(Annullamento in parte senza rinvio e in parte con rinvio)
(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen., artt. 438, c. 5, 441, c. 5)
Il fatto
All’esito di indagini, la polizia giudiziaria arrestava l’indagato che, dopo avere ammesso il proprio coinvolgimento nella vicenda omicidiaria, indicava, nell’immediatezza il luogo ove aveva occultato il corpo della vittima, spiegando le ragioni del delitto e fornendo una personale ricostruzione del fatto.
Il Pubblico Ministero, ritenuta la evidenza della prova procedeva con giudizio immediato.
Introdotto il giudizio immediato ex art. 455 cod. proc. pen., seguiva la richiesta dell’imputato di procedere con il rito abbreviato condizionato al compimento di accertamenti peritali sui telefoni cellulari e all’audizione di un testimone, il giudice ammetteva le prove richieste, disponendo di ufficio, anche l’audizione del consulente medico del pubblico ministero; quest’ultimo, a sua volta, contestava poi, all’imputato, in via suppletiva, l’ulteriore reato di occultamento di cadavere (art. 412 cod. pen.) nonché, con riferimento ad uno dei reati contestati, le circostanze aggravanti dei motivi abbietti (art. 61, primo comma, n. 1 cod. pen.), di avere adoperato sevizie (art. 61, primo comma. n. 4, cod. pen.) e di avere agito con premeditazione (art. 577, primo comma, n. 3, cod. pen.).
La difesa, dal canto suo, denunciava ex art. 441-bis cod. proc. pen. l’inammissibilità della contestazione suppletiva argomentando che nel corso del giudizio abbreviato non era emersa alcuna circostanza nuova ed ulteriore rispetto a quanto già noto al pubblico ministero al momento della formulazione dell’imputazione originaria.
Con ordinanza del 24 ottobre 2016, il giudice respingeva le censure della difesa e disponeva la prosecuzione del giudizio anche in relazione alle nuove contestazioni formulate dalla pubblica accusa e, esclusa la aggravante di cui all’art. 61 n. 4 cod. pen. e derubricato il delitto di cui al capo b) in danneggiamento aggravato seguito da incendio, dichiarava la penale responsabilità dell’imputato condannandolo alla pena di anni trenta di reclusione oltre alle pene accessorie.
La Corte di Assise di Appello di Perugia, adita dalla difesa, ritenuta, a sua volta, la legittimità delle contestazioni suppletive, siccome inerenti a fatti già desumibili dagli atti del processo, esclusa l’aggravante di cui all’art. 577 n. 3 cod. pen., confermava nel merito la decisione di primo grado.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Contro la sentenza di appello, l’imputato tramite i suoi difensori proponeva ricorso per Cassazione deducendo i seguenti motivi: 1) ex art. 606 comma 1 lett. c) cod. proc. pen. per inosservanza degli artt. 441 e 441 bis, 423 cod. proc. pen. conducente ad una nullità a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. tempestivamente denunciata; 2) ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nel punto in cui la Corte territoriale aveva escluso la riconducibilità del fatto contestato al capo a) sotto la disciplina dell’art. 584 cod. pen.; 3) ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. per violazione dell’art. 61, primo comma, n. 1 cod. pen. nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al riconoscimento della residua aggravante dei motivi abbietti e futili; 3) ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e l’omessa indicazione dei criteri di determinazione della pena ex art. 133 cod. pen.,perché la Corte non avrebbe valutato condizioni sociali del reo, la sua incensuratezza e il suo comportamento processuale.
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La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
La Prima Sezione della Cassazione, assegnataria del procedimento, trasmetteva gli atti alle Sezioni Unite segnalando l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza relativamente alla legittimità delle contestazioni suppletive elevate dal pubblico ministero nel corso del giudizio abbreviato condizionato riferibili a circostanze già in atti del processo e non riportate nell’originario capo di imputazione.
In particolare, la sezione remittente sottolineava come fosse riscontrabile dagli atti del processo come, sia la natura “passionale” del reato di omicidio, sia l’occultamento del corpo della vittima, emergessero in modo chiaro già dalle dichiarazioni confessorie rese dall’imputato pochi giorni dopo la consumazione del grave delitto mentre non era rinvenibile alcun nesso di derivazione tra la contestazione suppletiva e l’esito degli accertamenti istruttori svolti nel corso del giudizio abbreviato condizionato.
Sulla base di tale premessa veniva evidenziato che nella giurisprudenza di legittimità sarebbe presente un orientamento interpretativo costante (applicato, nel caso concreto dalla Corte di Assise di appello) in base al quale, nel giudizio abbreviato condizionato, ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen. possono essere formulate contestazioni suppletive che, pur non derivando da nuove emergenze processuali, riguardino fatti o circostanze non contestate, ma già desumibili dagli atti (Sez. 2 n. 23466 del 09/05/2005; Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008; Sez 6, n. 5200 del 15/11/2017) e, quindi, conosciute o conoscibili da parte dell’imputato nel momento della richiesta di ammissione al rito speciale.
Oltre a ciò, veniva anche sottolineato come, nelle decisioni richiamate, il tema della legittimità delle suddette contestazioni suppletive fosse stato risolto in modo del tutto implicito affermandosi che, nel caso di contestazione suppletiva relativa a fatti già emergenti dagli atti del processo, l’imputato non può esercitare il diritto di rinunciare alla prosecuzione del giudizio con il rito abbreviato così come previsto dall’art. 441 bis cod. proc. pen. (Sez. 6 n. 5200 del 15.11.2017).
Veniva poi rilevato come, con la sentenza Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017, sia stato affermato che, in sede di giudizio abbreviato condizionato, la contestazione suppletiva per circostanze già desumibili dagli atti sarebbe comunque legittima perché la regola contenuta nell’art. 423 cod. proc. pen. (attuativo della direttiva contenuta nell’art. 2, punto 52, della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 che impone la previsione per il pubblico ministero nell’udienza preliminare del potere di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni) se pur riferita esplicitamente alla sola udienza preliminare, deve ritenersi estesa, valendo gli stessi criteri, anche nella ipotesi di giudizio abbreviato condizionato, non ricorrendo nella specie alcuna lesione del diritto di difesa.
La sezione rimettente, per di più. affermava di non condividere il suddetto orientamento perché esso non trovava giustificazione, né sul piano dell’interpretazione letterale delle norme che disciplinano il rito abbreviato, né su quello logico – sistematico.
In particolare veniva messo in evidenza come la soluzione prospettata dalla giurisprudenza, circa la legittimità della contestazione suppletiva, possibile nel giudizio “abbreviato condizionato” in relazione a fatti già noti ed in atti, si ponesse in antitesi rispetto alla disciplina del rito abbreviato c.d. “secco” ove analoga opzione non è invece possibile.
Si sottolineava infine come la soluzione seguita nell’”abbreviato condizionato” fosse in contrasto con quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 140/2010.
Il collegio, richiamate quindi l’evidente asimmetria tra le due forme di rito abbreviato in tema di contestazioni suppletive per fatti già in atti nonché i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza, motivatamente segnalava il profilarsi di un potenziale contrasto rilevante ex art. 618 cod. proc. pen. posto che, secondo il collegio rimettente, le deroghe alla disciplina generale introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, (artt. 438 comma 5 e art. 441 comma 5 cod. proc. pen.), devono essere interpretate e considerate come eccezioni al regime ordinario dettato dall’art. 441 comma 1 cod. proc. pen. con la conseguenza che dette eccezioni non sono estensibili oltre il sistema specifico di riferimento.
Si conclude pertanto nel senso che l’adeguamento dell’imputazione nel giudizio abbreviato condizionato fosse giustificato solo in relazione ai fatti nuovi emersi nel corso del giudizio e direttamente dipendenti dall’ampliamento della base cognitiva attraverso le nuove prove (c.d. contestazioni suppletiva fisiologica) atteso che, in caso contrario, vi sarebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra un giudizio abbreviato che, nel caso sia stato condizionato dall’imputato, pur in assenza di elementi di novità, potrebbe portare a contestazioni suppletive patologiche, rispetto ad un giudizio abbreviato “puro” ove queste non siano comunque ammissibili.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito della questione proposta, si procedeva ad una sua delimitazione nei seguenti termini: “Se nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria o nel quale l’integrazione sia stata disposta dal giudice, sia consentito procedere alla modificazione dell’imputazione o a contestazioni suppletive con riguardo a fatti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari e non collegati agli esiti dei predetti atti istruttori“.
Premesso ciò, per la soluzione della questione, era necessario per le Sezioni Unite partire dalla disciplina dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. ove è previsto che nel rito abbreviato si osservano in quanto applicabili le disposizioni dettate per l’udienza preliminare fatta eccezione per quelle di cui agli artt. 422 e 423 cod. proc. pen..
Una volta citata questa norma procedurale, gli Ermellini osservavano come l’effetto derivante dalla suddetta regola fosse l’impossibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione originariamente mossa e nota all’imputato nel momento in cui questi ha formulato la propria richiesta di ammissione al rito premiale atteso che la regola anzidetta si applica anche nel caso in cui l’imputazione sia errata (cd. “imputazioni patologiche“) per essere caratterizzata da errori od omissioni desumibili già dalla sola lettura degli atti del fascicolo processuale come nel caso di omessa contestazione di reati connessi o di circostanze aggravanti evidenziandosi al contempo che la regola segnata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., unitamente alla rinuncia da parte dell’imputato alla formazione della prova in contraddittorio, a fronte del riconoscimento di una diminuente sulla pena, costituisce il tratto distintivo proprio del c.d. rito abbreviato.
Posto ciò, veniva altresì rilevato come la lettera dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., rimasta invariata anche dopo le modificazioni introdotte dal legislatore nel 1999, sia chiara con la conseguenza che (anche alla luce della sentenza 378/1997 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato la piena legittimità dell’istituto), ad avviso della Corte, va confermata la consolidata linea giurisprudenziale (v., fra le altre: Sez. 4, n. 3758 del 03/06/2014; Sez. 6 n. 13117 del 19.1.2010; Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007) per la quale la modificazione dell’imputazione, in violazione della norma in esame, ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., è causa di nullità generale a regime intermedio della sentenza pronunciata all’esito del giudizio.
Per dovere di completezza espositiva, veniva oltre tutto osservato che il dettato dell’art. 441 cod. proc. pen. attiene esclusivamente ai limiti posti al pubblico ministero nel modificare l’imputazione nel corso del giudizio e non riguarda invece l’autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica del fatto posto che il legislatore ha previsto il mezzo di impugnazione dell’appello da parte del pubblico ministero contro la sentenza di condanna nella quale sia stato modificato il titolo del reato originariamente contestato (art. 423 comma 3 cod. proc. pen).
Non solo.
Secondo la Corte di legittimità la regola scaturente dalla lettura dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. porta alle seguenti pratiche conseguenze: 1) qualora, successivamente alla ammissione del giudizio abbreviato c.d. “secco“, vengano in evidenza fatti (reati connessi o circostanze aggravanti) desumibili dagli atti processual, ma non ricompresi nell’imputazione, in linea generale il pubblico ministero non potrà procedere alla formulazione di contestazioni suppletive; 2) nel caso in cui l’omessa contestazione attenga ad un reato connesso, il pubblico ministero dovrà procedere con un separato giudizio posto che in tal caso la azione penale non è stata ancora consumata; 3) nel caso in cui la omissione attenga ad una circostanza aggravante, questa non sarà più recuperabile.
Delineati tali profili consequenziali, gli Ermellini facevano presente come il sistema descritto fosse stato ritenuto immune da vizi rilevanti in sede costituzionale, sia nel caso in cui la preclusione alla modificazione dell’accusa venga collegata agli effetti premiali del rito, sia che essa venga inquadrata nella peculiare natura del giudizio “allo stato degli atti” essendo invece del tutto coerente con le finalità del rito (v. Corte Cost. sentenza n. 378/1997).
Detto ciò, i giudici di piazza Cavour evidenziavano inoltre come, con la legge 16 dicembre 1999 n. 479, il legislatore avesse modificato il rito processuale in esame introducendo la possibilità di arricchire la piattaforma probatoria o su richiesta dell’imputato (art. 438, commi 1 e 5, cod. proc. pen. cd. rito abbreviato condizionato) o su disposizione del giudice (art. 438, comma 1 e 441, comma 5, cod. proc. pen.) evidenziando contestualmente che, operando in tal guisa, il legislatore aveva superato l’originaria rigidità del giudizio abbreviato assecondando le esigenze dell’imputato o dello stesso giudicante attraverso la possibilità di un ampliamento della base cognitiva del processo con la immissione di materiale istruttorio “nuovo” rispetto a quello già presente in atti.
Il legislatore, in particolare, nella previsione che l’apporto di nuovi elementi di prova possa far emergere nuove circostanze aggravanti o nuovi reati connessi a quelli già oggetto del giudizio, aveva dettato ulteriori regole (art. 441, comma 5, e art. 441-bis cod. proc. pen.) che permettono, da un lato, al pubblico ministero di modificare la imputazione ex art. 423, comma 1, cod. proc. pen. e, dall’altro, all’imputato alternativamente di recedere dal rito abbreviato ex art. 441 bis comma 1 cod. proc. pen. o, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo richiamato, proseguire nel giudizio abbreviato in corso chiedendo l’ammissione di nuove prove relative alle contestazioni formulate ai sensi dall’art. 423 cod. proc. pen.
La soluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, ad avviso delle medesime, dunque, andava rinvenuta all’interno delle disposizioni richiamate che dovevano essere fra loro coordinate in una lettura che tenesse presente i principi affermati dalla Corte Costituzionale.
Chiarito ciò, si evidenziava come il dato letterale dell’art. 423 cod. proc. pen. non apparisse di per sé solo sufficiente a dare una convincente risposta al quesito posto dato che, se l’articolo in esame è chiaro nel delimitare l’oggetto della modificazione della contestazione (diversità del fatto; reato connesso ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen.; circostanze aggravante), l’espressione “nel corso del giudizio“, ad avviso della Suprema Corte, appariva essere ancora vaga e non idonea a far univocamente ritenere se le contestazioni suppletive debbano riguardare esclusivamente fatti nuovi o possano ritenersi estensibili anche a fatti già noti, in atti e non regolarmente contestati fermo restando che l’ambiguità segnalata veniva invece superata nel momento in cui l’art. 423 cod. proc. pen. viene calato allo interno della disciplina del giudizio abbreviato e letta in relazione alle peculiarità del rito il quale, a sua volta, si caratterizza per tre elementi distintivi: è un giudizio allo stato degli atti; è un giudizio nel quale l’imputato accetta di essere giudicato rinunciando al contraddittorio sulla formazione della prova; è un giudizio che prevede un trattamento sanzionatorio premiale per la scelta fatta dall’imputato.
Ciò posto, il fatto che il legislatore abbia previsto (artt. 441, comma 5, e 438, comma 5, cod. proc. pen.) che la base cognitiva del giudizio possa essere ampliata da una richiesta di integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, ad avviso della Corte, non muta la natura del giudizio che è e rimane comunque “allo stato degli atti” dato che l’imputato continua a rinunciare al contraddittorio sulla formazione delle prove acquisite e per esempio a far valere le nullità a regime intermedio, la incompetenza per territorio e le inutilizzabilità c.d. fisiologiche.
Tali rinunce processuali, eventualmente temperate dalla possibilità di richiedere una integrazione probatoria (utile ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del processo), dal canto loro, vengono ritenute dalle Sezioni Unite il frutto di una scelta dell’imputato fondata proprio sullo “stato degli atti” dal momento che l’anzidetta valutazione degli “atti“, secondo la Cassazione, non può prescindere dal tenore della imputazione che costituisce, per il suo contenuto, la sintesi degli addebiti che vengono mossi proprio in loro funzione fermo restando che tale considerazione vale tanto per il rito abbreviato c.d. “secco“, quanto nel caso del rito abbreviato condizionato, visto che, nel caso in cui l’imputato scelga di seguire la strada del rito abbreviato condizionato, è di tutta evidenza che la richiesta di integrazione probatoria viene formulata in funzione degli atti contenuti nel fascicolo apprezzati alla luce del tenore dell’accusa mossa sicché anche la richiesta di integrazione probatoria risente del tenore dell’accusa tenuto conto altresì del fatto che la valutazione del giudicante in ordine all’ammissione delle prove richieste, ex art. 438, comma 5, cod. proc. pen., a sua volta, si fonda necessariamente su tutti gli atti del processo compresa la relativa imputazione e, dunque, proprio questa diretta dipendenza dallo stato degli atti, incidente sulle scelte nel rito abbreviato condizionato dell’imputato e sulla susseguente decisione del giudice, porta a ritenere, secondo le Sezioni Unite, che il pubblico ministero non è legittimato a variare la imputazione originariamente formulata recuperando aspetti già desumibili dal contenuto del fascicolo depositato al momento della richiesta di ammissione al rito, ma non correttamente considerati.
All’interno di questa dimensione giuridica e della pregnanza della scelta processuale di accedere al rito abbreviato, le Sezioni Unite osservavano come non possa essere sottaciuto che la imputazione è presidio di garanzia per l’imputato che ha diritto a conoscere nei suoi esatti termini il contenuto dell’accusa sulla cui base opera le proprie scelte anche in relazione al rito processuale e alla modalità di accesso ad esso visto che ritenere che il pubblico ministero possa, nel rito abbreviato condizionato, modificare ad libitum l’imputazione originaria perché ritenuta non adeguata rispetto a quanto già è agli atti del processo vuol dire minare una garanzia dell’imputato e indirettamente la bontà delle decisioni del giudice nella fase di ammissione al rito.
Sempre in una lettura coordinata delle disposizioni che disciplinano il rito abbreviato, sempre secondo quanto rilevato dalle Sezioni Unite, viene ancora in evidenza (come segnalato dalla sezione rimettente) che, diversamente opinando, si andrebbe incontro ad una illogica disarmonia di sistema dato che, mentre è assolutamente pacifico che in caso di rito abbreviato “secco” il pubblico ministero non può operare alcuna modificazione dell’imputazione neppure per recuperare una contestazione più adeguata allo stato degli atti, tale facoltà gli sarebbe inspiegabilmente riconosciuta nel caso in cui l’imputato abbia optato per un rito abbreviato condizionato attraverso una lettura asistematica dell’art. 423 cod. proc. pen. che non tenga conto delle caratteristiche proprio del rito abbreviato.
La soluzione data dalla giurisprudenza criticata nell’ordinanza di rimessione, per la Corte, non trovando pertanto giustificazione nel contenuto delle norme in esame, lede il presidio di garanzia dell’imputato costituito dalla stabilità dell’accusa rispetto a quanto già in atti e crea quindi una ingiustificata disarmonia di sistema che si concreta in un’inspiegabile diversità di trattamento tra rito abbreviato secco e rito abbreviato condizionato in relazione ad una medesima situazione processuale rappresentata da una contestazione patologica.
Mutatis mutandis, le considerazioni fin qui svolte valgono, ad avviso del Supremo Consesso, anche nel caso in cui sia il giudice a disporre l’acquisizione di nuovi elementi ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. osservandosi a tal proposito che la decisione del giudice, di ampliare il quadro probatorio, non può costituire l’”occasione” per il pubblico ministero di mutare e adeguare il tenore dell’accusa rispetto a quanto già in atti così pervenendosi ad una disparità di trattamento rispetto al caso in cui il giudice non senta alcuna necessità di allargare la piattaforma probatoria.
Da ciò si giungeva alla conclusione secondo la quale le nuove contestazioni ex art. 423 cod. proc. pen. non possono che trovare giustificazione se non nei nuovi elementi di fatto emersi dall’allargamento della piattaforma probatoria ex artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, cod. proc. pen. e le nuove contestazioni devono essere direttamente dipendenti dall’arricchimento del piano cognitivo del giudizio; invero, riconoscere che il pubblico ministero possa, nel giudizio abbreviato condizionato, modificare l’imputazione sulla base di quanto già in atti, ad opinione della Suprema Corte, si tradurrebbe nell’inosservanza delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale che si è pronunciata a tal proposito con la sentenza 140 del 2010 con cui, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis cod. proc. pen, in relazione agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, ha sottolineato che la previsione della possibilità per il pubblico ministero di modificare ex art. 423 cod. proc. pen. il capo di imputazione, nelle ipotesi in cui sia stato operato un ampliamento della piattaforma probatoria, si pone come eccezione rispetto alla regola enunciata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. sicché le nuove contestazioni sono legittimamente formulate in quanto ancorate a fatti nuovi o nuove circostanze emerse a seguito della modificazione della base cognitiva conseguenti all’attivazione dei meccanismi di attivazione probatoria tenuto conto altresì del fatto che la Corte Costituzionale ha anche affermato quanto segue: «…con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato con il rito semplificato in rapporto ai reati già contestatigli dal pubblico ministero, rispetto ai quali solo egli esprime l’apprezzamento della convenienza del rito: sicché non sarebbe costituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vincolato dalla sua scelta anche in relazione ad ulteriori reati concorrenti che gli potrebbero essere contestati a fronte di evenienze patologiche».
In conclusione, sulla base di quanto fin qui considerato, le Sezioni Unite, non solo pervenivano ad enunciare il seguente principio di diritto: “nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria a norma dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. o nel quale l’integrazione sia stata disposta a norma dell’art. 441, comma 5, dello stesso codice è possibile la modifica dell’imputazione solo per i fatti emergenti dagli esiti istruttori ed entro i limiti previsti dall’art. 423 cod. proc. pen.“, ma chiarivano altresì come sfuggissero alla rigida applicazione delle regole indicate i casi in cui il pubblico ministero proceda, dopo l’ammissione del rito, a mere rettifiche di imprecisioni contenute nell’atto di accusa e che non incidano sugli elementi essenziali dell’addebito in considerazione dei quali l’imputato ha compiuto le sue scelte difensive rilevandosi al contempo come sia legittima la formulazione di una contestazione suppletiva da parte del pubblico ministero anche successivamente alla richiesta dell’imputato di ammissione al rito speciale quando questa non sia stata ancora disposta dal giudice con ordinanza visto che, prima della formale instaurazione del rito speciale, deve ritenersi che è ancora in corso l’udienza preliminare e l’imputato può pur sempre revocare la scelta processuale precedentemente compiuta.
Conclusioni
La decisione in esame desta notevole interesse nella parte in cui viene formulato il principio di diritto secondo il quale, nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria a norma dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. o nel quale l’integrazione sia stata disposta a norma dell’art. 441, comma 5, dello stesso codice è possibile la modifica dell’imputazione solo per i fatti emergenti dagli esiti istruttori ed entro i limiti previsti dall’art. 423 cod. proc. pen..
Dunque, solo entro questi margini interpretativi, è possibile modificare l’imputazione nel caso di abbreviato condizionato ad integrazione probatoria disposta a norma dell’art. 428, c. 5, c.p.p. ovvero ai sensi dell’art. 441, c. 5, c.p.p. fermo restando però che, da un lato, è sempre consentito alla pubblica accusa procedere, dopo l’ammissione del rito, a mere rettifiche di imprecisioni contenute nell’atto di accusa e che non incidano sugli elementi essenziali dell’addebito in considerazione dei quali l’imputato ha compiuto le sue scelte difensive, dall’altro, è sempre legittima la formulazione di una contestazione suppletiva da parte del pubblico ministero anche successivamente alla richiesta dell’imputato di ammissione al rito speciale quando questa non sia stata ancora disposta dal giudice con ordinanza.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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