SOMMARIO: 1. Il procedimento di ripartizione dell’attivo fallimentare: gli strumenti a tutela del creditore previsti dalla legge – 2. La vicenda che ha portato alla rimessione alle Sezioni Unite – 3. La prima questione: l’ammissibilità del ricorso in Cassazione ex art. 111, comma 7 Cost. avverso il decreto emesso dal Tribunale – 4. Il richiamo alla tesi contraria all’ammissibilità del ricorso ex art. 111, comma 7 Cost. accolta, in un obiter dictum, da Cassazione n. 12532/2014. La soluzione della prima questione in senso favorevole alla ricorribilità – 5. La seconda questione: i soggetti attivamente legittimati all’impugnativa del piano di riparto – 6. La decisione delle Sezioni Unite nel caso concreto e considerazioni conclusive
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Il procedimento di ripartizione dell’attivo fallimentare: gli strumenti a tutela del creditore previsti dalla legge
Ai sensi delle disposizioni contenute nel R.D. 16 marzo 1942, n. 267 rubricato Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (c.d. Legge Fallimentare, infra L.F.) in seguito alla sentenza dichiarativa di fallimento ha inizio una procedura scandita dalle seguenti fasi: la conservazione e l’amministrazione del patrimonio del fallito, l’accertamento del passivo, l’accertamento dell’attivo, la liquidazione dell’attivo e, infine, il riparto dell’attivo[1].
Quest’ultima fase è disciplinata dal Capo VII della L.F., dal quale emerge che la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni avviene di regola periodicamente, mediante ripartizioni parziali[2].
Più precisamente, l’art. 110 L.F. dispone che, a partire dalla data di deposito dello stato passivo o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato, il curatore presenti ogni quattro mesi un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione delle stesse, escluse quelle occorrenti per la procedura. Il giudice ordina il deposito di tale progetto presso la cancelleria, disponendo che a tutti i creditori – compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi previsti dall’art. 98 L.F. (opposizione allo stato passivo, impugnazione dei crediti ammessi o revocazione) – ne sia data comunicazione.
Quanto alla possibilità per i creditori di contestare il piano di ripartizione, la norma prevede che essi, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione, possano proporre reclamo al giudice delegato, ai sensi dell’art. 36. Decorso tale termine, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara esecutivo il progetto di ripartizione; qualora siano proposti reclami il progetto è dichiarato esecutivo con accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione. Sarà il provvedimento che decide sul reclamo a disporre anche sulla destinazione delle somme accantonate.
In virtù del richiamo all’art. 36, contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al Tribunale; tale norma esclude invece esplicitamente la possibilità di impugnare il provvedimento emesso del collegio avanti alla Corte di Appello, statuendo che il Tribunale decide “con decreto motivato non soggetto a gravame”[3].
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La vicenda che ha portato alla rimessione alle Sezioni Unite
Nella vicenda processuale che ha dato origine all’ordinanza interlocutoria n. 9250 del 13 aprile 2018, con cui la Prima sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’economia e dell’ambiente avevano proposto reclamo avverso il progetto di ripartizione parziale depositato dal commissario straordinario di una società per azioni, contestando la possibilità di procedere al riparto in quanto sarebbero stati titolari di un credito di natura prededucibile, da soddisfare pertanto in via preferenziale.
Il giudice delegato, accogliendo il reclamo, aveva disposto l’accantonamento integrale dell’attivo liquidato, in vista dell’accertamento dei pretesi crediti prededucibili all’esito del pendente parallelo giudizio di opposizione allo stato passivo.
Un creditore concorrente aveva, tuttavia, proposto reclamo avverso il decreto di accantonamento delle somme, che era stato accolto dal Tribunale. Quest’ultimo aveva rilevato, in particolare, che tenendo conto delle risultanze dello stato passivo non poteva tenersi in considerazione il credito vantato dalle Amministrazioni, escluso dal concorso e dunque senza titolo idoneo a fondare una pronuncia interinale di accantonamento, non essendo possibile includere i crediti degli opponenti allo stato passivo tra quelli di cui all’art. 110, comma 4, L.F., dal momento che la norma si riferirebbe esclusivamente ai crediti già inclusi nel piano di riparto, ancorché contestati.
A parere del Tribunale, nemmeno l’art. 113, comma 2, L.F. – che impone il trattenimento delle somme ritenute necessarie, tra l’altro, a soddisfare i debiti prededucibili nell’ambito delle ripartizioni parziali – avrebbe potuto essere invocato, poiché la nozione di credito prededucibile ivi contemplata si riferirebbe a poste non contestate o almeno già ammesse al passivo, sebbene non in via definitiva.
Dichiarato quindi esecutivo il piano di riparto depositato dal commissario, le Amministrazioni avevano proposto ricorso per Cassazione.
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La prima questione: l’ammissibilità del ricorso in Cassazione ex art. 111, comma 7 Cost. avverso il decreto emesso dal Tribunale
La prima questione controversa che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere concerne, pertanto, la stessa ricorribilità per Cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7 Cost., del decreto del Tribunale che, affermando l’esecutività del progetto di riparto, abbia negato il diritto all’accantonamento del quantum preteso da un creditore non ammesso allo stato passivo, ma che rivendichi, per altro titolo, la propria pretesa, da dichiarare in sede di riparto e perciò, ove negata, da correggere con la relativa impugnazione. Essendo esclusa l’impugnabilità del provvedimento dinanzi alla Corte di Appello per esplicita previsione normativa, come sopra visto, l’interrogativo concerne la possibilità di proporre ricorso straordinario dinanzi al giudice di legittimità in forza della previsione costituzionale secondo cui “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
Sebbene, infatti, il riferimento alla libertà personale sembrerebbe prima facie limitare l’esperibilità di tale mezzo di impugnazione all’ambito penale, la giurisprudenza è da sempre consolidata nel senso di estendere l’istituto anche alla materia civile, e in particolare con riferimento non solo alle sentenze ma anche agli altri provvedimenti giurisdizionali che presentino i caratteri della definitività e della decisorietà[4]. Più precisamente, il ricorso straordinario è ammissibile contro quei provvedimenti, per quanto attiene al primo profilo, che con riferimento ai quali “non siano soggetti (omissis) ad alcun altro rimedio” e, per quanto attiene al secondo, che “siano altresì diretti, (omissis), alla risoluzione di una controversia concernente diritti soggettivi o “status”, con piena attitudine a produrre, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale e processuale, così che la loro eventuale ingiustizia comporterebbe per le parti un pregiudizio definitivo ed irreparabile ove non fosse loro consentito quel controllo di legittimità garantito dalla norma costituzionale richiamata”[5].
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Il richiamo alla tesi contraria all’ammissibilità del ricorso ex art. 111, comma 7 Cost. accolta – in un obiter dictum – da Cassazione n. 12532/2014. La soluzione della prima questione in senso favorevole alla ricorribilità
Nell’esaminare la questione, le Sezioni Unite richiamano innanzitutto la tesi contraria all’esperibilità del ricorso straordinario, sostenuta dalla prima sezione civile della medesima Corte con la pronuncia n. 12352/2014 e richiamata dall’ordinanza interlocutoria. Secondo la ricostruzione operata dalla prima sezione, l’impugnazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. del decreto del Tribunale fallimentare che, decidendo sul reclamo proposto contro il provvedimento del giudice delegato, ne abbia ordinato l’esecuzione, sarebbe inammissibile in quanto vertente su un “provvedimento privo del carattere di decisorietà con attitudine al giudicato”. Il riparto parziale, infatti, costituisce “solo una fase intermedia della procedura fallimentare, suscettibile di emendamento, senza preclusione da acquiescenza, in sede di approvazione del progetto definitivo di distribuzione”[6].
Le Sezioni Unite rilevano, tuttavia, che trattandosi di affermazioni contenute in un obiter dictum, peraltro non motivato, esse non paiono idonee ad interrompere il diverso e, secondo le stesse parole della Corte, costante orientamento del giudice di legittimità.
Entrando nel vivo della questione, la Suprema Corte evidenzia che costituisce pacifico[7] principio di diritto quello secondo cui il piano di riparto parziale, reso esecutivo dal giudice delegato – e a prescindere dalla sua concreta esecuzione – non ha carattere provvisorio; esso può sì essere modificato in seguito a ulteriori risultanze ma, una volta decorsi i termini di impugnazione, esso diventa definitivo e quanto con esso disposto, in ordine in particolare all’esistenza entità ed efficacia dei crediti ammessi nonché all’esistenza di cause di prelazione, non può essere più oggetto di contestazione.
A fondamento di tale ricostruzione, le Sezioni Unite ricordano che l’art. 114 L.F. evidentemente accoglie un generale principio di intangibilità dei riparti dell’attivo eseguiti nel corso della procedura, laddove prevede esplicitamente che i relativi pagamenti non possano essere ripetuti, salvo il caso dell’accoglimento di eventuali domande di revocazione[8].
Richiamano inoltre la previsione di cui all’art. 112 L.F., secondo il quale i creditori ammessi tardivamente concorrono soltanto alle ripartizioni successive alla loro ammissione al passivo. Il provvedimento definitivo ed esecutivo di riparto parziale, pertanto, “dà luogo a una preclusione ad un giudicato interno alla procedura fallimentare”. Ne consegue altresì che, come affermato in precedenza dalla stessa Corte[9], i privilegi possono essere esercitati dopo l’approvazione dello stato passivo (e, perciò, anche dopo la formazione del c.d. giudicato endofallimentare) ma non quando il riparto, anche parziale, sia divenuto definitivo.
Tale principio generale di “intangibilità” dei riparti dell’attivo eseguiti nel corso della procedura (con la sola eccezione contemplata espressamente dall’art. 114 L.F.), di cui la stessa Corte ha fatto applicazione anche in pronunce recenti[10], è inoltre coerente con il “granitico” – questa è l’espressione utilizzata dalle Sezioni Unite – orientamento di legittimità secondo cui i provvedimenti resi dal giudice delegato nel fallimento sono revocabili o modificabili, d’ufficio o su istanza di parte, solo fino a quando essi non abbiano avuto esecuzione. Tale corrente interpretativa ritiene infatti applicabile anche nell’ambito del fallimento il principio generale di cui all’art. 487 c.p.c., secondo cui le ordinanze del giudice dell’esecuzione non sono revocabili o modificabili una volta che ad esse sia stata data esecuzione.
Ne discende che, laddove il progetto di riparto parziale sia stato dichiarato esecutivo dal giudice delegato, per decorso dei termini per proporre reclamo o per esaurimento dei mezzi di impugnazione esperiti dagli eventuali reclamanti, e il curatore vi abbia dato pronta esecuzione attraverso la distribuzione delle somme ai creditori, non può più sostenersi che il giudice delegato possa, d’ufficio o su istanza di parte, revocare o modificare il decreto di esecutività apposto al progetto di riparto.
La Suprema Corte risolve, quindi, la prima questione, enunciando il principio di diritto, conforme all’orientamento consolidato, secondo cui il decreto del Tribunale che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale, pronunciato sul reclamo avente ad oggetto il provvedimento del giudice delegato, nella parte in cui decide la controversia concernente, da un lato, il diritto del creditore concorrente a partecipare al riparto dell’attivo fino a quel momento disponibile e, dall’altro, il diritto degli ulteriori interessati ad ottenere gli accantonamenti delle somme necessarie al soddisfacimento dei propri crediti, nei casi di cui all’art. 113 L.F., presenta caratteri di decisorietà e definitività e avverso di esso è pertanto ammissibile il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111, comma 7 Cost.
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La seconda questione: i soggetti attivamente legittimati all’impugnativa del piano di riparto
Nella vicenda in esame, le Sezioni Unite ravvisano, d’ufficio, la necessità di esaminare un’ulteriore questione connessa a quella principale, ovvero quella relativa all’individuazione dei soggetti attivamente legittimati a proporre il reclamo avverso il piano di riparto.
L’art. 110, comma 3 L.F., infatti, dispone che il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria sia comunicato a tutti i creditori, compresi quelli che abbiano proposto opposizione contro il decreto che rende esecutivo lo stato passivo, impugnazione dei crediti ammessi o revocazione ai sensi dell’art. 98 L.F.; sulla base del rinvio operato dalla medesima norma all’art. 36 L.F. si prevede, tuttavia, che siano sentiti soltanto il curatore e il reclamante.
Ebbene, a parere della Corte, per quanto concerne la legittimazione attiva a proporre reclamo avverso il progetto ai sensi dell’art. 36 L.F. non vi è alcun dubbio, dovendosi far coincidere i creditori interessati con i destinatari della comunicazione relativa al deposito dello stesso. Non è invece altrettanto semplice capire se il reclamo ai sensi dell’art. 26 L.F., da chiunque proposto, debba essere comunicato, oltre che al curatore (espressamente preso in considerazione dalla norma) anche a tutti gli altri creditori controinteressati[11].
Sul punto, le Sezioni Unite ritengono di aderire all’interpretazione offerta dalla dottrina maggioritaria, secondo la quale il contraddittorio dovrebbe essere esteso anche ai controinteressati, da intendere quali i creditori che, in qualche modo, potrebbero essere pregiudicati dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante. Non appare condivisibile la diversa tesi dottrinale, allo stato minoritaria, che ritiene invece sufficiente a garantire la tutela delle posizioni soggettive individuali il contraddittorio incrociato in sede di approvazione dello stato passivo concorsuale, residuando in sede esecutiva la possibilità dell’intervento volontario. Questa impostazione, infatti, non tiene conto del fatto che la fase dell’accertamento dei crediti può essere ulteriormente incisa, e a volte in maniera determinante, “proprio dalla concreta ricostruzione delle precedenze (con i piani parziali o finale) dei crediti, pur ammessi, ma portati al soddisfacimento effettivo con tempistiche dilazionate o previo riconoscimento – medio tempore – di ulteriori crediti (prededucibili, tardivi o finanche supertardivi), in relazione ai quali i controlli del ceto creditorio spesso si rivelano come solo virtuali”.
La Corte afferma, pertanto, un secondo principio di diritto, ovvero quello secondo cui sia il reclamo ex art. 36 L.F. avverso il progetto di riparto, anche parziale, predisposto dal curatore, sia quello ex art. 26 L.F. contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, che dev’essere inteso quale creditore che, in qualche modo, potrebbe subire un pregiudizio in ragione della diversa ripartizione prospettata dal reclamante; in entrambi i casi, il ricorso va quindi notificato a tutti i restanti creditori ammessi al riparto, anche parziale. Aggiungono le Sezioni Unite che il mancato rispetto di tale regola iuris, traducendosi in una violazione del principio del contraddittorio, dà luogo a nullità rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.
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La decisione delle Sezioni Unite nel caso concreto e considerazioni conclusive
Nello specifico caso sottoposto all’attenzione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno rilevato una violazione delle regole relative al litisconsorzio necessario e, pertanto, del principio del contraddittorio, sia con riferimento al reclamo proposto innanzi al giudice delegato, sia nella successiva fase del secondo reclamo innanzi al collegio. Hanno così cassato il provvedimento impugnato e rinviato la causa al giudice di prime cure, ovvero al giudice delegato investito del primo reclamo proposto avverso il progetto di riparto parziale, ma che non era stato comunicato a nessuno tra i creditori concorrenti.
In definitiva, si osserva che l’intervento delle Sezioni Unite ha saputo cogliere la corretta natura del decreto che dichiara esecutivo il piano di riparto parziale dell’attivo fallimentare e appare coerente con l’esigenza imposta dall’art. 111 della Costituzione restituendo una soluzione in linea con l’interpretazione offerta dalla dottrina maggioritaria.
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Note
[1] Per approfondimenti si vedano L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, a cura di F. Padovini, Giappichelli, Torino. S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Lineamenti di diritto fallimentare, Cedam, Padova. G. TRISORIO LIUZZI (a cura di), Diritto delle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano.
[2] Cfr. F. LAMANNA, La legge fallimentare dopo la miniriforma di cui al D.L. n. 83/2015, Giuffrè, Milano. F. LAMANNA La legge fallimentare dopo il «Decreto sviluppo», Giuffrè, Milano. V. GIORGI, Introduzione al diritto della crisi d’impresa, Piccin, Padova.
[3] L’art. 36 L.F. rubricato “Reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori” dispone che contro gli atti di amministrazione del curatore, contro le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei creditori e i relativi comportamenti omissivi, il fallito e ogni altro interessato possono proporre reclamo al giudice delegato per violazione di legge, entro otto giorni dalla conoscenza dell’atto o, in caso di omissione, dalla scadenza del termine indicato nella diffida a provvedere. Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio. Contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale entro otto giorni dalla data della comunicazione del decreto medesimo. Il tribunale decide entro trenta giorni, sentito il curatore e il reclamante, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, con decreto motivato non soggetto a gravame. Se è accolto il reclamo concernente un comportamento omissivo del curatore, questi è tenuto a dare esecuzione al provvedimento della autorità giudiziaria. Se è accolto il reclamo concernente un comportamento omissivo del comitato dei creditori, il giudice delegato provvede in sostituzione di quest’ultimo con l’accoglimento del reclamo.
[4] Cfr., ex plurimis, Cass. Civ., sez. I, n. 22122/2018: “Presupposto del ricorso ex art. 111 Cost., comma 7, è che si tratti di “sentenze”. Questa Corte da sempre ritiene, peraltro, che portato di tale locuzione stia nella capacità al giudicato: la norma è stata così oggetto di una lettura estensiva, la quale si riassume in ciò, che il ricorso straordinario è dato non già avverso le sole sentenze, intendendo con ciò i provvedimenti ai quali il legislatore attribuisce detta forma, bensì contro tutti i provvedimenti, ivi compresi le ordinanze ed i decreti, simultaneamente caratterizzati dal duplice requisito della decisorietà e della definitività (c.d. sentenze in senso sostanziale). Dunque, per principio costante, “un provvedimento, ancorchè emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio – requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. – quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti, nonchè della definitività – in quanto non altrimenti modificabile – può essere oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost.” (così Cass., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914; cfr. altresì Cass. 25 ottobre 2016, n. 21522)”.
[5] Cass. Civ., sez. I, n. 2099/2001. In senso conforme, Cass. Civ., sez. I, n. 22122/2018 sopra citata.
[6] Sulla mancanza del carattere della decisorietà e della definitività del decreto del Decreto del Tribunale, con riferimento a diverse questioni che possono sorgere nell’ambito della procedura fallimentare, si richiamano, a titolo esemplificativo: Cass. Civ., sez. I, n. 16072/2018 (in cui è stata affermata “l’inammissibilità del ricorso presentato per cassazione ex art. 111 Cost., avverso il decreto con cui il Tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del Giudice delegato, adottato dopo la chiusura della procedura, che ha rigettato la domanda di restituzione delle somme accantonate in favore dei creditori irreperibili, proposta dal debitore sull’assunto dell’avvenuta prescrizione dei loro crediti, trattandosi di atto giudiziale assunto al di fuori delle competenze oramai cessate del Tribunale fallimentare e privo dei connotati della decisorietà e della definitività”); Cass. Civ., sez. VI, n. 11217/2018 (in cui è stata negata la natura decisoria del decreto del tribunale che ha provveduto ai sensi della dell’art. 36 L.F. avverso il provvedimento del giudice delegato, che a sua volta era stato adito contro l’atto di amministrazione del curatore con cui era stata negata l’adesione alla proposta di acquisto di un complesso di beni, in quanto esso “non può dirsi risolutore di una controversia su diritti soggettivi”, trattandosi “di una misura annoverabile tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito”); Cass. Civ., sez. I, n. 24019/2019 (in cui è stata esclusa la ricorribilità in Cassazione del provvedimento del Tribunale con cui era stato rigettato il reclamo avverso l’autorizzazione del giudice delegato data al curatore per effettuare il riscatto di due polizze di assicurazione stipulate dal fallito prima della dichiarazione di fallimento, richiamando il principio “secondo cui il decreto del giudice delegato che autorizzi attività per legge demandata alla funzione di amministrazione attiva del curatore fallimentare, così come il successivo decreto del collegio, emesso in sede di reclamo contro il primo, ai sensi dell’art. 26 legge fall., hanno natura ordinatoria, essendo pronunciati nell’esercizio della funzione di direzione e di vigilanza all’interno della procedura amministrativa, e non incidono, se non in modo mediato ed indiretto, sui diritti dei terzi, i quali sono suscettibili di lesione solo per effetto della illegittima condotta de curatore nei rapporti con i medesimi terzi”).
[7] Le Sezioni Unite richiamano Cass. Civ., sez. II, n. 2035/1973, Cass. Civ., sez. II, n. 776/1973, Cass. Civ., sez. II, n. 594/1973, Cass. Civ., sez. II, n. 2374/1972; Cass. Civ., sez. II, n. 601/1972.
[8] Questa eccezione è ora riprodotta nell’art. 229 del Codice della crisi d’impresa e d’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).
[9] Cass. Civ., sez. I, n. 13090/2015.
[10] In particolare, le Sezioni Unite richiamano Cass. Civ., sez. I, n. 4729/2018 (in cui si afferma “il principio della c.d. immutabilità delle attribuzioni patrimoniali effettuate ai creditori in sede di riparto”) e Cass., sez. I, n. 20748/2012 (in cui, dopo aver ribadito “il principio dell’intangibilità delle precedenti ripartizioni” si afferma che “Queste restano ferme a favore dei creditori che ne hanno beneficiato, anche qualora il ricavo posteriore all’intervento non sia utile a soddisfare il creditore intervenuto tardivamente per causa a lui non imputabile. Nella valutazione bilanciata delle situazioni di cui siano titolari i creditori che abbiano già partecipato a riparti e quella del concorrente tardivo, sia pure incolpevole, i principi del concorso paritetico subiscono un’attenuazione, e ciò proprio in virtù della definitività dei provvedimenti mediante i quali i precedenti riparti avvennero (omissis). In una condizione sostanzialmente, identica versano i creditori non ammessi, che ottengano l’insinuazione all’esito dell’opposizione allo stato passivo: essi non beneficiano della sospensione delle attività di ripartizione dell’attivo, nè hanno diritto ad accantonamenti specifici nelle ripartizioni che abbiano luogo prima della loro ammissione (omissis), restando anche in tal caso irripetibili le quote distribuite agli altri creditori. Come si ricava da queste norme, la tutela dei creditori del fallito incontra un limite nelle ripartizioni dell’attivo che siano state eseguite, non potendo pregiudicare le ragioni dei creditori già parzialmente o totalmente soddisfatti. Non deve sorprendere, allora, che analogo limite incontri la tutela delle ragioni del fallito, dopo il ritorno in bonis”).
[11] Dell’art. 26 L.F. rubricato “Reclamo contro i decreti del giudice delegato e del tribunale” è stata a più riprese dichiarata l’illegittimità costituzionale, sotto diversi profili. La Corte Costituzionale, con una prima sentenza 42/1981 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, in relazione all’art. 23 nella parte in cui assoggetta al reclamo al tribunale, disciplinato nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell’attivo. Successivamente, con sentenza 303/1985, n. 303 ne ha dichiarato l’incostituzionalità in riferimento agli artt. 23 comma primo e 25 n. 7 ultima proposizione stesso decreto nella parte in cui assoggetta a reclamo al tribunale il decreto con il quale il giudice delegato liquida il compenso a qualsiasi incaricato per l’opera prestata nell’interesse del fallimento nonché l’incostituzionalità dell’art. 26 comma primo, nella parte in cui fa decorrere il termine di tre giorni per il reclamo al tribunale dalla data del decreto del giudice delegato anziché dalla data della comunicazione dello stesso ritualmente eseguita. Ancora, con sentenza 55/1986 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 26 comma primo, secondo e terzo, in relazione all’art. 23 comma primo e agli artt. 188 comma secondo e terzo, 167 comma secondo e 164 nella parte in cui si assoggettano al reclamo al tribunale, nel termine di tre giorni decorrenti dalla data del decreto del giudice delegato anziché dalla data della comunicazione dello stesso debitamente eseguita, i provvedimenti del giudice delegato alla amministrazione controllata con contenuto decisorio su diritti soggettivi. Da ultimo, nello stesso anno la Corte Costituzionale, con sentenza 156/1986 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 23 comma primo, in relazione all’art. 188 dello stesso decreto, nella parte in cui assoggettano al reclamo al tribunale nel termine di tre giorni decorrente dalla data del decreto del giudice delegato anziché dalla data di comunicazione dello stesso debitamente eseguita i decreti, adottati dal giudice delegato, di determinazione dei compensi ad incaricati per opera prestata nell’interesse della procedura di amministrazione controllata. In definitiva, la Corte Costituzionale ha evidenziato che l’eccessiva brevità del termine di tre giorni avrebbe vulnerato il diritto di difesa, il cui effettivo esercizio postula che il termine di decadenza sia congruo e che decorra dal momento in cui l’interessato all’impugnativa abbia avuto notizia dell’emanazione dell’atto impugnabile, o quanto meno tale notizia abbia attinto un livello di conoscibilità da parte dell’interessato. Si è quindi affermato l’indirizzo in forza del quale il Tribunale, in sede di reclamo contro il provvedimento del Giudice delegato che stabilisce e rende esecutivo il piano di riparto, è tenuto – a pena di nullità rilevabile d’ufficio – all’osservanza del principio del contraddittorio, donde deve essere sentito il reclamante, il fallito, il comitato dei creditori, il curatore, nonché eventualmente anche altri controinteressati che ne facciano richiesta. (Cass. civ. Sez. lavoro, 09/07/1991, n. 7555; Cass. civ. Sez. I, 01/10/1997, n. 9580).
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