(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 663)
Il fatto
Il Tribunale di Tivoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, dichiarava inammissibile l’istanza volta ad ottenere l’applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. in relazione alla sentenza della Corte d’appello di Roma del 12 dicembre 2017 (irrevocabile il 4 aprile 2019) di riforma soltanto per il trattamento sanzionatorio della sentenza del Tribunale di Tivoli del 9 dicembre 2010 (fatto del …), in relazione al quale era stato emesso l’ordine di carcerazione da parte del Pubblico ministero di Tivoli in data 17 aprile 2019, con le altre sentenze già inserite nel provvedimento di cumulo emesso dalla Procura generale della Corte d’appello di Roma in data 15 maggio 2019 n. 599/2019, atto che non ricomprendeva tale ultima sentenza.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione l’istante, per il tramite del suo difensore, deducendo la violazione di legge e il vizio della motivazione per essere stata preclusa al condannato la possibilità di ottenere un vaglio di legittimità del computo delle pene detentive da espiare, perché unilateralmente determinata dal Pubblico mistero, senza che si sia tenuto conto della necessità di procedere all’applicazione degli artt. 73 e 78 c.p., come già disposta con ordinanza della Corte d’appello di Roma del 20 febbraio 2018 in relazione alle sentenze relative ai delitti commessi nello stesso periodo.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il ricorso veniva ritenuto fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
Si osservava prima di tutto come il giudice dell’esecuzione, da un lato, avesse dichiarato inammissibile con procedura de plano, a norma dell’art. 666 c.p.p., comma 2, l’istanza avanzata in data 12/6/2019 nell’interesse del condannato volta a ottenere l’applicazione dei criteri moderatori di cui agli artt. 73 e 78 c.p. in relazione alla sentenza della Corte d’appello di Roma del 12 dicembre 2017, irrevocabile il 4 aprile 2019, per la quale il Pubblico ministero di Tivoli aveva emesso l’ordine di carcerazione in data 17 aprile 2019 fermo restando che nell’istanza, avanzata nell’interesse del condannato, veniva, tra l’altro, evidenziato che, per le altre sentenze concernenti reati commessi nello stesso periodo di tempo, era stato applicato il sopra citato criterio moderatore sicché se ne richiedeva la applicazione anche in relazione a tale ultima sentenza, dall’altro, ricevuta la istanza, l’avesse inviata in data 26/6/2019 al Pubblico ministero per il parere e dal canto suo il Pubblico ministero concludeva in pari data per il rigetto facendo presente che era stato correttamente applicato il criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. nel provvedimento di cumulo emesso dalla Procura generale di Roma e che la nuova sentenza “non risulta ancora in esecuzione” evidenziando comunque la competenza della Corte d’appello di Roma e la contestuale trasmissione degli atti alla Procura generale presso detto ufficio.
Premesso ciò, gli Ermellini denotavano come non fosse in discussione la competenza del giudice dell’esecuzione di Tivoli posto che, come il medesimo provvedimento evidenziava, la sentenza della Corte d’appello di Roma del 12 dicembre 2017 riguardava la riforma soltanto in relazione al trattamento sanzionatorio della sentenza del Tribunale di Tivoli del 9 dicembre 2012 e che si trattava dell’ultimo provvedimento divenuto esecutivo.
Ciò posto, ad avviso del Supremo Consesso, il giudice dell’esecuzione di Tivoli aveva errato nell’applicazione della legge processuale quando aveva dichiarato de plano l’inammissibilità dell’istanza perché rivolta direttamente al giudice dell’esecuzione anziché al Pubblico ministero il quale sarebbe l’unico soggetto competente, quale organo amministrativo, alla determinazione delle pene da espiare a norma dell’art. 663 c.p.p. (Sez. 1, n. 36236 del 23/09/2010).
Tal che se ne faceva conseguire come il decreto impugnato andasse annullato perché il giudice dell’esecuzione non aveva correttamente inteso il principio di diritto che aveva voluto richiamare e che si trova così riportato nelle massime ufficiali della Suprema Corte: “il provvedimento di cumulo, emesso a norma dell’art. 663 c.p.p., ha natura amministrativa e non giurisdizionale e, pertanto, è suscettibile di essere revocato o rimosso, al fine di tenere costantemente aggiornata la posizione processuale del condannato, e non diventa mai definitivo, salvo che su di esso si sia pronunciato il giudice dell’esecuzione, il cui intervento può essere richiesto dal condannato senza limiti di tempo” (Sez. 1, n. 36236 del 23/09/2010; principio recentemente ribadito da Sez. 1, n. 26321 del 27/05/2019; in precedenza: Sez. 1, n. 9708 del 09/01/2007).
A fronte di ciò, si evidenziava come non si potesse di certo pretendere che, in relazione ad un atto amministrativo destinato a incidere sul diritto soggettivo della libertà personale, il condannato sia costretto a sollecitarne la “rimeditazione” da parte del Pubblico Ministero, anziché impugnarlo direttamente davanti all’autorità giudiziaria competente chiamata a decidere nel contraddittorio pieno ex art. 666 c.p.p., comma 3.
La Corte di Cassazione, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulava il seguente principio di diritto: “il codice di procedura penale, pur avendo adottato il principio della piena giurisdizionalizzazione del procedimento esecutivo – il quale ha come presupposto inscindibile l’intervento del giudice dell’esecuzione -, ha tuttavia lasciato inalterato il carattere meramente amministrativo e non giurisdizionale al provvedimento di esecuzione e di cumulo emesso dal Pubblico ministero ex artt. 656 e 663 c.p.p.. Ne consegue che, ferma restando la revocabilità o rimozione ufficiosa dell’atto da parte del medesimo organo competente a emetterlo, al fine di tenere costantemente aggiornata e corretta la posizione processuale del condannato, il giudice dell’esecuzione, il cui intervento può essere richiesto dal condannato senza limiti di tempo, deve procedere ex art. 665 c.p.p. all’esame delle doglianze del condannato che attengono al corretto esercizio del ridetto potere del Pubblico ministero”.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa si affronta la tematica inerente la natura del provvedimento di cumulo di cui all’art. 663 c.p.p..
In tale pronuncia, difatti, dopo essere richiamato un costante orientamento nomofilattico secondo il quale il provvedimento di cumulo, emesso a norma dell’art. 663 c.p.p., ha natura amministrativa e non giurisdizionale e, pertanto, è suscettibile di essere revocato o rimosso, al fine di tenere costantemente aggiornata la posizione processuale del condannato, e non diventa mai definitivo, salvo che su di esso si sia pronunciato il giudice dell’esecuzione, il cui intervento può essere richiesto dal condannato senza limiti di tempo, viene affermato che il giudice dell’esecuzione, oltre a poter revocare o rimuovere questo provvedimento, deve procedere, su richiesta del condannato (che a sua volta può essere proposta senza limiti temporali), all’esame delle doglianze del condannato che attengono al corretto esercizio del ridetto potere del Pubblico ministero.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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