Sistematizzazione dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 ad opera dell’ordinanza (con contestuale sentenza parziale di rigetto di un’eccezione di prescrizione) n. 5391/2019 della IV Sezione Consiglio di Stato: profili sostanziali e processuali

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Una configurazione (in forma dubitativa) coerente e lineare

Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni:

a) se per le fattispecie sottoposte all’esame del giudice amministrativo e disciplinate dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva;

b) se, pertanto, la ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis;

c) se, ove sia invocata la sola tutela restitutoria e/o risarcitoria prevista dal codice civile e non sia richiamato l’art. 42 bis, il giudice amministrativo può qualificare l’azione come proposta avverso il silenzio dell’Autorità inerte in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 42 bis;

d) se, in tale ipotesi, il giudice amministrativo può conseguentemente fornire tutela all’interesse legittimo del ricorrente applicando la disciplina di cui all’art. 42 bis e, eventualmente, nominando un Commissario ad acta già in sede di cognizione”.

Sono questi i quesiti che la IV Sezione del Consiglio di Stato rivolge all’Adunanza Plenaria con l’ordinanza n. 5391/2019 riguardo l’art. 42-bis D.P.R. 327/2001, al centro di un vero e proprio “caos interpretativo” (sono queste le parole usate dal Collegio) che dipende, principalmente, dal fatto che l’art. 42-bis sia nato in un contesto difficile (ovvero dalle ceneri dell’art. 43 poi espunto dall’ordinamento in quanto incostituzionale) e disciplini un ambito estremamente delicato (quale quello delle opere pubbliche ritardate o incompiute, o addirittura mai iniziate).

Benchè, a mio avviso, sufficientemente chiaro nella formulazione, l’art. 42-bis ha tra l’altro incontrato sul suo cammino sia le vicende dell’individuazione dei confini della giurisdizione amministrativa e civile, sia la progressiva funzionalizzazione dei poteri del giudice amministrativo verso una sempre più piena tutela sostanziale delle situazioni giuridiche soggettive degli interessati.

Si tratta di una pronuncia che ha ricevuto l’attenzione di diversi commentatori (si v., ad es., l’articolo pubblicato su questa rivista disponibile al link https://www.diritto.it/alladunanza-plenaria-la-configurabilita-della-rinuncia-abdicativa-davanti-al-giudice-amministrativo/) e, pertanto, in questa breve nota mi limiterò ad evidenziare che, a prescindere dalle statuizioni dell’Adunanza Plenaria, l’art. 42-bis uscirà da questa vicenda quasi “risanato” dalle tribolazioni amministrative e giudiziali che ne hanno segnato l’applicazione.

I quesiti sono la forma dubitativa di una configurazione che esprime una linearità ed una coerenza interna e sistematica tali che, a mio modo di vedere, l’Adunanza Plenaria probabilmente la accoglierà o la rigetterà in toto, offrendo quindi un assetto di principi che probabilmente sarà in grado di dirimere anche questioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle oggetto dell’ordinanza di rimessione.

Come si proverà a dimostrare nel corso della trattazione, i quattro quesiti sono riconducibili ad una tendenza giurisprudenziale unitaria:

  • volta ad offrire la massima tutela alle situazioni giuridiche soggettive;
  • operante tanto sul fronte della disamina sostanziale dell’istituto, quanto sul fronte della individuazione dei margini di azione del giudice amministrativo.

A meri fini espositivi (che talora esigono scomposizioni analitiche pur nella consapevolezza dell’unitarietà del tema affrontato), si dedicherà il § 2 ai profili sostanziali (interessati dai primi due quesiti) e il § 3 ai profili processuali (interessati dagli ultimi due).

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Oltre l’analisi strutturale della rinuncia abdicativa

Per comprendere la portata dei primi due quesiti posti dalla Sezione del Consiglio di Stato, è necessario innanzitutto osservare che, sul piano strutturale:

  • la rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale con cui il titolare di un diritto di proprietà manifesta la volontà definitiva di non esercitare più alcuna facoltà, alcuna prerogativa, alcuna micro-situazione di potere pertinente al diritto stesso;
  • la rinuncia abdicativa non è un negozio formale, nemmeno quando pertiene ai diritti immobiliari, in quanto l’art. 1350 c.c. annovera tra i negozi soggetti alla forma ad substantiam la rinuncia traslativa, ovvero quella species di negozio bilaterale di rinuncia che produce effetti traslativi logicamente immediati a favore di un altro soggetto (la rinuncia abdicativa di immobili, per via dell’art. 827 c.c., produrrebbe un effetto sì traslativo – a favore dello Stato – ma non logicamente immediato, in quanto l’attrazione al patrimonio dello Stato presuppone l’esistenza di un “infinitesimo giuridico temporale” in cui l’immobile, per via della rinuncia abdicativa, non sia stato nella titolarità di alcuno);
  • non essendo un negozio formale, la rinuncia abdicativa può configurarsi perfino in presenza di comportamento concludente.

Tralasciando la possibile questione generale se la rinuncia abdicativa di immobili sia un negozio ammissibile dall’ordinamento (il dubbio sorge almeno perché attraverso la rinuncia abdicativa il titolare potrebbe mediatamente traslare sullo Stato ex abrupto i propri obblighi di protezione nei confronti dei terzi, con – tra l’altro – notevoli problemi in ordine all’identificazione del momento esatto in cui l’attrazione al patrimonio dello Stato avvenga), nello specifico la figura della rinuncia abdicativa viene in rilievo perché, se è ravvisabile nei casi di applicabilità ex art. 42-bis, allora:

  • nel momento di produzione dell’effetto abdicativo cessa la permanenza dell’illecito da parte dell’Ente pubblico e, conseguentemente, comincia a decorrere la prescrizione per la corresponsione di quanto dovuto “a titolo risarcitorio” per il periodo di occupazione senza titolo, ai sensi del c. 3 II periodo;
  • il proprietario perde il diritto al controvalore del bene di cui al c. 3 I periodo.

Sul presupposto per cui la rinuncia abdicativa possa essere configurata anche in presenza di comportamenti concludenti, nelle aule giudiziarie si è profilata la tesi (talora accolta dalla giurisprudenza) per cui la richiesta risarcitoria avanzata in via principale (e non in via subordinata al rigetto della richiesta restitutoria) implicherebbe logicamente la perdita di interesse verso il bene e la contestuale derelictio.

Una soluzione molto convincente è ardua da individuare se si adotta un’impostazione solo strutturale, perché comporta l’affastellamento di micro-questioni tanto in punto di teoria, quanto in punto di fatto:

Ad es. è possibile immaginare, oltre alla questione generale appena accennata della validità di rinunce abdicative aventi ad oggetto diritti immobiliari,  anche le subquestioni:

  • circa la possibilità che possa ritenersi realmente abdicativo un comportamento concludente volto a far valere situazioni giuridiche soggettive esistenti fino al momento della sua presunta abdicazione (può ravvisarsi infatti una dissonanza in termini psicologici tra la derelictio da un certo momento in poi e la volontà di conseguire utilità fino a quel momento);
  • circa la possibilità che la domanda risarcitoria possa essere valutata ex se come comportamento concludente in senso abdicativo e non, invece, al più come elemento sintomatico, presuntivo di una supposta volontà abdicativa da accertare attraverso un’indagine più approfondita sul contesto (una mera domanda risarcitoria potrebbe ad es. essere valutata come frutto di rassegnazione, o comunque come conseguente alla constatazione di un’”irreversibile trasformazione del fondo”).

La V Sezione del Consiglio di Stato, invece, sposta la questione dal terreno sdrucciolevole dell’analisi strutturale al terreno (in questa situazione rivelatosi più confortevole) dei principi generali che governano l’azione amministrativa e l’interpretazione degli atti normativi.

Nelle ipotesi di applicabilità dell’art. 42-bis, le sorti della titolarità del bene necessitano di una precisa manifestazione di volontà da parte della P.A., che si estrinseca:

  • o autoritativamente (attraverso l’acquisizione o la restituzione del bene) o negozialmente (attraverso un atto transattivo);
  • o negozialmente (attraverso la stipulazione di un negozio transattivo).

Il richiamo al principio di legalità, tutt’altro che banale, coglie proprio la radice profonda dell’art. 42-bis: attraverso tale disposizione l’ordinamento intende dare alla P.A. il potere di eliminare l’incertezza nelle situazioni patologiche, attraverso una decisione di acquisizione o restituzione.

Si tratta di un poteredovere, al punto che il suo mancato esercizio può condurre alla nomina giudiziale di un commissario ad acta.

E si tratta di un potere-dovere amplissimo, perché l’articolo copre ogni ipotesi di illiceità, dettando regole unitarie che permettono di superare varie pastoie applicative riguardanti l’individuazione delle specifiche tipologie di illiceità.

L’art. 42-bis, cioè, viene interpretato per quello che è: un complesso di disposizioni attraverso cui il legislatore manifesta una certa idiosincrasia verso il trascinarsi di fenomeni amministrativamente stantii e giuridicamente avviluppati, che intende combattere dando alla P.A. il potere-dovere di definirli in modo uniforme.

I poteri di cui all’art. 42-bis vanno quindi visti non come momenti di estrinsecazione della supremazia del pubblico nei confronti del privato, ma come forme di costruzione di un assiologicamente pregnantissimo munus pubblico, ovvero di un potere da esercitare a difesa dello stesso titolare, che dalla indefinizione della sua situazione giuridica soggettiva subirebbe un pregiudizio maggiore rispetto a quello derivante da una definizione della stessa in senso ablativo.

In questo contesto ermeneutico, allora, non vi è spazio per la decisione unilaterale del privato, che può al più accompagnare, anticipare, sposare la decisione pubblicistica partecipando alla stessa stipulando un atto di transazione: secondo la Sezione remittente del Consiglio di Stato è solo questo, infatti, l’atto che può determinare l’interruzione dell’illiceità, oltre a quelli autoritativi di acquisizione o restituzione ai sensi dell’art. 42-bis.

 

Vi è, poi, un altro interessante profilo, che l’ordinanza evidenzia ed è, a mio modo di vedere, altrettanto argomentativamente potente, anche perché si armonizza con la tendenza sempre più marcata della giurisprudenza amministrativa a valorizzare le opzioni interpretative (di disposizioni anche processuali, oltre che sostanziali) che approfondiscono il grado di tutela offerto all’istante.

Anche qui il ragionamento è semplice.

Ritenere che con una richiesta risarcitoria in via principale il titolare abbia voluto rinunciare al proprio diritto di proprietà implica logicamente la negazione del diritto al controvalore.

La tutela del titolare sarebbe monca: e sarebbe monca proprio nella parte più tangibile, corposa, visibile, e cioè quella relativa al controvalore di un immobile che prima era nella disponibilità e nel godimento del titolare, ed ora non vi è più.

Anche qui la Sezione del Consiglio di Stato compie un’operazione (meta)argomentativa di non poco momento che, sebbene per lo più non esplicitata, traluce con una certa intensità.

Alla presunzione (solo logicamente fondata) per cui la richiesta di risarcimento per il periodo di occupazione implicherebbe l’abdicazione al diritto di proprietà, il Collegio sembra opporre un dubbio di senso comune, che potrebbe essere sciolto attraverso (v. sopra) un’indagine caso per caso:

  • in generale, sulla sussistenza di una volontà effettiva del titolare di rinunciare alla proprietà in senso abdicativo;
  • più in particolare, sulla sussistenza della consapevolezza che una rinuncia siffatta avrebbe potuto comportare la perdita del diritto al controvalore.

Il ragionamento in termini di tutela esclude l’operatività di una tale presunzione, negandola in radice e valorizzando invece la pienezza della tutela offerta dall’art. 42-bis (che riguarda tanto il periodo di occupazione illegittima, quanto il controvalore) come principio che sovrintende l’applicabilità dello stesso articolo e non tollera limitazioni che non provengano da una espressa, decisa, consapevole volontà della parte, accettata dall’Amministrazione attraverso un atto transattivo.

E, come si vedrà tra poco, il principio di effettività della tutela è stato inteso in senso così forte da consentire addirittura al giudice amministrativo di qualificare l’azione risarcitoria o restitutoria come indice della proposizione di un’azione volta ad ottenere la piena tutela di cui all’art. 42-bis, con tutte le conseguenze sostanziali e processuali che ne derivano.

La modulazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato al confronto con il principio di effettività della tutela

Gli ultimi due quesiti sembrano, a primo acchito, una forzatura del principio processuale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

In caso di mera richiesta risarcitoria e/o restitutoria, l’istante omette il passaggio medio di ottenere da parte dell’Amministrazione un provvedimento ex art. 42-bis di acquisizione o restituzione. Una siffatta richiesta si fonderebbe cioè sull’errore logico di poter ottenere una pronuncia giudiziale in ipotesi di applicabilità dell’art. 42-bis in assenza dell’espressione, da parte della P.A., dei poteri concessigli da tale articolo.

Sul piano processuale, ci si potrebbe quindi attendere che, per il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la domanda non sia accoglibile.

E invece il Collegio ritiene che il passaggio medio pretermesso possa essere innescato processualmente ex officio:  in presenza di una mera richiesta risarcitoria e/o restitutoria, il giudice amministrativo può comportarsi come nel caso di silenzio avverso l’inerzia della P.A., con in più la possibilità di effettuare sin da subito la nomina di un commissario ad acta, anche condizionata al mancato esercizio dei poteri ex art. 42-bis entro un certo termine.

Questa soluzione, certamente sorprendente, è in realtà pienamente coerente con quel principio di legalità e quel principio di effettività della tutela che fondano i primi due quesiti.

La forza attribuita all’indefettibile presenza dell’Amministrazione nelle ipotesi di applicabilità dell’art. 42-bis non avrebbe potuto condurre né ad un accoglimento del ricorso (ciò sembra scontato) né, a ben vedere, ad una sua immediata reiezione. Le situazioni giuridiche soggettive attribuite all’Amministrazione hanno una natura anfibia perfettamente simmetrica: sono tanto poteri quanto doveri, il loro esercizio è doveroso ex se, a prescindere dall’istanza che ne faccia il privato cittadino, perché l’Amministrazione ha il dovere di eliminare l’incertezza.

Ragionare dunque nel senso della reiezione della domanda (per avere il ricorrente omesso di censurare l’inerzia) oscurerebbe quindi la dimensione officiosa dei poteri ex art. 42-bis e non coglierebbe che in questo caso l’inerzia danneggia non il solo privato, ma l’andamento della stessa attività amministrativa, che rimane in un limbo in sé improduttivo e pregiudizievole.

In questa cornice di pensiero, poi, la lettura della configurazione offerta dal Collegio anche in termini di effettività della tutela diventa naturale.

L’art. 42-bis prevede una tutela piena, che non ammette scissioni, quando tra l’altro le imprecise prospettazioni di parte potrebbero ben dipendere da un susseguirsi caotico di vicende normative e giurisprudenziali.

Il Collegio, quindi, avvertito dei possibili profili di inimputabilità all’istante della richiesta giudiziale carente (del passaggio intermedio della censura dell’inerzia), incompleta e riduttiva (rispetto al complesso dei vantaggi ottenibili ex art. 42-bis), costruisce anche una sorta di sistema processuale officioso di natura rimediale.

Conclusioni

In questo lavoro si è voluta evidenziare la natura unitaria dei quesiti i quali, pur nella loro diversità, sembrano essere espressione di una concezione dell’art. 42-bis istituzionalmente elevata: i poteri dell’Amministrazioni vanno visti come poteri-doveri, il cui esercizio è doveroso a prescindere dall’istanza del titolare.

L’Amministrazione ha cioè il dovere di eliminare l’incertezza di un’occupazione che continua a permanere illecita.

E questo potere di eliminare l’incertezza spetta solo ed esclusivamente all’Amministrazione.

Il privato può solo accompagnare il contenuto decisorio, ma non può autonomamente decidere né nel senso dell’acquisizione (e quindi va esclusa la configurabilità della rinuncia abdicativa) né nel senso della restituzione (ciò è intuitivo).

La natura bifronte delle situazioni giuridiche soggettive attribuite dall’art. 42-bis all’Amministrazione si riverberano anche sul piano processuale: il giudice amministrativo può infatti innescare officiosamente il procedimento volto a censurare l’inerzia amministrativo, non fermandosi alle prospettazioni del privato.

Accanto ad una siffatta autonoma costruzione, convergono poi nel senso appena detto anche un’applicazione forte del principio di effettività della tutela sostanziale e processuale.

L’Adunanza Plenaria, a mio modo di vedere, non potrà facilmente approcciarsi ai quesiti adottando un approccio solo analitico, senza dare il giusto pregio alla costruzione unitaria, armonica, sistematica degli stessi.

La pronuncia in commento avrà comunque segnato uno spartiacque nella storia giurisprudenziale dell’art. 42-bis.

L’Adunanza Plenaria, infatti, dovrà pronunciarsi innanzitutto sulla ratio profonda di detto articolo: da ciò conseguiranno, a cascata, le soluzioni dei singoli quesiti e i principi volti a scioglierne diversi altri, potenziali o attuali.

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Dott. Puliatti Donatello

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