(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 511)
Il fatto
La Corte d’Appello di Roma, in riforma della decisione del Tribunale di Civitavecchia e in accoglimento del concordato sulla pena raggiunto dalle parti, esclusa la recidiva contestata agli imputati, riconosciute a tutti le attenuanti generiche prevalenti sulle con testate aggravanti, rideterminava la sanzione nella misura di anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro tremila di multa ciascuno dichiarando gli imputati interdetti dai PP.UU. per anni 5.
Con provvedimento ex art. 130 c.p.p., la Corte integrava il dispositivo dichiarando l’inammissibilità dei motivi d’appello oggetto di rinunzia e confermando le statuizioni sui beni in sequestro.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Proponevano ricorso per Cassazione i difensori degli imputati.
In particolare, il legale di alcuni di questi imputati, con distinti atti e comuni motivi, deduceva
violazione dell’art. 525 c.p.p., comma 2, e art. 179 c.p.p., comma 2 eccependosi che il Tribunale di Civitavecchia nel pronunziare la sentenza di condanna nei confronti degli odierni ricorrenti, aveva violato il principio della necessaria corrispondenza tra il giudice che assume le prove e quello che emette la decisione stabilito dall’art. 525 c.p.p., comma 2, incorrendo nella nullità assoluta ed insanabile della relativa deliberazione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio; nella specie, dalla verifica dei verbali del processo di primo grado, risultava che all’udienza del 14 marzo 2013 il collegio era diversamente composto rispetto a quello assegnatario del procedimento ma nonostante ciò, in quella sede, si procedeva all’esame delle persone offese senza che venisse data comunicazione della diversa composizione dell’organo giudicante mentre, solo nella successiva udienza del 18 aprile 2013, il presidente del collegio, nella sua originaria costituzione, provvedeva a chiedere il consenso delle parti alla rinnovazione del dibattimento; a fronte di ciò, la difesa si doleva del fatto che, in considerazione della natura insanabile della nullità denunziata, riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 179 c.p.p., comma 2, il vizio si fosse cristallizzato all’udienza del 14 marzo 2013 e non potesse ritenersi sanato dalla rinnovazione disposta all’udienza seguente poiché presupposto indefettibile della stessa è costituito dalla dichiarazione relativa alla diversa composizione del collegio.
A sua volta l’avvocato dell’altro imputato deduceva vizio di motivazione in relazione all’art. 129 c.p.p. avendo il giudice d’appello omesso di eseguire la dovuta verifica in ordine all’insussistenza di cause di proscioglimento nel merito.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
I ricorsi proposti nell’interesse degli imputati (esaminati per primi), ad avviso del Supremo Consesso, non meritavano accoglimento siccome manifestamente infondati.
Si osservava prima di tutto come la questione, circa la deducibilità in relazione a sentenza che aveva recepito un concordato sulla pena in appello di nullità mai in precedenza eccepite che, per loro natura, risultano rilevabili in ogni stato e grado del giudizio evidenziandosi a tal proposito che, in considerazione dell’identità dei caratteri dell’odierno istituto rispetto a quello previgente, disciplinato dall’art. 599 c.p.p., comma 4, veniva reputato opportuno richiamare al riguardo la lucida analisi ermeneutica contenuta nell’ordinanza n. 40767/2001 che, dopo aver dato conto delle differenti opzioni e delle relative ragioni, aveva concluso nel senso che “il disposto dell’art. 599 c.p.p., comma 4, conferisce al potere dispositivo delle parti un effetto irretrattabile sull’ambito di cognizione del giudice di legittimità”, osservando “che l’imputato con la sua rinuncia ha ridotto… l’ambito di cognizione del giudice di appello al solo punto concernente la pena, di modo che il giudizio di appello non costituisce valutazione contenutistica del merito della causa, tanto è vero che, proprio perché non può parlarsi per il giudice di appello di una “anticipazione di giudizio”, è stata esclusa la possibilità di configurare nei confronti dello stesso giudice, che non ha aderito alla richiesta delle parti una incompatibilità analoga a quella che invece è stata prevista per il giudice di primo grado che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata ex art. 444 c.p.p.”.
Inoltre, si sottolineava altresì come l’ordinanza in esame avesse chiarito che “l’imputato rinunciando ai motivi di appello e riproponendo, poi, davanti al giudice di legittimità questioni oggetto dei motivi rinunciati, ma rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, otterrebbe il risultato di assicurarsi un beneficio in merito alla quantificazione della pena senza perdere la possibilità di reiterare le questioni rinunciate davanti al giudice di legittimità, “saltando” in tal modo un grado di giudizio e sottraendo… alla valutazione del giudice di appello le questioni riproposte in cassazione e, ciò che è ancora più grave, sottraendo le questioni stesse al normale contraddittorio delle parti processuali, che certamente si sarebbe liberamente potuto dispiegare in appello. In altri termini, se l’imputato, potesse riproporre con il ricorso per cassazione questioni, sia pure rilevabili d’ufficio dal giudice, sollevate con i motivi di appello rinunciati, conseguirebbe l’effetto, incompatibile con l’irrevocabilità e immodificabilità del consenso prestato, di rimettere in discussione l’accordo già raggiunto, che, per di più, potrebbe essere consistito non nella semplice rinuncia ai motivi di appello da esso stesso proposti, ma anche nella contestuale rinuncia del p.m. ai propri motivi di appello, che potrebbero non essere – e quasi sicuramente non sarebbero – più riproponibili in sede di legittimità”.
Orbene, ad avviso del Supremo Consesso, siffatti condivisibili argomenti, che concernono la portata della rinunzia a motivi regolarmente proposti, apparivano essere vieppiù persuasivi con riferimento a questioni processuali mai in precedenza sollevate dovendo ritenersi che l’irretrattabilità del consenso al concordato sulla pena con rinunzia al residuo gravame copra non solo il dedotto ma, altresì, il deducibile dal momento che differenti opzioni ermeneutiche in punto di rilevabilità officiosa di nullità pregresse di fatto travolgerebbero l’accordo il cui recepimento, da parte del giudice, comporta la cristallizzazione nel giudicato interno delle questioni in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti e alla responsabilità dell’imputato e ai relativi, indefettibili, presupposti circa la ritualità del giudizio che a siffatti esiti aveva condotto.
In piena coerenza con le soprarichiamate considerazioni, gli Ermellini denotavano come fosse stato affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza resa all’esito del concordato sui motivi di appello ex art. 599-bis c.p.p., volto a censurare la qualificazione giuridica del fatto, in quanto l’accordo delle parti implica la rinuncia a dedurre nel successivo giudizio di legittimità ogni diversa doglianza anche se relativa a questione rilevabile di ufficio con l’unica eccezione dell’irrogazione di una pena illegale (Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019) così come la giurisprudenza più recente, nel solco del richiamato orientamento, ha ulteriormente evidenziato che, a seguito della reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello ad opera della L. n. 103 del 2017, art. 1, comma 56, il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599 bis c.p.p., non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 c.p.p., nè sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove, in quanto, a causa dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 5, n. 15505 del 19/03/2018; Sez. 3, Ord.. 30190 del 08/03/2018; Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018).
Tal che, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, si riteneva che il concordato sulla pena, una volta ratificato dal giudice d’appello, consolidi gli effetti della preclusione processuale sulle questioni rinunciate, anche se rilevabili d’ufficio, nonché su quelle mai dedotte, giacché le regole concernenti la rilevabilità d’ufficio di alcune questioni in ogni stato e grado del procedimento debbono essere inserite e interpretate nel sistema processuale vigente che, nell’ambito di alcuni istituti, come quello in esame, riconosce al potere dispositivo delle parti un valore particolarmente pregnante rilevandosi al contempo come non fosse fuor di luogo evidenziare in proposito che l’art. 599 bis c.p.p. rinvia, quanto alle forme, all’art. 589 codice di rito ovvero alle norme sulla rinuncia all’impugnazione accreditando ulteriormente la tesi di una equiparazione degli effetti che per la rinuncia all’impugnazione sono pacificamente quelli di precludere al giudice ogni attività delibativa di qualsiasi questione a lui devoluta o rilevabile d’ufficio (in tal senso, Sez. 4, n. 53565 del 27/09/2017).
Oltre a ciò, i giudici di piazza Cavour osservavano come, nella specie, dovesse, nondimeno, rilevarsi come, anche a voler prescindere dalla rilevata preclusione, la prospettazione difensiva risultasse essere erronea laddove postula che, per effetto del mutamento del collegio giudicante limitato all’udienza del 14 marzo 2013, cui aveva partecipato un Got in luogo della Dott.ssa C., la deliberazione della sentenza di primo grado e gli atti conseguenti erano affetti da nullità assoluta ed insanabile rimarcandosi al riguardo che, alla successiva udienza del 18 Aprile 2013, il collegio nella sua ordinaria composizione aveva chiesto il consenso alla rinnovazione dell’attività istruttoria svolta dal giudice diversamente composto mediante lettura e, in esito alla sua acquisizione, aveva disposto procedersi oltre, dichiarando, infine, l’utilizzabilità delle testimonianze mediante indicazione dei relativi verbali.
Orbene, ad avviso del Supremo Consesso, alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale dominante all’epoca del giudizio di primo grado nel caso di mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, occorreva procedere, a pena di nullità, alla rinnovazione del dibattimento mediante la ripetizione dell’assunzione delle prove ovvero, ai sensi dell’art. 511 c.p.p., la lettura dei verbali o la sola specifica indicazione degli atti da intendersi rinnovati purché, in tale secondo caso, ciò avvenisse con il consenso inequivoco – anche solo implicito o per facta concludentia – dell’imputato ravvisabile nel caso in cui il suo atteggiamento acquiescente fosse interpretabile come chiara adesione alla decisione del giudice di non procedere ad una nuova assunzione delle prove già raccolte (ex multis, Sez. 3, n. 17692 del 14/12/2018 – dep. 2019) mentre, al contrario, risulta affetta da nullità assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, per violazione del principio di immutabilità del giudice ai sensi degli artt. 525 e 179 c.p.p., la sentenza emessa da giudici diversi da quelli che hanno partecipato al dibattimento in mancanza del consenso delle parti alla rinnovazione di questo mediante lettura degli atti relativi alle prove già acquisite (Sez. 5, n. 6432 del 07/01/2015).
Ebbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto alla fattispecie in esame, la Cassazione osservava come, nella specie, i difensori, espressamente interpellati al riguardo, avessero consentito alla rinnovazione non avendo pregio l’assunto difensivo secondo cui il consenso avrebbe dovuto essere acquisito prima dell’escussione dei testi di fronte al collegio diversamente composto in quanto, a fronte dell’attività istruttoria irritualmente svolta, il Tribunale nella sua composizione ordinaria ha doverosamente instaurato il contraddittorio sulla recuperabilità della stessa.
Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente come le Sezioni Unite, recentemente chiamate a risolvere vari profili di contrasto insorti in materia, avessero chiarito che, in caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019) evidenziandosi contestualmente come tale decisione avesse chiarito, da un lato, che la riassunzione delle prove orali non è dovuta se non chiesta dalla parte legittimata tale essendo soltanto quella che abbia inserito il nominativo del dichiarante in lista ex art. 468 c.p.p., dall’altro, che i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, fanno legittimamente parte del fascicolo del dibattimento (dove non “confluiscono“, bensì “permangono“) fermo restando che l’art. 511 c.p.p., comma 2, nel consentire la lettura (e la conseguente utilizzazione ai fini della decisione) anche in difetto del consenso delle parti, sul punto ininfluente se, per qualsiasi ragione, “l’esame non abbia luogo“, ricomprende, oltre al caso della prova divenuta medio tempore irripetibile, le altre ipotesi in cui le stesse parti non abbiano richiesto la rinnovazione dell’esame ovvero il giudice, valutando detta rinnovazione (richiesta della parte legittimata ex art. 468 c.p.p.) manifestamente superflua, abbia deciso di non ammetterla.
Tal che se ne faceva conseguire che i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, che legittimamente permangono nel fascicolo del dibattimento a seguito del predetto mutamento della composizione del giudice, possono essere utilizzati ai fini della decisione previa lettura ex art. 511 c.p.p., seguendo due distinti itinera iuris, ovvero: 1) soltanto dopo il nuovo esame della persona che le ha rese, se chiesto, ammesso ed ancora possibile, ai sensi dell’art. 511, comma 2, c.p.p.; 2) anche senza la previa rinnovazione dell’esame ove questo non abbia luogo perché non chiesto, non ammesso o non più possibile.
Facendo applicazione dei principi fissati dalla richiamata pronunzia, gli Ermellini facevano presente come nella specie la rinnovazione fosse stata formalmente disposta ed operata mediante lettura dei verbali delle dichiarazioni rese non avendo la parte che aveva addotto i testi escussi formulato richiesta di nuovo esame tanto è vero che la stessa difesa ne aveva consentito alla lettura.
Ciò posto, alla luce di quanto appena evidenziato, se ne faceva conseguiva l’insussistenza della nullità denunziata e la conseguente inammissibilità dei ricorsi.
Ad analoghi esiti di manifesta infondatezza la Suprema Corte perveniva con riguardo al ricorso proposto nell’interesse dell’imputato (e visto in precedenza per secondo) alla luce della costante giurisprudenza di legittimità alla cui stregua il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta di pena concordata, non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 c.p.p. in quanto, in ragione dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia. (Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018).
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui chiarisce quando i verbali di dichiarazioni rese dai testimoni in dibattimento dinanzi a giudice in composizione successivamente mutata, che legittimamente permangono nel fascicolo del dibattimento a seguito del predetto mutamento della composizione del giudice, possono essere utilizzati ai fini della decisione previa lettura ex art. 511 c.p.p..
In siffatta pronuncia, difatti, viene precisato che tale “utilizzazione” può avvenire: a) soltanto dopo il nuovo esame della persona che le ha rese, se chiesto, ammesso ed ancora possibile, ai sensi dell’art. 511, comma 2, c.p.p.; b) anche senza la previa rinnovazione dell’esame ove questo non abbia luogo perché non chiesto, non ammesso o non più possibile.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica processuale, dunque, non può che essere positivo.
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