Il caso
Tizio, Caio, Sempronio e Mevio svolgevano il lavoro di fattorini (c.d. riders) per la Alfa srl mediante un contratto di collaborazione coordinata e continuativa.
I quattro, in data 10 luglio 2017, ricorrevano al Tribunale di Torino per vedere accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro chiedendo la condanna della società convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate.
Inoltre, i ricorrenti sostenevano di essere stati illegittimamente licenziati dalla società e, di conseguenza, chiedevano il ripristino del rapporto di lavoro e la conseguente condanna al risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento e per violazione dell’articolo 2087c.c.
Con Sentenza del 7 maggio 2018 numero 778 il tribunale di Torino rigettava tutte le domande proposte dai ricorrenti.
Avverso questa sentenza i lavoratori proponevano appello e, la Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 26 del 4 Febbraio 2019, accoglieva parzialmente il gravame negando, però, la configurabilità della subordinazione e ritenendo applicabile al rapporto di lavoro intercorso tra le parti l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 come richiesto in via subordinata dai lavoratori già in primo grado.
In applicazione di tale norma, la Corte d’Appello dichiarava il diritto degli appellanti a vedersi corrisposte le spettanze maturate relative all’attività lavorativa prestata sulla base della retribuzione stabilità per i dipendenti del quinto livello del CCNL logistica e trasporto merci, al netto di quanto già percepito. La società appellata veniva, inoltre, condannata al pagamento delle differenze retributive così calcolate. Gli altri motivi di appello, compreso quello relativo alla lamentata illegittimità dei licenziamenti, venivano integralmente rigettati, anche se la Corte d’Appello osservava, su quest’ultimo punto, che in ogni caso non vi era stata interruzione dei rapporti di lavoro in essere da parte della società prima della loro scadenza naturale.
La Corte distrettuale ha ritenuto che l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 individui un nuovo genere di lavoro ibrido posto tra il rapporto di lavoro subordinato, così come previsto dall’art. 2094 c.c., e la collaborazione coordinata e continuativa prevista dall’ art. 409, n. 3. C.p.c. Questo terzo genere è stato pensato da legislatore per tutelare maggiormente le nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione tecnologica, si stanno sviluppando. Per questo la Corte d’appello di Torino ha ritenuto applicabile tale norma, riconoscendo la etero-organizzazione dell’attività di collaborazione anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro e al carattere continuativo della prestazione.
La Alfa srl ricorreva alla Suprema Corte mediante la proposizione di quattro motivi di impugnazione. I lavoratori resistevano con controricorso.
I motivi del ricorso e la decisione della Corte
Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 del d. lgs. n. 81/2015 in relazione agli art. 2094 cod. civ. e 409, n. 3, cod. proc. civ., nonché dell’art. 12 disp. prel. cod. civ. Secondo la ricorrente, l’art. 2 non ha introdotto, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, un tertium genus di lavoro poiché la etero-organizzazione sarebbe già un tratto tipico della subordinazione disciplinata nell’art. 2094 cod. civ., con la conseguenza che l’art. 2 del D.lgs. 81/2015 si presenterebbe come norma “apparente” che non consente di produrre autonomi effetti giuridici.
La Corte d’appello avrebbe inoltre commesso un altro grave errore di diritto, laddove essa ha affermato che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2 in discorso consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi della prestazione. In tal modo, secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe trascurato che l’art. 2 richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo evidenzia come, per l’applicazione della norma, sia necessaria un’ingerenza più significativa nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso.
Sotto il primo profilo la Suprema Corte non ha ritenuto di poter accogliere tale radicale tesi. In un tentativo di contestualizzazione della norma in oggetto, la Corte afferma che “Essa si inserisce in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte, approntando discipline il più possibile adeguate, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, trasformazioni che hanno inciso profondamente sui tradizionali rapporti economici”. L’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 andrebbe letto unitamente all’art.52 dello stesso decreto, norma che ha abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto previsto dagli artt. da 61 a 69-bis del d.lgs. n.276 del 2003 facendo salve le previsioni di cui all’art. 409 cod. proc. Civ.
La normativa abrogata prevedeva delle garanzie per il lavoratore mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia che, come tale, comporta il rischio di abusi.
“In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina”.
La Corte prosegue:” Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella[1], la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma – di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme Digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione”, eliminando le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione”.
Quanto al secondo profilo del primo motivo di ricorso la Corte ha adottato, invece, un’interpretazione restrittiva della norma in discorso.
La norma introduce, a riguardo delle prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, la nozione di etero-organizzazione, “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
La parola “anche” assumerebbe solo un carattere esemplificativo per cui il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprimerebbe solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione e questo alla luce del fatto che “le modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno significative anche al fine di rappresentare un reale fattore discretivo tra l’area della autonomia e quella della subordinazione“.
A prescindere da tali interpretazioni, la Corte non ha ritenuto condivisibile la lettura adottata dalla Corte d’Appello di Torino riguardo la creazione di un tertium genus, intermedio tra autonomia e subordinazione, dal quale deriverebbe l’esigenza di scegliere la disciplina applicabile. Più semplicemente, “al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione”.
Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in correlazione con l’art. 111 della Costituzione.
La sentenza della Corte territoriale sarebbe stata incoerente nel descrivere le modalità di espletamento della prestazione da parte degli appellanti in termini di libertà tali da non poter coincidere con il concetto di etero- organizzazione, come poi delineato e assunto a base della decisione.
Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 in relazione al requisito della etero-organizzazione. L’errore che nel secondo motivo si rifletterebbe sulla motivazione è qui denunciato direttamente come di errore di sussunzione e dunque come violazione di legge.
A parere della Corte le critiche mosse con le due doglianze in esame non valgono a censurare efficacemente la sentenza impugnata. In particolare, le circostanze che, una volta candidatosi per una corsa, il lavoratore: 1) doveva svolgere tassativamente entro 30 minuti la consegna (sotto comminatoria di una penale), 2) aveva l’obbligo di recarsi all’inizio del turno in una delle zone di partenza indicate, 3) doveva attivare il geolocalizzatore, 4) doveva comunicare l’esatta corrispondenza dei prodotti a quelli indicati nell’ordine e 5) doveva comunicare l’avvenuta consegna, dimostrano che tali “elementi posti in rilievo dalla ricorrente, se confermano l’autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, per la rilevata mera facoltà dello stesso ad obbligarsi alla prestazione, non valgono a revocare in dubbio il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, determinante per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015” con la differenza che nella disciplina dettata dall’ art. 409, comma 3, cod. proc. civ “le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione tali modalità sono imposte dal committente, il che integra per l’appunto la etero-organizzazione che dà luogo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato”.
Come quarto motivo, la ricorrente prospetta una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 in discorso se interpretato come norma di fattispecie, come norma cioè idonea a produrre effetti giuridici e a dar vita a un terzo genere di rapporto lavorativo la cui creazione originale avrebbe generato un eccesso di delega da parte del governo poiché quest’ ultima, contenuta nella l. n. 183 del 2014, avrebbe autorizzato il legislatore delegato a riordinare le tipologie contrattuali esistenti, ma non a crearne di nuove.
La questione sollevata non può trovare accoglimento poiché la Suprema Corte ha ritenuto l’art. 2, comma 1, D.Igs. n. 81/2015 norma di disciplina e non norma di fattispecie. Come già affermato, si deve “escludere che essa abbia dato vita ad un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, per cui non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante”.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Suprema Corte di Cassazione, pur non riconoscendo i c.d. riders come lavori subordinati “tipici”, ha ritenuto applicabile agli stessi la disciplina del lavoro subordinato in un’ottica di maggior tutela di una posizione lavorativa considerata più debole, rigettando complessivamente il ricorso proposto dalla società Alfa srl.
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Note
[1] D. L. n. 101/2019, convertito con modificazioni in L. n. 128/2019
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