Il fatto
La Corte di appello di Venezia riformava la pronuncia del Tribunale in sede, del 3 dicembre 2013, con la quale gli imputati venivano condannati per il reato di furto aggravato, riqualificando il fatto nel delitto di cui agli artt. 110, 56 e 624 c.p., art. 625 c.p., comma 1, nn. 2 e 7, con riduzione della pena irrogata in mesi quattro di reclusione ed Euro 100 di multa e confermava, nel resto dell’impugnato provvedimento.
Il fatto era il seguente: gli imputati, dopo essere entrati in un ipermercato, si erano impossessati di capi di abbigliamento e di una bottiglia di sambuca privando la merce delle placche antitaccheggio, merce in parte occultata addosso uno di costoro e in parte addosso all’altro, guadagnando l’uscita attraverso la barriera “senza acquisti“.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questa decisione proponevano tempestivo ricorso per cassazione gli imputati, con distinti atti di impugnazione.
Uno di questi deduceva: a) la carenza di violenza sulle cose, intesa come energia fisica che provochi la rottura, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui, assumendo che, nel caso di specie, non vi è stato danneggiamento del bene sottratto; b) l’insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7 tenuto conto del costante servizio di vigilanza assicurato nell’esercizio commerciale, incompatibile con l’esposizione delle cose alla pubblica fede; c) mancata allegazione della procura speciale alla proposizione di querela, da parte dell’amministratore delegato di una società, all’atto che costituisce esercizio della stessa, anche in caso di rilascio della procura, ai sensi dell’art. 37 disp. att. c.p.p., in via preventiva posto che il responsabile alla sicurezza, che aveva proposto querela, invece, non aveva depositato procura speciale.
L’altro imputato, per il tramite del suo legale, denunciava: 1) l’erronea applicazione delle aggravanti di cui all’art. 625 c.p., comma 1, nn. 2 e 7, con conseguente improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela assumendosi che la mera rimozione delle placche antitaccheggio non integra la violenza sulle cose necessaria ad integrare l’aggravante essendo necessario il mutamento di destinazione e il danneggiamento della cosa altrui; 2) l’insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7, dato che la merce era assicurata attraverso il sistema antitaccheggio ma anche con sistema di video sorveglianza con addetto alla sala video tenuto conto altresì del fatto che la stessa sentenza indicava come l’azione fosse stata seguita dal sistema video e, poi, dagli addetti alla vigilanza e richiamandosi al contempo giurisprudenza secondo la quale non è configurabile la circostanza aggravante dell’esposizione alla pubblica fede nel caso di furto di beni asportati su banchi dotati di sistema antitaccheggio idoneo a garantire il costante controllo della res e facendo infine presente che anche la sussistenza del sistema di video sorveglianza escludeva, per il ricorrente, l’esposizione alla pubblica fede ove questo non sia solo saltuario ed eventuale; 3) il fatto che la querela era stata presentata dal responsabile alla sicurezza senza procura rilasciata dall’Ipermercato e che, previa esclusione anche di una soltanto delle aggravanti ritenute in sentenza, il reato sarebbe estinto per prescrizione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
I ricorsi erano stimati manifestamente infondati e, dunque, venivano dichiarati inammissibili.
Si osservava a tal proposito, quanto al primo motivo comune ad entrambi i ricorrenti, come la condotta fosse stata descritta nel provvedimento di merito come forzatura delle placche antitaccheggio, dunque, evidenziando la loro violenta rimozione dalla merce sottratta sicché il ricorso, sul punto, ad avviso della Corte, si presentava aspecifico posto che non si confrontava puntualmente, con il contenuto della motivazione (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016; Sez. 2, n. 5522 del 22/10/2013; Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013) tenuto conto altresì del fatto come costituisse principio costante della giurisprudenza della Corte di legittimità, affermato in tema di furto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della violenza sulle cose, quello secondo il quale non è necessario che la violenza venga esercitata direttamente sulla res oggetto dell’impossessamento ben potendosi l’aggravante configurare anche quando la violenza, da intendersi come alterazione dello stato delle cose mediante impiego di energia fisica, venga posta in essere nei confronti dello strumento materiale apposto sulla cosa per garantire una più efficace difesa della stessa, provocandone la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione o determinandone il mutamento nella destinazione, (Sez. 5, n. 20476 del 17/01/2018; Sez. 5, n. 641 del 30/10/2013; Sez. 5, n. 7416 del 10/01/2011).
Ciò posto, venendo a trattare il secondo motivo, gli Ermellini rilevavano come a loro avviso la censura, proposta da entrambi i ricorrenti, fosse generica avendo la sentenza evidenziato, con motivazione non manifestamente illogica, che pur presente un costante servizio di vigilanza assicurato nell’esercizio commerciale, la sottrazione era avvenuta asportando la merce dagli scaffali ma occultando la stessa sulla propria persona, all’interno di una cabina di prova, dove i due imputati si erano portati e dopo aver rimosso le placche antitaccheggio apposte sulla merce stessa, placche che venivano reperite nella descritta cabina e, dunque, con tale parte della motivazione, secondo la Corte, il ricorso non si sarebbe confrontato specificamente restando del tutto aspecifico, e ciò anche in ragione del fatto che, ai fini dell’aggravante dell’esposizione della res sottratta alla pubblica fede, la predisposizione di un sistema di controllo con placche antitaccheggio non esclude in radice la sussistenza dell’aggravante indicata posto che integra il reato di furto aggravato dall’esposizione della cosa alla pubblica fede la sottrazione, all’interno di un esercizio commerciale, di prodotti dagli scaffali anche se dotati di placca antitaccheggio, in quanto tale dispositivo, consistendo nella mera rilevazione acustica della merce occultata al passaggio alle casse, non ne consente il controllo costante e diretto a distanza, necessario ad escludere l’esposizione della cosa alla pubblica fede (Sez. 5, n. 4036 del 26/11/2015, dep. 2016; Sez. 5, n. 21158 del 30/11/2016).
Inoltre anche se la scena, come accaduto nella specie, era stata fortuitamente recepita dall’addetto alla videosorveglianza, come descritto dai giudici di merito, l’esistenza di tale circostanza di fatto non escludeva l’aggravante essendo stato rilevato in sede nomofilattica (Sez. 5, n. 2724 del 26/11/2015; Sez. 5, n. 6682 del 08/11/2007) che la circostanza aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede non è esclusa dall’esistenza, nel luogo in cui si consuma il delitto, di un sistema di videosorveglianza, che non garantisce l’interruzione immediata dell’azione criminosa, mentre soltanto una sorveglianza specificamente efficace nell’impedire la sottrazione del bene consente di escludere l’aggravante di cui all’art. 625 c.p.p., comma 1, n. 7.
Pertanto, una volta rilevato che gli imputati gli imputati si erano sottratti del tutto, seppure per un breve lasso di tempo, al controllo diretto e immediato anche dell’addetto al sistema di videosorveglianza, accedendo alla cabina di prova ove la merce, privata delle placche antitaccheggio, era stata occultata sotto i propri indumenti, gli Ermellini addivenivano a formulare il seguente principio di diritto: “l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7, sussiste anche in caso di asportazione di merce dagli scaffali di un esercizio commerciale dotato di placche antitaccheggio e di sistema di videosorveglianza quando l’agente, nell’esecuzione dell’azione di impossessamento, si sia sottratto, anche momentaneamente, al controllo diretto e costante della res, assicurato mediante i presidi di tutela all’uopo predisposti”.
Quanto al terzo motivo, vale a dire la carenza di legittimazione a proporre querela, i giudici di piazza Cavour rilevavano come, secondo la giurisprudenza della Corte di legittimità, al possesso tutelabile in sede penale viene riconosciuta un’accezione più ampia di quella civilistica posto che deve esservi incluso non solo il possesso animo domini ma qualsiasi rapporto di fatto con la cosa, esercitato in modo autonomo ed indipendente dalla titolarità del bene, quale espressione di un legittimo ius possessionis.
Infatti, sulla base di tale premessa, è stata riconosciuta al responsabile di un esercizio commerciale, pur sprovvisto di poteri di rappresentanza o institori del proprietario dei beni destinati alla vendita, la legittimazione alla proposizione della querela per furto della merce detenuta ed esposta al pubblico (Sez. 6, n. 1037 del 15/06/2012) posto che la Corte di Cassazione, anche nella sua composizione più autorevole, ha affermato che il bene giuridico protetto nel delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento ma anche nel mero possesso fermo restando che, rispetto a tale relazione di fatto, è stato altresì chiarito che essa si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando si costituisce in modo clandestino o illecito sicché, quale conseguenza di tale impostazione, è stato affermato che, anche al titolare di tale posizione di fatto, spetta la qualifica di persona offesa con relativa legittimazione a proporre querela (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, potere, nella specie, riconosciuto al responsabile di un supermercato).
Di conseguenza, ai fini della procedibilità relativamente al delitto di un furto commesso all’interno di un supermercato, in attuazione dei descritti principi, è stato ritenuto legittimato a proporre querela colui che, pur se non munito di poteri di rappresentanza o institori conferitigli dal proprietario, sia titolare di una posizione di detenzione sulla cosa compresa nel bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 55025 del 26/09/2016, relativa al custode di uno stabilimento; Sez. 4, n. 8094 del 29/01/2014, relativa al direttore di un esercizio commerciale; Sez. 4, n. 41592 del 16/11/2010, relativa al responsabile di un negozio) rilevandosi al contempo che, comunque, in ogni caso, per i denunciati vizi della querela, appare dirimente rispetto al punto devoluto, il difetto di interesse dei ricorrenti posto che, ritenute dai giudici di merito le aggravanti di cui all’art. 625 c.p., il delitto è procedibile d’ufficio ai sensi dell’art. 624 c.p., comma 3.
L’inammissibilità dei ricorsi, inoltre, inibiva ai giudici di legittimità ordinaria ogni valutazione dell’eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U, n. 32 del 11/11/2000).
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui viene formulato il principio di diritto secondo il quale l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7, sussiste anche in caso di asportazione di merce dagli scaffali di un esercizio commerciale dotato di placche antitaccheggio e di sistema di videosorveglianza quando l’agente, nell’esecuzione dell’azione di impossessamento, si sia sottratto, anche momentaneamente, al controllo diretto e costante della res, assicurato mediante i presidi di tutela all’uopo predisposti.
Tal che questa decisione deve essere presa nella dovuta considerazione qualora si debba verificare la sussistenza (o meno) di questa aggravante speciale ad effetto speciale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, dunque, proprio perché chiarisce un caso in cui siffatta aggravante può sussistere, non può che essere positivo.
Volume consigliato
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento