Il recente arresto giurisprudenziale nella regolamentazione delle spese di giustizia (Corte Costituzionale sentenza n. 77 del 2018): la compensazione tra il ritorno al passato ed altri utili principi di diritto

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I due fondamentali riferimenti normativi in materia

Le disposizioni che qui vengono in rilievo in quanto regolamentano le spese processuali sono:

l’art. 91 c.p.c. “Condanna alle spese” (collocato nel Capo IV – Delle responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, al Titolo III – Delle parti e dei difensori, del Libro I dedicato alle disposizioni generali) il cui tenore testuale è il seguente:

“Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92.

Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine alla stessa; quelle della notificazione della sentenza del titolo esecutivo e del precetto sono liquidate dall’ufficiale giudiziario con nota in margine all’originale e alla copia notificata.

I reclami contro le liquidazioni di cui al comma precedente sono decisi con le forme previste negli articoli 287 e 288 dal capo dell’ufficio a cui appartiene il cancelliere o l’ufficiale giudiziario.

Nelle cause previste dall’articolo 82, primo comma, le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda”.

Tale articolo va letto in combinato disposto con le disposizioni di cui all’art. 92 c.p.c. (al quale rinvia espressamente), che di seguito si riporta:

Articolo 92 c.p.c. “Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese”

“Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte.

Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero.

Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”.

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Il volume vuole essere una guida per il Professionista che deve considerare, oltre agli aspetti tecnici e giuridici del proprio operato, altresì quelli economici. L’attività forense ha invero un costo e risulta opportuno valutare in via preventiva quali sono i rischi economici e le spese a cui si deve far fronte nell’ambito di un’azione giudiziaria. L’opera affronta dunque le diverse fattispecie che riguardano le spese processuali: dalla condanna, anche a titolo aggravato, alla distrazione delle spese e alla compensazione. Per completezza, si affronta altresì la tematica relativamente alle ipotesi di gratuito patrocinio. Partendo dai criteri che guidano il giudice, passando per le regole generali che disciplinano le spese processuali, si approda alla casistica più particolare, nonché alla più innovativa ipotesi di condanna alle spese, introdotta dall’art. 96 c.p.c.Giuseppe De Marzo, consigliere della Suprema Corte di Cassazione, assegnato alla I sezione civile e alla V sezione penale; componente supplente del Tribunale Superiore delle Acque; componente del Gruppo dei Referenti per i rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo; autore di numerose monografie e di pubblicazioni giuridiche, ha curato collane editoriali; collabora abitualmente con Il Foro italiano. Ida Cubicciotti è magistrato del Distretto di Lecce, incaricata più volte dell’insegnamento di diritto processuale civile presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università del Salento, è stata formatore decentrato del settore civile presso la Corte d’Appello di Salerno componente della Commissione Flussi del Consiglio Giudiziario di Salerno e Coordinatore per la gestione dei magistrati onorari presso il Tribunale di Lecce. È magistrato di riferimento per l’informatica presso il Tribunale per i Minorenni di Lecce e ha svolto incarichi di formazione per i corsi di aggiornamento della Scuola Superiore della Magistratura in materie di diritto sostanziale e processuale civile. Cristina Maria Celotto, laureata con 110 e lode presso l’università di Roma Tre nell’anno 2016. Dopo una carriera in qualità di assistente alla cattedra presso il corso di diritto penale dell’università di Roma Tre, conclude positivamente la pratica forense presso l’Avvocatura generale dello Stato ed il tirocinio formativo presso la Corte di Cassazione.

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In breve i più importanti interventi del legislatore in materia

Sebbene il regime delle spese di lite, e la relativa ripartizione tra le parti, può essere vista come  processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che definisce la lite stessa ed anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito[1], resta senz’altro un tema dibattuto e da sempre oggetto di numerose ed interessanti pronunce giurisprudenziali, in particolare quelle della Corte Costituzionale, che ne innovano in concreto l’applicazione rispetto al tradizionale criterio: le spese seguono la soccombenza[2]!

Ciò è quanto emerge chiaramente dalla recente pronuncia della Corte Costituzione che sempre più viene investita di questioni attinenti alle spese di giustizia e alla loro regolamentazione: «l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge − con riguardo al tipo di procedimento − in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale» (precedenti conformi: sentenza n. 222 del 1985 ed ordinanza n. 117 del 1999).

Ad oggi, infatti, si può affermare che è ampia la discrezionalità del giudice nel derogare alla condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, sia pur in presenza di elementi che giustifichino la decisione in tal senso, non essendo indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (oltre alla già citata sentenza 77/2018, in questi termini, ex multis, anche: sent. n. 157/2014, sent. n. 270/2012, sent. n. 177 del 1999 e sent. n. 196/1982).

A tal riguardo, va rilevato che ampia è anche la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali in tema di regolamentazione delle spese di lite, che oramai si mostra consapevole che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che vanno prese misure di contenimento del contenzioso civile. In tal senso va l’introduzione e la diffusione degli istituti, non solo processuali, diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale[3].

Anche se proprio la norma espressa dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. è rimasta per lungo tempo invariata in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con la legge 14 luglio 1950, n. 581 (Ratifica del decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile). Quando si è intervenuti su tale disposizione, dopo quasi centocinquant’anni, è stata confermata la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione delle spese di lite, richiedendo però che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80[4].  La previsione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Pertanto, il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite, ciò anche per ristabilire la primordiale esigenza di responsabilità processuale delle parti[5].

L’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti [6]» (Cfr. Cass., 27 gennaio 2016, n. 1521).

Per altro verso, si è sempre più voluto scardinare la regolamentazione delle spese di lite processuali del giudizio civile dalla regola generale del victus victori fissata dall’art. 91, comma 1, c.p.c., come dimostra altresì anche l’ulteriore – più recente – modifica del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. (al quale l’art. 91 c.p.c. espressamente rinvia), laddove il legislatore del 2014[7], “ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti (Cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 77 del 2018)[8].

Questo perché, gli operatori del settore sanno bene che, nonostante le modifiche restrittive introdotte negli anni, nella prassi quotidiana si continuava a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perdeva un suo naturale e rilevante effetto oneroso, con pari danno per la parte che risultava aver avuto ragione. Dunque a tale situazione si è voluto far fronte con le due riportate ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca.

L’apertura dovuta alla pronuncia della corte costituzionale n. 77 del 2018

Ma è stata proprio la recente sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 77 del 2018 che ha visto in tale rigidità la violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza, in quanto si lasciano fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa, tant’è che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni” (parte motiva della sentenza 77/2018). Altre gravi ed eccezionali ragioni che dovranno essere indicate esplicitamente nella motivazione e riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa[9], non potendo, invece, essere espresse con una formula generica inidonea a consentire il necessario controllo (recentemente: Corte di Cassazione – VI sez. civ. – ordinanza n. 4360 del 14 febbraio 2019). Cosicché le gravi ed eccezionali ragioni devono ritenersi analoghe a quelle espressamente previste, alle quali va riconosciuto solo carattere indicative, in quanto svolgono, di fatti, “una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale”, che il giudice deve chiaramente indicare in parte motiva (Così nella prassi applicativa: Cassazione Civile ordinanza n. 21746 del 27 agosto 2019; precedente conforme: Cass.,18 febbraio 2019, n. 4696)[10].

La Corte Costituzionale, quindi, ha cancellato la riforma del 2014 che limitava fortemente la possibilità di compensazione fra le parti all’esito del giudizio civile per affidare al giudice[11], ed in particolare a quello del lavoro, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto[12] e sempre cum grano salis.

Altri principi utili per una ragionevole ripartizione delle spese di lite

A tal proposito, oltre alla strada tracciata dalla Consulta, ben altro principio verrebbe in soccorso al giudice per meglio ponderare l’addebito delle spese de qua, in primis, il principio di causalità oggettiva.

Tale principio rappresenta anch’esso un adeguamento al caso concreto del principio di causalità, di cui la soccombenza è solo un elemento rilevatore, poiché vengono addossati gli oneri del processo “alla parte che allo stesso dà causa”. Ma a ben vedere anche in questo caso si può sostenere, per consolidata giurisprudenza, che  per il tramite del principio di causalità, ai fini delle spese, si deve guardare anche “al comportamento tenuto fuori dal processo” dalle parti (cfr.  Cass. civ., Sez. III, 27 novembre 2006, n. 25141; Cass. civ., Sez. II, 26 gennaio 2006, n. 1513 in Mass. Giur. It., 2006).

Ad esempio, se un dipendente di una P.A. ha presentato i previsti reclami nell’ambito di una procedura amministrativa che ne prevede l’attivazione al fine di conoscere la motivazione, certa e inequivoca, su cui si basa un provvedimento che lo riguarda (ad esempio la motivazione non espressa in precedenza dal dirigente valutatore alla propria valutazione della performance lavorativa individuale), senza alcun esito; se lo stesso dipendente ha esperito un tentativo di conciliazione presso le competenti strutture preposte (ad es. Direzioni Provinciali del Lavoro ai sensi dell’art. 410 codice di procedura civile e art. 31 della Legge n. 183/2010) al fine di trovare un’interlocuzione con la P.A./datore di lavoro nonché per scongiurare il ricorso alle vie giudiziarie ed in tale sede la P.A. lascia nuovamente e silentemente cadere anche questa possibilità. Se il dipendente è dunque costretto ad adire le competenti autorità giudiziarie al fine di sottoporre al vaglio giudiziale l’operato della P.A. ed in tale giudizio quest’ultima convenuta per la prima volta rilascia la motivazione al proprio atto, ebbene, in caso di soccombenza del lavoratore dipendente che non dipenda dal torto nel merito ma per altri motivi[13], in tale ipotesi non si dovrebbe fare applicazione sic et simpliciter del principio di causalità bensì si dovrebbe tener conto del contegno dell’amministrazione tenuto fuori dal processo: un comportamento indifferente e ingiustamente restio al confronto concretizzatosi nel non rispondere a quanto richiesto dal ricorrente nelle sedi stragiudiziali e normativamente ovvero pattiziamente previste e disciplinate, costringendolo sia a proporre ricorso per avere risposte alle proprie richieste sia della possibilità di valutare ex ante, secondo un responsabile approccio al processo, gli elementi di fondamento in fatto e in diritto della propria azione giudiziaria.

Dunque anche sotto questo profilo si va a contemperare e temperare il principio della rigida ed automatica regola della soccombenza con la c.d. “oggettiva causalità nel giudizio”, tenuto conto della valutazione dei comportamenti soggettivi delle parti, causativi del giudizio[14]. E tanto al fine di non mandare esente “dall’onere delle spese la parte che con il comportamento fuori dal processo, ovvero nel resistere in giudizio con argomenti non rispondenti al diritto, ha provocato la necessità del processo o del suo protrarsi” (Cass.,sez. III, 30 marzo 2010, n. 7625; Corte App. Milano Sez. III, 21-09-2016).

Laddove si può pacificamente ritenere che la stessa condotta preprocessuale della parte vincitrice abbia influito a determinare la lite giudiziale, e ciò in particolare nel caso preso ad esempio, in quando il ricorrente riveste una posizione di soggetto più debole del rapporto controverso che è costretto ad agire giudizialmente per vedere accertata l’illegittimità del provvedimento datoriale[15]. Tale circostanza – presa in considerazione anche dai giudici della Corte Costituzionale in quanto tra le questioni segnalate dal giudice rimettente, ma comunque non ritenuta fondata ai fini della pronuncia di illegittimità anche sotto tale profilo dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. – che vede il lavoratore promuovere un giudizio, per la tutela di suoi diritti, senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce “elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite” (sentenza n. 77/18).

Sul punto, va evidenziato che la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito, con massime consolidate, che in forza del principio di causalità, non solo chi ha promosso, o proseguito un processo inutile e/o perso, ma anche chi ha costretto altri a promuovere o a proseguire un processo, ne deve sopportare le conseguenze economiche (Cass. civ. Sez. VI – 5, 13-01-2015, n. 373; conf.: Cass. civ, sez. 3, 20.02.2014, n. 4074; Cass, civ., sez. 2, 15.11.2013, n. 25781; Cass. civ., sez. 3, 21.10.2009, ord. n. 22381 Cass, civ., sez. 3, 15.07.2008, n. 19456; Cass. Sentenza n. 5061 del 05/03/2007; Sentenza n. 15395 del 28/06/2010) pena la vanificazione del principio di rilevanza costituzionale del diritto di azione e di difesa in giudizio, previsto dall’art. 24 Cost[16].

Appare pertinente con quanto appena detto, anche un accenno ad un altro principio attinente alla ripartizione del costo del processo: il principio di giustizia distributiva.

Una delle prime pronunce che ne stabilì l’applicazione fu la sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del 1987: “Per un principio di giustizia distributiva il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento… (…)”, anche derogando, secondo un principio di responsabilità, al fatto che chi è risultato essere nel torto si faccia carico anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa.

In tal senso anche la pronuncia della Corte cost., (ud. 18/03/1964) 02-04-1964, n. 30: “Risponde, del resto, ad un principio di giustizia distributiva che il costo del processo sia sopportato in definitiva da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha perciò occasionato la spesa implicata dal suo svolgimento, com’è per colui che è colpito da una condanna penale.” 

Sul possibile scenario che si prospetta in tema di compensazione delle spese di lite

Parrebbe, da più parti, che in tema di regolamentazione delle spese di lite, tema nuovamente ravvivato dalla più volte richiamata pronuncia di incostituzionalità, si rischierà a breve di assistere ad un déjà-vu e ritrovarsi ad affrontare le medesime questioni – giurisprudenziali ma anche dottrinali – vissute a seguito della riforma di tale materia avutasi con l’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ciò in conseguenza del fatto che si riattribuisce al giudice un ampio potere di compensazione delle spese che sin dalla successiva legge di riforma del 2014 (d. l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014) si è voluto limitare a fatti, ipotesi e circostanze oggettivi e quanto meno soggetti a valutazioni discrezionali.

Ciò a fortiori in relazione alla non prevedibile estensione di ipotesi di compensazioni delle spese di lite riconducibili alla formulazione “sussistendo gravi ed eccezionali ragioni… ”, che rappresenta un vaso da riempire. Dunque ci si trova davanti ad una previsione “generale ed astratta” che va applicata a quelle casistiche concrete che di volta in volta saranno sottoposte al vaglio del giudice e che sicuramente non sono soggette ad essere tipizzate a priori. Non fosse altro perché classificarne alcune ed escluderne altre, comporterebbe una disparità di trattamento, la quale si potrà verificare anche tra un decidente ed un altro in merito a situazioni del tutto uguali, ma magari, sotto il profilo delle spese di lite, regolamentate diversamente in rapporto alla soccombenza di una delle parti in ragione della prassi applicativa della discrezionalità riassegnata al giudice. Tutto ciò sembrerebbe in contraddizione proprio coi il precipitato applicativo di quei principi di ragionevolezza e di uguaglianza che da un lato rappresentano i presupposti per i quali si sono avuti i numerosi interventi riformatori da parte del legislatore e dall’atro lato risultano invocati in sede giurisdizionale a giustificare i recenti arresti che, al netto degli entusiasmanti rimbalzi mediatici e dottrinari, ai più attenti, parrebbe come un deragliamento dalla direzione che si era intrapresa con gli interventi correttivi che il legislatore ha posto in essere, aprendo ad una strada ancor più incerta, anche alla luce della totale assenza di elementi utili ad individuare i confini della discrezionalità che il rinvio ad “analoghe gravi ed eccezionali ragioni” di cui all’art. 92 c.p.c., nella formulazione risultante dopo la nota pronuncia additiva, riconosce all’apprezzamento del Giudice. Ovviamente senza dimenticare e men che meno sottovalutare l’ancoraggio, in stretto rapporto di necessaria analogia, delle ipotesi  di “altre gravi ed eccezionali ragioni” di compensazione con quelle tipizzate nella norma – a parte la soccombenza reciproca, l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti – nel senso che dovranno di sicuro essere di “pari o maggiore gravità ed eccezionalità”.

Dunque ci si auspica che, memori dell’esperienza passata, lo spazio di decisione recuperato dal giudicante – che gli era normativamente precluso ma che nei fatti tendeva comunque a praticare – non costituisca un motivo di ritorno scriteriato ad intentare processi per i quali si prospetteranno rischi economici ridotti anche qualora si promuovessero controversie poco fondate, ma che effettivamente l’intervento della Consulta si traduca in una valutazione caso per caso e più vicina a ragioni di giustizia sostanziale.

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Testi che potrebbero essere consultati per ogni opportuno approfondimento degli argomenti trattati:

– G. DE MARZO, I. CUBICCIOTTI & C. M. CELOTTO, Le spese di lite: soccombenza, distrazione, compensazione e responsabilità aggravata, Maggioli Editore, 2019 (I Edizione);

– A. ANCESCHI, Le spese legali in sede civile, penale, amministrativa e nelle giurisdizioni speciali, CEDAM, 2010.

[1] M. A. MAZZOLA, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, 20473 (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI-T, ord. 26/05/2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574.

[2] Da tale principio discendono due posizioni giuridiche soggettive contrapposte: una “attiva” in capo alla parte vittoriosa che ha il diritto di pretendere il rimborso delle spese processuali provvisoriamente anticipate; l’altra “passiva” in capo alla parte uscita sconfitta che ha il dovere di effettuare tale rimborso, sopportando così, oltre a quelle relative alla propria posizione e attività processuale, anche le spese sostenute dalla parte vittoriosa (Tra le tante in giurisprudenza: Cass., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438; e tra gli altri: A. RUSSO, Le condanne processuali estranee al principio della soccombenza, in Fisco, 2016, n. 22, p. 215 e ss.

[3] Si segnalano: S. CHIARLONI, Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo di attuazione della delega in materia di mediazione ex art. 60 legge n. 69/2009, in www.ilcaso.it, del 26.11.2009; T. E. FROSINI, Un diverso paradigma di giustizia: le alternative dispute resolutions, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2011, raccolta di Studi in onore di Aldo Loiodice.

[4] G. BALENA & M. BOVE, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 110 ss.

[5] Tra le tantissime pronunce, si segnala di recente: Cass. Civ., sez. III, ordinanza 28 settembre 2018, n. 23476 (rel. F. Fiecconi); precedenti in tal senso: Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6369 del 13/03/2013; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9060 del 06/06/2003; Cass. 10 settembre 2001, n. 11543; Cass. 14 dicembre 2000, n. 15787.

[6] Tra i tantissimi contributi: P. PORRECA, La riforma dell’art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella L. 69/2009, in Giur. Merito, 2010, pp. 1851 e ss; G. SCARSELLI, Le novità per il processo civile, l. 18 giugno 2009 n. 69. Le modifiche in tema di spese, in F. it. 2009, 262

[7] Disposizione prevista all’art. 13, comma 1, del d. l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile). In dottrina, tra tanti: R. Di Grazia, La compensazione delle spese giudiziale dopo la L. 10 novembre 2014, n. 162, in R. d. proc. civ., 2015, 1529.

[8] Tra i tantissimi contributi dottrinari a commento della sentenza in parola: S. LAFORGIA, L’onore delle armi: note sul regime delle spese processuali alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 2018, in Argomenti Dir. Lav., 2018, p. 6 e ss; I. STELLATO, Compensazione spese processuali: dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 92 comma 2 cpc, in Giuricivile, 2018, 5 (nota a Corte Cost. sent. n. 77 del 19/04/2018; F. TEDIOLI, La Corte Costituzionale estende il perimetro della compensazione delle spese giudiziali, in Studium Iuris n. 10/2018.

[9] La Consulta stessa fornisce qualche indicazione su quali possano essere le altre “gravi ed eccezionali ragioni”, attraverso una elencazione dei “casi analoghi” a quello del cambiamento di giurisprudenza, che sarebbero parimenti in grado di determinare la compensazione delle spese: per esempio, le ipotesi di sopravvenienza di una norma di interpretazione autentica o una legge posteriore con effetto retroattivo, oppure una sentenza di illegittimità costituzionale o una decisione di una Corte europea oppure ancora una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea. L’elenco redatto dalla Consulta, ovviamente, non è tassativo, tant’è che è la stessa dirompente sentenza a dare spazio ad altre non nominate analoghe sopravvenienze, sempre che incidano su questioni dirimenti, che il giudice può valutare caso per caso.

[10] Sul punto si rileva che la Corte di legittimità più volte si è pronunciata, affermando che vi è un cd. “deficit motivazionale” in presenza di un semplice richiamo a circostanze espresse con una formula generica, quali ad esempio “la natura della controversia e le alterne vicende dell’iter processuale” (Cass. n. 10042/2018; n. 22310/2017; n. 9186/2018); la “peculiarità della materia del contendere” (Cass. n. 11217/2016); “la buona fede dell’appellante pur soccombente” (Cass. n. 20617/2018). Si tratta, sottolinea la Corte di Cassazione di affermazioni di mero principio, ipoteticamente ricollegabili a qualsiasi procedimento e, pertanto, inidonee a consentire il necessario controllo sull’iter logico – giuridico seguito dall’estensore per la formazione del proprio convincimento (sempre circa la motivazione della compensazione delle spese giudiziali, si veda anche di recente: Cassazione civile sez. VI, 09/04/2019, n. 9977)

[11] Nello specifico, la compensazione poteva essere disposta dal giudice, oltre che nei casi di soccombenza reciproca, in quelle di assoluta novità della questione trattata e di mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti. Nessun’altra ragione diversa da quelle indicate dal codice poteva, dunque, consentire una deroga alla regola della soccombenza (ex plurimis: Cass., 29 novembre 2018, n. 30877).

[12] A. Nascosi, La consulta amplia lo spazio della compensazione delle spese della liti, in Nuova Giur. Civ., 2018, 1632.; M. MATARRESE, Spese processuali: La Corte boccia l’irragionevole tassatività delle ipotesi di possibile compensazione delle spese di lite, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 4, 2018, p. 1211;

[13] Ad esempio, costituzione oltre che della P.A. anche dei colleghi controinteressati del ricorrente che dunque rendono il giudizio più complesso in quanto si determina una pluralità di parti e una conseguente molteplicità delle questioni da trattate, parametri di cui si tiene conto, in senso diametralmente opposto, al momento della liquidazione delle spese a favore della parte vittoriosa; od ancora: interventi o chiamate di terzi ovvero in ipotesi di un errore processuale commesso dal difensore, elementi che comportano la condanna al pagamento delle spese giudiziarie da parte del soccombente ad oneri economici pesantissimi.

[14] M. VACCARI, La proposta conciliativa nella nuova disciplina delle spese di lite, in Economia processuale e comportamento delle parti nel processo civile, Prime applicazioni del Protocollo Valore Prassi sugli artt. 91, 96 e 614 bis c.p.c. a cura di DALLA MASSARA e VACCARI, Napoli, in Jovene editore, 2012, p. 96 e nota 33.

[15] Una delle questioni di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionalità deciso con la sentenza n. 77/2018 era proprio la posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso. Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia ha evidenziato la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiedeva che la disposizione censurata fosse ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenesse conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro.

La questione è stata posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente − un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto. Va detto che tale questione è stata ritenuta non fondata.

[16] Sotto altro aspetto, sempre circa la liquidazione delle spese verso l’amministrazione costituitasi in giudizio, è stato recentemente statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione II, nella sentenza n. 8413 pubblicata il 27.4.2016 il principio secondo il quale “l’autorità amministrativa sta in giudizio personalmente o avvalendosi di un funzionario appositamente delegato, non può ottenere la condanna del ricorrente, che sia soccombente, al pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, difettando le relative qualità nel funzionario amministrativo che sta in giudizio, per cui sono, in tal caso, liquidabili in favore dell’ente le spese, diverse da quelle generali, che abbia concretamente affrontato in quel giudizio e purché risultino da apposita nota” (conformi: Trib. Cassino, 08-11-2016; Cass. 24 maggio 2011, n. 11389; Cass. 27 agosto 2007, n. 18066).

Dott. Silvio Garofalo Quinzone

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