Riferimenti normativi: art. 109, comma 5, D.P.R. 917/86
Precedenti giurisprudenziali: Cass., Sez. V, 18 luglio 2018, n. 18904; Cass., Sez. V, 10 maggio 2018, n. 26202; Cass., Sez. V, 19 febbraio 2018, n. 18904; Cass., Sez. V, 9 febbraio 2018, n. 3170; Cass., Sez. V, 31 gennaio 2018, n. 12738; Cass., Sez. V, 11 gennaio 2018, n. 450.
Il fatto
Con distinti ricorsi due società di capitali impugnavano dinanzi alla Corte di cassazione la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia di reiezione dei riuniti appelli autonomamente proposti dalle stesse avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto i loro ricorsi per l’annullamento di quattro avvisi di accertamento con cui l’Ufficio aveva rettificato dichiarazioni fiscali di una delle due società ai fini i.re.s., i.v.a. e i.r.a.p. per gli anni 2006 e 2007.
Dall’esame della sentenza impugnata si evince che tali atti impositivi traevano origine dalla contestazione della deducibilità di costi sostenuti da una delle due società per l’utilizzo di marchi, rappresentati dai corrispettivi versati alla seconda società in qualità di licenziante, disconosciuta dall’Amministrazione finanziaria per difetto di inerenza.
Con essi l’Ufficio aveva, inoltre, provveduto a accertare e liquidare la maggiore i.re.s. dovuta dalla licenziante, società consolidante, in relazione alle minori perdite della consolidata e licenziataria del marchio rispetto a quelle trasferite.
Il giudice di appello, confermando la decisione della Commissione provinciale, disattendeva i gravami interposti ritenendo infondati tutti i motivi in cui gli stessi si articolavano.
Il ricorso della società consolidante e licenziante del marchio è affidato a due motivi, mentre quello della consolidata e licenziataria del marchio a nove motivi.
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Le doglianze
Per quanto di precipuo interesse, le società lamentano – tra le altre – la violazione e falsa applicazione dell’art. 109, quinto comma, Testo unico 22 dicembre 1986, n. 917, per avere il giudice di appello escluso l’inerenza dei costi relativi alle royalties versate per l’utilizzo di marchi.
Censurano, in proposito, la sentenza impugnata sia nella parte in cui aveva posto a suo carico l’onere di dimostrare i presupposti della deducibilità dei costi, sia nella parte in cui aveva negato il requisito dell’inerenza in ragione del mancato utilizzo dei marchi.
Le valutazioni della Suprema Corte
Il motivo è, nei limiti che seguono, ritenuto fondato.
Il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo.
La prova dell’inerenza deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché è onere del contribuente dimostrare (e documentare) l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché in correlazione con l’attività imprenditoriale.
Un giudizio di tipo quantitativo sul rapporto tra il costo sostenuto e il vantaggio conseguito assume rilevanza, in tema di imposte sui redditi, solo qualora evidenzi un’evidente incongruità dell’operazione, ossia la sua antieconomicità, in quanto non improntata, secondo l’id quod plerumque accidit, al conseguimento di una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.
La sproporzione tra i due valori assume valore sintomatico, di indice rivelatore del fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione, ma assolve ad altre finalità, per cui difetta il requisito dell’inerenza.
Una siffatta interpretazione del concetto di inerenza risulta coerente con la giurisprudenza unionale, la quale, in tema di i.v.a. ha evidenziato che il sistema comune dell’imposta garantisce la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle stesse, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’i.v.a. e che, pertanto, il soggetto passivo è autorizzato a detrarre l’i.v.a. dovuta o versata per i beni o servizi acquistati quando, agendo in quanto tale nel momento dell’acquisto di detti beni o servizi, li utilizzi ai fini delle proprie operazioni imponibili, sia che esista un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione, sia che manchi un tale nesso, quando le spese sostenute fanno parte dei costi generali del soggetto passivo e rappresentano, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce.
In tema di i.v.a., pertanto, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e l’attività d’impresa.
Ciò posto, la Commissione regionale, nell’escludere la sussistenza del requisito dell’inerenza del costo rappresentato dal pagamento delle royalties per il conseguimento della facoltà di utilizzare marchi di impresa in ragione del fatto che la contribuente non aveva mai utilizzato tali segni distintivi nell’esercizio della sua attività d’impresa, non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi.
Ha, infatti, fatto ricorso ad un criterio valutativo fondato sulla utilità derivata dalla spesa sostenuta e non già sulla sua riferibilità, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, all’attività d’impresa.
La Corte accoglie il motivo nei sensi di cui in motivazione e cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia, in diversa composizione.
Considerazioni conclusive
Il principio di diritto espresso dai giudici della V sezione in ordine all’inerenza è conforme all’orientamento maggioritario e va certamente condiviso.
Il principio dell’inerenza, quale vincolo alla deducibilità dei costi, non discende dall’art. 109, comma 5, del D.P.R. 917/86 (TUIR), che si riferisce invece al diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. L’inerenza esprime invece la riferibilità del costo sostenuto all’attività d’impresa, anche se in via indiretta, potenziale od in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa (giudizio qualitativo oggettivo). L’inerenza, in sostanza, deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo.
Quest’ultima ricostruzione del principio di inerenza sortisce dall’assunto secondo cui detto principio trova applicazione ex ante rispetto alle regole del D.P.R. 917/86, trattandosi di un’espressione insita nella nozione di reddito d’impresa[1]. Le regole particolari di cui all’art. 109 del D.P.R. 917/86, quindi, non esprimono il principio di inerenza, ma influiscono sul calcolo della base imponibile in un secondo momento, ne sono il corollario[2].
L’inerenza va inoltre distinta dalla congruità del costo, che può costituire indizio di estraneità (qualitativa) all’impresa. L’Amministrazione può dunque esercitare un sindacato sui costi sostenuti dall’impresa, senza però potere fondare l’accertamento sul solo elemento dell’incongruità, che non è autosufficiente.
Qualche critica va invece mossa su un altro aspetto oggetto della pronuncia: l’onere della prova in ordine l’esistenza e la natura del costo, che secondo la valutazione della Suprema Corte è esclusivamente posto a carico del contribuente.
A tal proposito occorre preliminarmente precisare che nessuna norma dell’ordinamento attribuisce al contribuente tale onere della prova, sussistendo, invece, sul medesimo l’obbligo di istituzione, tenuta e conservazione di documentazione contabile e fiscale.
Ciononostante, costante giurisprudenza afferma che l’Amministrazione finanziaria non è obbligata a riconoscere l’esistenza di costi registrati nelle scritture contabili o la loro inerenza, atteso che l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo a costi deducibili incombe al contribuente che ne invoca il beneficio[3], aprendo una via che sostanzialmente genera un’ingiustificata inversione dell’onere della prova. Si vorrebbe così attribuire un valore agevolativo al costo, inteso quale vantaggio, malgrado siffatta conclusione non paia conforme ai criteri di definizione del reddito d’impresa, dato che la deduzione dei costi non rappresenta un diritto potestativo del contribuente, ma un presupposto per determinarlo al netto dei componenti negativi[4].
A parere di chi scrive pare più conforme alla disciplina in vigore ritenere che l’onere della prova circa l’inesistenza ovvero la carenza del requisito di inerenza debba essere fissato in capo all’Amministrazione finanziaria, fermo restando, naturalmente, la possibilità per il contribuente di offrire prova contraria[5].
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Note
[1] BEGHIN, Diritto tributario, Lavis, 2013, p. 510; LUPI, Diritto tributario, Milano, 2007, p. 72.
[2] TUNDO, Dalla composizione delle contraddizioni il carattere “assoluto” del giudizio di inerenza, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 1/2019, p. 27; VICINI RONCHETTI, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Rivista di Diritto Tributario, n. 6/2019, p. 554.
[3] Cfr. ex multis Cass. n. 14858/2018; Cass. n. 439/2018; Cass. n. 19600/2014; Cass. n. 12330/2001.
[4] VICINI RONCHETTI, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, op. cit., p. 563.
[5] BALLANCIN, Inerenza, congruità dei costi ed onere della prova, in Rassegna Tributaria, n. 3/2013, p. 600.
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