ricostruiti attraverso i principi generali tenendo conto delle peculiarità dell’istituto previsto dall’art. 599-bis c.p.p..
Pertanto, alla luce di questa premessa metodologica, dopo essere stato rilevato che Il procedimento ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p., introdotto con la L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 56, prevede un negozio giuridico complesso attraverso il quale le parti concordano sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello con rinuncia agli altri eventuali motivi e, se i motivi dei quali viene chiesto l’accoglimento comportano una nuova determinazione della pena, il pubblico ministero, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo, il comma 3 dell’art. 599-bis c.p.p., a sua volta, prevede che, se il giudice ritiene di non poter accogliere la richiesta, richiesta e rinuncia perdono effetto dandosi luogo alla citazione in dibattimento salva la possibilità della loro riproposizione in tale sede secondo la previsione dell’art. 602 c.p.p., comma 1 bis.
Ciò posto, una volta concluso questo excursus normativo, i giudici di legittimità ordinaria notavano come fosse proprio la valenza del “concordato sui motivi“, attraverso il meccanismo della rinuncia, più che quella di applicazione della pena, la caratteristica dell’istituto in esame ad essere stata evidenziata nella Relazione al disegno di L. n. 2798/C – presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 23 dicembre 2014 e base della novella -, valenza sottolineata per giustificare la reintroduzione, con modifiche, dell’istituto (ribattezzato nella prassi come “patteggiamento in appello“), già disciplinato nell’art. 599, commi 4 e 5 e art. 602, comma 2, dell’originario codice di rito ma il cui istituto era stato abrogato per le controverse applicazioni alle quali, nella prassi giudiziaria, aveva dato adito.
Si ricordava a tal proposito come, in via generale, la rinuncia, anche solo limitata ad alcuni dei motivi di impugnazione, secondo i principi informatori tipici del secondo grado di giudizio, fosse pienamente rispondente alla logica dispositiva ed alla struttura delle impugnazioni ove sono fortemente accentuati i poteri delle parti e tale rinuncia è, per principio assolutamente pacifico, irretrattabile, formandosi, per effetto delle preclusione, il giudicato sui relativi punti della decisione.
A loro volta la dottrina e la giurisprudenza si erano occupate della natura giuridica del cd. patteggiamento in appello per metterne in luce analogie e differenze, rispetto al patteggiamento di cui all’art. 444 c.p.p., individuando il punto di contatto dei due istituti nella matrice negoziale mentre nettamente distinte risultavano essere le altre caratteristiche, strutturali e funzionali degli istituti, quanto alla natura premiale, carente nel concordato in appello che rispondeva soprattutto ad una funzione deflattiva, ma anche alla controversa portata del successivo vaglio giurisdizionale del giudice a quo prima, e della Corte di legittimità poi sull’accordo, vertendo la verifica, nel patteggiamento in appello, sui soli motivi patteggiati e sulle questioni rilevabili di ufficio, con netta esclusione dei motivi rinunciati.
Dal canto suo la giurisprudenza della Cassazione aveva valorizzato la natura pubblicistica del cd. patteggiamento in appello affermando che, per la sua validità, era necessario che le parti appellanti rinunciassero a tutti i motivi non rientranti nella categoria di quelli per i quali si è chiesto concordemente l’accoglimento in guisa da esaurire tutto il devolutum (cfr. Sez. 6, n. 6011 del 01/04/1996) pena la nullità di un accordo parziale che, nei motivi rinunciati e nella pena concordata, non lo si esaurisse.
Esaminando, in particolare, l’accordo sui motivi di appello, gli Ermellini rilevavano come le Sezioni Unite avessero affermato che le parti, attraverso l’istituto di cui all’art. 599 c.p.p., comma 4, esercitano il potere dispositivo loro riconosciuto dalla legge, dando vita a un negozio processuale liberamente stipulato che, una volta consacrato nella decisione del giudice, non può essere unilateralmente modificato – salva l’ipotesi di illegalità della pena concordata – da chi lo ha promosso o vi ha aderito, mediante proposizione di apposito motivo di ricorso per cassazione (Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004) così come la consolidata giurisprudenza di legittimità aveva, altresì, precisato che, quando l’accordo implichi la rinuncia ad alcuni motivi deve ritenersi preclusa, in sede di legittimità, ogni questione ad essi relativa, al più con l’eccezione – peraltro non unanimemente condivisa delle questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
Particolarmente chiara, in materia, e ai fini della presente disamina, risultava essere una risalente sentenza secondo la quale, in virtù del disposto di cui all’art. 609 c.p.p., comma 2, il giudice di legittimità decide anche sulle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento al di fuori di quelle proposte con i motivi di ricorso ma tale principio non opera nell’ipotesi di concordato in appello allorquando le dette questioni siano state oggetto di motivi rinunciati sebbene poi riproposti, nonostante la rinuncia, in sede di legittimità, in quanto, nel vigente sistema processuale, avente i caratteri del sistema accusatorio, l’art. 599 c.p.p., comma 4, conferisce al potere dispositivo delle parti un effetto irretrattabile sull’ambito di cognizione del giudice di legittimità (Sez. 1, n. 16965 del 29/01/2003).
Controversa, era, inoltre, la portata dell’obbligo di motivazione del giudice in relazione alla verifica della inesistenza di cause di non punibilità, a norma dell’art. 129 c.p.p. e sull’ampiezza dell’onere di motivazione del giudice sui motivi concordati dato che se era largamente prevalente l’indirizzo di legittimità secondo il quale il giudice, nell’accogliere la richiesta avanzata a norma dell’art. 599 c.p.p., comma 4, non è tenuto a motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per taluna delle cause previste dall’art. 129 c.p.p., nè sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità della prova, in quanto, a causa dell’effetto devolutivo, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi d’impugnazione, la cognizione del giudice deve limitarsi ai motivi non rinunciati, essendovi peraltro una radicale diversità tra l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti e quello disciplinato dall’art. 599 c.p.p. (Sez. 6, n. 40573 del 30/09/2008), era minoritaria l’opposta opinione secondo la quale il giudice deve accertare l’insussistenza delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. ma a tal fine è sufficiente la motivazione consistente nella mera enunciazione di avere effettuato la relativa verifica ove non si consti, nè sia stata specificamente dedotta, l’esistenza di una delle condizioni che avrebbero imposto l’immediato proscioglimento (Sez. 5, n. 43367 del 24/09/2008).
Rilevato ciò, si metteva in risalto il fatto come la giurisprudenza, che finora si era occupata del nuovo istituto del concordato in appello, avesse condiviso tali indirizzi restrittivi dato che era pacifica l’affermazione secondo cui, a seguito della reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello ad opera della L. n. 103 del 2017, art. 1, comma 56, il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599-bis c.p.p., non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 c.p.p., nè sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove in quanto, a causa dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 5, n. 15505 del 19/03/2018 ribadita da Sez. 5, Ordinanza n. 29243 del 04/06/2018 in materia di applicazione dell’art. 129 c.p.p. e, in materia di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove, Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018).
Con riferimento al contenuto dell’accordo sulla pena, in una fattispecie relativa agli aumenti di pena a titolo di continuazione, si faceva presente come fosse stato affermato come sia inammissibile il ricorso per cassazione proposto in relazione alla misura della pena concordata atteso che il negozio processuale liberamente stipulato dalle parti, una volta consacrato nella decisione del giudice, non può essere unilateralmente modificato, salva l’ipotesi di illegalità della pena concordata (Sez. 5, n. 7333 del 13/11/2018).
Rimanda, invece, in relazione alla sentenza concordata ex art. 599-bis c.p.p., all’applicazione dei limiti di ricorso di cui all’art. 448 c.p.p., comma 2-bis, una pronuncia nella quale era stato affermato che, in tema di concordato in appello, è ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis c.p.p. che deduca motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati, alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. ed, altresì, a vizi attinenti alla determinazione della pena che non si siano trasfusi nella illegalità della sanzione inflitta in quanto non rientrante nei limiti edittali ovvero diversa dalla quella prevista dalla legge (Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019) fermo restando che tale orientamento, tuttavia, ad avviso della Corte, non poteva essere condiviso in quanto ritiene applicabili, in mancanza di espressa previsione ed in una materia caratterizzata dal sistema della tassatività, in materia di ricorso per cassazione i motivi che il legislatore ha previsto esclusivamente – ed in via derogatoria – per la sentenza di applicazione pena, enunciati dall’art. 448, comma 2-bis c.p.p..
Orbene, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la Cassazione stimava di dovere condividere i descritti approdi ermeneutici che portano ad escludere la piena applicabilità alla sentenza in materia di concordato in appello del regime di annullamento della sentenza di applicazione della pena che porta alla conclusione dell’annullamento, tout-court, dell’accordo convenuto tra le parti (cfr. in questo senso, ex multis Sez. 4, n. 38644 del 6/6/2019) di guisa che le parti sono rimesse davanti al giudice di appello nella posizione in cui si trovavano prima di adire il concordato, evenienza, questa, pure possibile ove la decisione della Cassazione sia relativa all’accoglimento di motivi di impugnazione che afferiscono al difforme contenuto della sentenza rispetto all’accordo tra le parti tenuto conto altresì del fatto che, in questo senso, si era espressa la giurisprudenza della Cassazione, seppur in risalenti sentenze relative alla mancata applicazione del beneficio della pena sospesa, oggetto di accordo, beneficio non concesso dal giudice per mancanza dei presupposti poiché, in tal caso, secondo il prevalente indirizzo di legittimità, il giudice non aveva scelta se non quella tra conformarsi all’accordo ovvero disattenderlo, procedendo al giudizio ordinario, in virtù della previsione recata dall’art. 599 c.p.p., comma 3 (cfr. per un’analisi delle pur diverse opzioni praticate in giurisprudenza Sez. 3, n. 5332 del 18/12/2007, dep. 2008).
Secondo la Corte sono invece irretrattabili e, pertanto, insuscettibili di costituire oggetto di ricorso per cassazione sono tutti i motivi rinunciati, siano essi relativi alla responsabilità, alla qualificazione giuridica del fatto, ed agli istituti che ineriscono al trattamento sanzionatorio o punitivo in generale posto che l’irretrattabilità non trova ostacolo nella previsione di cui all’art. 599-bis c.p.p., comma 3, – o in quella correlativa di cui all’art. 602 c.p.p., comma 1-bis – la cui portata è limitata alla fase di formazione dell’accordo tra le parti e trova il suo unico limite ontologico e di sistema nella irrogazione di una pena illegale poiché, in tal caso, ferma restando la rinuncia ai motivi e nel perimetro dell’accordo convenuto tra le parti nella applicazione dei correlativi istituti, è solo l’accordo sulla pena che deve essere annullato con rinvio al giudice per la ridefinizione del trattamento sanzionatorio; in altri termini, le richiamate previsioni riguardanti la formazione della fattispecie processuale in sede di appello non possono essere giustapposte all’epilogo decisorio in sede di legittimità che si limita a rilevare la illegalità della pena irrogata, rimuovendola, nè potrebbe farsi leva – a sostegno della tesi che qui si avversa – su una inscindibilità tout court delle diverse manifestazioni di volontà che possono concorrere a definire la fattispecie processuale in parola che non tiene conto della diversità strutturale della rinuncia ai motivi di appello da parte dell’imputato che li ha proposti la quale diviene efficace senza che vi concorra alcuna manifestazione di volontà dal P.G. al riguardo, fondandosi sulla sola volontà dispositiva dello stesso imputato.
Diverso, secondo il Supremo Consesso, è il caso dell’accordo sull’accoglimento di motivi che concorrano a definire la pena che le parti indicano al Giudice del gravame dove le convergenti manifestazioni di volontà delle parti e la pena che ne consegue risultano inscindibilmente collegati visto che non esiste ragionevole motivo per cui, in una materia retta dal principio dispositivo e in presenza della rinuncia ai motivi di impugnazione, la sopravvenuta illegalità della pena dovrebbe rimettere in discussione aspetti della res iudicanda ai quali il ricorrente aveva rinunciato trasformandoli in res iudicata, conclusione, questa, che, ad avviso della Corte, determina un irragionevole allungamento dei tempi di trattazione del processo in un sistema che assicura, anche in fase esecutiva, la possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di rideterminare la pena per la sua illegalità sopravvenuta, in favore del condannato. In tal senso le Sezioni Unite in materia di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e con riferimento all’intervenuto giudicato, hanno affermato che, fermo il giudicato quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, il giudice dell’esecuzione procede ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.p. e, solo in caso di mancato accordo, ovvero di pena concordata ritenuta incongrua, provvede autonomamente ai sensi degli artt. 132- 133 c.p. (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015).
L’annullamento della sentenza impugnata veniva pertanto limitato alla determinazione della pena che doveva essere cura del giudice di merito rideterminare a seguito di nuovo accordo, alla luce della esclusione della recidiva e dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, già oggetto di accordo tra le parti, sulla scorta del nuovo minino edittale previsto dalla fattispecie incriminatrice, come ritenuta e intangibile per effetto della rinuncia, irretrattabile, al motivo di impugnazione in punto di qualificazione giuridica procedendo, in caso di mancato accordo, autonomamente ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p. fermi restando, anche in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, i motivi rinunciati.
Conclusioni
La sentenza in esame è assai interessante in quanto chiarisce come ed entro quali limiti può essere impugnato il provvedimento con cui la Corte di Appello proceda al c.d. patteggiamento in appello.
Orbene, i margini entro cui poter impugnare un provvedimento di questo tipo, alla luce di quanto emerge in questa pronuncia, sono assai ristretti.
Difatti, secondo il Supremo Consesso, sono insuscettibili di costituire oggetto di ricorso per cassazione sono tutti i motivi rinunciati, siano essi relativi alla responsabilità, alla qualificazione giuridica del fatto, ed agli istituti che ineriscono al trattamento sanzionatorio o punitivo in generale posto che l’irretrattabilità non trova ostacolo nella previsione di cui all’art. 599-bis c.p.p., comma 3, – o in quella correlativa di cui all’art. 602 c.p.p., comma 1-bis – la cui portata è limitata alla fase di formazione dell’accordo tra le parti e trova il suo unico limite ontologico e di sistema nella irrogazione di una pena illegale fermo restando però che ciò non dovrebbe ricorrere nel caso di sopravvenuta illegalità della pena dato che, in fase esecutiva, il giudice dell’esecuzione può rideterminare la pena, per la sua illegalità sopravvenuta, in favore del condannato.
Al di là di tale specifico caso, ove la pena illegale sia stata oggetto dell’accordo, in sede di giudizio di rinvio, ove la nuova pena rideterminata in termini legali trovi il consenso delle parti, nulla quaestio, in quanto il giudice non dovrà fare altro che ratificare questo nuovo accordo tra le parti.
Invece, in caso contrario, ossia nell’ipotesi di mancato accordo, il giudice di rinvio dovrà procedere autonomamente ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p. fermi restando, anche in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, i motivi rinunciati.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, dunque, proprio perché fa chiarezza su tali tematiche processuali, non può che essere positivo.
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