Una breve disamina della vexata quaestio
Il caso in esame trae origine dalla scoperta, a seguito del subentro di un nuovo legale delegato dal Giudice dell’esecuzione alle operazione di una vendita, di numerose operazioni non giustificate di prelievo di libretti, compiute in diverse procedure esecutive.
Scoperta che aveva condotto all’instaurazione di una preistruttoria disciplinare, procedura, quest’ultima, poi sospesa stante la contemporanea pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti.
Il procedimento disciplinare fu ripreso nel 2016, al termine del giudizio penale conclusosi con una condanna per il professionista alla pena sospesa di due anni di reclusione per la ricorrenza dei reati di peculato. Nello specifico, la condanna inflitta dal giudice penale trovava la propria ratio nell’appropriazione, da parte del professionista, di somme della procedura esecutiva in assenza della dovuta e previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Sulla base della pronuncia penale (N. 18886/2017) nonché delle dichiarazioni rilasciate dai professionisti che avevano sostituito il legale condannato, il Consiglio Distrettuale di disciplina territorialmente competente provvedeva ad irrogare la sanzione della radiazione dall’albo.
Il C.N.F. rigettava l’appello successivamente proposta dal professionista: rigetto che avveniva sulla scorta delle seguenti motivazioni: – l’idoneità del capo di incolpazione che aveva riguardato la sola qualificazione dei fatti contestati; – nel merito, sottolineava che il passaggio in giudicato della pronuncia penale delimitava il perimetro del giudizio alla sola valutazione del rilievo deontologico dei fatti già oggetto di accertamento; pertanto, appariva adeguata la sanzione applicata rispetto alla gravità dei fatti.
Avverso la pronuncia di secondo grado interveniva il legale con ricorso per ottenerne la cassazione.
Le motivazioni poste a fondamento del ricorso
Il ricorrente/legale articolava la propria linea difensiva in cinque ordini di motivazioni.
Con il primo motivo denunciava la violazione di legge e l’eccesso di potere in relazione all’art. 59, lett. D), n. 2 Legge n. 247/2012 e dell’art. 21, comma 2, lett. B) del regolamento n. 2/2014 del C.N.F. ritenendo violato il principio di correlazione tra i fatti (oggetto di illecito disciplinare) e la decisione emessa. In proposito, rilevava che, se per un verso, veniva condannato per la violazione del quarto comma dell’art. 30 del nuovo codice deontologico per altro, invece, gli veniva inflitta la sanzione in base ad una generica violazione dell’art. 30, in assenza di una precisa indicazione del comma.
Il secondo motivo di ricorso, a sua volta, appariva logicamente connesso al primo atteso che con esso il legale sottolineava nuovamente la violazione di legge o dell’eccesso di potere in ordine all’applicazione dell’art. 30 del nuovo codice deontologico forense, per la mancata specificazione del comma che si assumeva violato dallo stesso.
Medesimo discorso per la terza motivazione, atteso che con essa il legale/ricorrente intendeva richiamarsi apertamente a quanto già evidenziato nel primo motivo, dolendosi della violazione di legge o eccesso di potere in ordine all’applicazione dell’art. 30, quinto comma, del nuovo codice deontologico con specifico riguardo all’irrogazione della sanzione della radiazione dall’albo.
Nel dettaglio, il ricorrente sosteneva che la sentenza del C.N.F. fosse affetta da nullità per omessa indicazione dell’esatta normativa deontologica violata, censurando, pertanto, l’entità della misura sanzionatoria emessa dal giudice in sede disciplinare.
Infine, con gli ultimi due motivi toccava problematiche di pregnante rilevanza.
Rispettivamente, con il quarto motivo asseriva che la motivazione addotta dal C.N.F. (nella sentenza impugnata) fosse apparente ed ingiustificata perché basata su argomentazioni inconciliabili e contrastanti; con il quinto motivo, invece, eccepiva la prescrizione dell’actio disciplinare in ordine ai capi di incolpazione, ritenendo applicabile nel caso in esame la disciplina prevista dall’art. 56 Legge n. 247/2012 e, conseguentemente, interveniva sulla natura delle sanzioni prescritte dal codice deontologico forense.
La soluzione offerta dalle Sezioni Unite
La Cassazione, a Sezioni Unite, si pronuncia rigettando il ricorso presentato dal legale, ritenendo prive di fondamento tutte le doglianze in esso riportate.
Partendo dal primo e dal secondo motivo di impugnazione, i giudici di legittimità propendono per l’infondatezza dello stesso sottolineando come nell’ambito di un procedimento di natura disciplinare occorra guardare alla specificazione del fatto/evento più che alla indicazione della previsione normativa violata. Di qui, l’osservazione per cui la mancata indicazione del nomen juris o della rubrica normativa (della ritenuta violazione) non comporta la nullità della pronuncia allorquando ricorra una descrizione accurata, puntuale e precisa dei fatti contestati.
La ratio risiede essenzialmente nel fatto che le “previsioni deontologiche hanno natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi” e, dunque, “si possono legittimamente ispirare a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività[1]”.
Ritengono privo di fondamento, inoltre, il terzo motivo di ricorso sull’assunto che l’irrogazione della sanzione della radiazione non risulta sproporzionata bensì aderente al caso di specie.
In sostanza, i giudici ritengono che la misura applicata dal consiglio nazionale forense non sia censurabile in essere di legittimità in quanto adeguata alla natura, alla complessiva gravità dei fatti posti in essere dal ricorrente (perché lesivi del prestigio dell’ordine professionale) nonché alla reiterazione degli stessi. Ciò in quanto il nuovo codice deontologico ha sì tipizzato le condotte integranti un illecito di natura disciplinare ma, al contempo, ha provveduto ad indicare precise misure sanzionatorie in rapporto ad ogni singola condotta[2].
Con riguardo alla quarta motivazione assunta dal legale a propria difesa, il Supremo Consesso sostiene che i fatti contestati corrispondono alle plurime ed ingiustificate appropriazioni di somme di danaro e, pertanto, non risultano inconciliabili tra di loro.
Infine, i giudici della Corte intervengono ponendo l’accento sulla natura delle sanzioni disciplinari e, di qui, sul regime prescrizionale da doversi ritenere applicabile al caso in oggetto.
Diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, la Cassazione discorre di natura amministrativa delle sanzioni disciplinari ricordando che, in merito alla prescrizione dell’azione disciplinare, non possa trovare applicazione il diritto sopravvenuto ove maggiormente favorevole sempre che la contestazione dei fatti abbia avuto luogo in una fase anteriore all’entrata in vigore della nuova normativa. Dunque, giungono alla conclusione secondo cui non risulti applicabile l’art. 56 della Legge n. 247/2012 essendo entrato in vigore successivamente alla commissione degli eventi.
Con l’ulteriore precisazione che, agli effetti della prescrizione dell’azione disciplinare, occorre distinguere l’ipotesi in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede da quella in cui abbia luogo per eventi costituenti anche fattispecie penalmente rilevanti e per i quali abbia avuto inizio l’azione penale.
Nel primo caso, gli Ermellini rilevano la ricorrenza della previsione normativa di cui all’art. 51 r.d.l. n. 1578/1933 in quanto l’azione disciplinare risulterebbe connessa ad ipotesi generiche e a fatti anche atipici e, di guisa, il decorso del termine prescrizionale avrebbe luogo a partire dalla commissione del fatto.
Sul piano diametralmente opposto si colloca il secondo caso, richiamandosi in tal caso l’art. 44 del r.d.l. n. 1578/1933. In tale seconda situazione si sottolinea la natura obbligatoria dell’azione disciplinare in quanto collegata al fatto storico di una sentenza penale, sempre che quest’ultima sia di condanna ed abbia ad oggetto il medesimo fatto oggetto dell’iter disciplinare. Di qui, il termine prescrizionale comincia a decorrere dal momento in cui “il diritto di punire può essere esercitato e, dunque, dal passaggio in giudicato della pronuncia penale, costituente un fatto esterno alla condotta”.
Dunque, a detta delle Sezioni Unite, il caso oggetto di disamina ricade nell’ipotesi propriamente contemplata dalla previsione di cui all’art. 44 e, conseguentemente, la prescrizione dell’azione disciplinare ha luogo a partire dall’intervenuta definitività del provvedimento giurisdizionale.
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Note
[1] Cfr. Cass. SS. UU. , n. 15852/2009; n. 529/2012; n. 6967/2017.
[2]A sostegno della coerenza della sanzione inflitta dal C.N.F., i giudici richiamano un precedente della Cass. a SS. UU., n. 20344/2018 nonché la previsione normativa di cui all’art. 22, primo comma, lett. d) del nuovo codice deontologico forense. In particolare, la norma de qua, definisce la radiazione quale: “esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro e impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro, fatto salvo quanto previsto dalla legge”. Altresì. Statuisce che essa: “è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo. Elenco o registro”.
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