Introduzione
Un principio che può ritenersi pacifico nel nostro ordinamento è quello secondo cui ciò che non è vietato è lecito.
La liceità di un fatto o di un comportamento non deve necessariamente trovare il proprio referente in una fonte contrattuale o nella legge, poiché se il fatto non è antigiuridico può, per ciò solo, produrre effetti obbligatori verso i terzi che saranno vincolanti e giuridicamente tutelati.
Nell’ordinamento vigente la categoria dei fatti leciti assume una valenza residuale, collocandosi a chiusura delle ben più ricorrenti fonti obbligatorie del contratto e dell’illecito aquiliano.
La ragione di una loro espressa positivizzazione risiede, invero, proprio nell’esigenza di evitare zone franche che possano realizzare in capo a taluni un’occasione di arricchimento ingiustificato.
Si può osservare che il sistema civile è improntato a ripudiare qualsivoglia spostamento patrimoniale che risulti privo di una causa che lo sorregga, ancorché questa costituisca la funzione economico-individuale a esso sottesa. Tale aspetto è inscindibilmente connesso a ragioni di certezza dei rapporti giuridici, sia dal punto di vista dei rapporti interni che dei rapporti con i terzi.
In definitiva, nell’ordinamento civilistico non esistono atti o fatti idonei a produrre effetti giuridici di carattere patrimoniale privi di una giustificazione causale e, se ciò dovesse accadere, l’ordinamento pone rimedio mediante meccanismi restitutori, i quali sono ispirati a un sistema di giustizia distributiva proteso all’equa ripartizione della ricchezza.
I rimedi stabiliti dal codice sono tipici e vengono individuati nella gestione degli affari altrui, nella ripetizione dell’indebito oggettivo e nell’arricchimento senza causa.
Prima di passare alla disamina degli stessi occorre meglio puntualizzare il fenomeno dei fatti leciti, la natura e la ratio a essi preposta.
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I fatti leciti: ratio e natura giuridica
I fatti leciti trovano disciplina nell’art.1173 ultimo inciso c.c., ove è previsto che sono fonti delle obbligazioni anche “qualunque atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
Questa ampia formulazione consente di ricomprendere, tra gli atti, i negozi unilaterali e le promesse e, tra i fatti, il contatto sociale e i fatti leciti; con essa il legislatore del ’42 ha definitivamente sostituito quella categoria di matrice giustinianea che nel codice del 1865 veniva definita dei quasi-contratti.
Quest’ultima categoria, allora inserita in una penta-partizione delle fonti, può ancora oggi ritenersi anomala poiché ricomprende i fenomeni che non trovano un preciso collocamento nelle fonti classiche ex contractu o ex lege, ma nei fatti meri.
La peculiarità del “fatto mero” risiede proprio nell’idoneità a produrre effetti giuridici e un vincolo obbligatorio che prescinde dalla fonte formale; non a caso, è stata accolta con maggior favore quella parte della dottrina che tende ad escludere la riconducibilità dell’obbligazione naturale tra i fatti leciti, mancando in essa i tratti di un vincolo giuridico in senso tecnico.
Si legga anche:”Arricchimento senza causa e prescrizione “
Come accennato in apertura, la ratio sottesa a tale scelta normativa risiede nel principio di giustizia distributiva improntato all’equa partizione della ricchezza, secondo cui ogni spostamento patrimoniale, rectius “occasione di arricchimento” deve avere un proprio addentellato nell’esistenza di una causa lecita.
Proprio il principio causalistico dà ragione alla presenza di siffatta categoria residuale di fonti obbligatorie, espressamente tipizzate in tre fattispecie, la cui funzione concerne il riequilibrio degli spostamenti economici ingiustificati.
Ciò può ritenersi coerente con l’ideologia utilitaristica in cui il codice vigente ha preso vita, ove la funzione economico-sociale perseguita dall’autonomia privata costituiva la percezione individuale della ricchezza nazionale, preordinata a giustificare ogni spostamento di capitale.
A livello costituzionale questo peculiare meccanismo ha trovato la propria ragion d’essere nell’art.42 comma 2 Cost., ove viene propugnata l’esigenza di garantire uno svolgimento dell’iniziativa economica privata che non sia in contrasto con l’utilità sociale, ma che ad un tempo sia cardine dell’equa distribuzione delle risorse nazionali.
Del pari, sono strettamente connessi allo scopo il principio di solidarietà e eguaglianza ex artt.2-3 Cost. i quali non troverebbero adeguata concretizzazione dinnanzi a occasioni di lucro se non illecite quantomeno indebite.
Orbene, rese queste premesse, è possibile osservare come la disciplina normativa individui tre fattispecie tipiche di fatti leciti: quella generale e residuale di arricchimento senza causa ex art.2041 c.c., espressione del principio generale inerente al “divieto di spostamenti ingiustificati” e quelle specialistiche concernenti la gestione d’affari altrui ex art.2028 c.c. e la ripetizione dell’indebito oggettivo ex art.2033 c.c.
La disamina generale delle categorie de qua è propedeutica all’analisi delle questioni specifiche sottese.
Partendo dalle due categorie particolari, si può innanzi tutto definire la negotiorum gestio come il comportamento di colui che, senza essere investito ex contractu o ex lege ovvero per nomina giudiziale, si ingerisce nella sfera giuridica di un terzo al fine di prendersi cura dei suoi affari.
L’art.2028 c.c. offre all’interprete le coordinate necessarie per comprendere la struttura della fattispecie.
La gestione d’affari richiede la contestuale presenza delle seguenti condizioni: l’assunzione della gestione in maniera spontanea, la consapevolezza dell’altruità dell’affare ovvero l’animus aliena negotii gerendi rinvenibile nell’uso del termine “scientemente” e la c.d. absentia domini, intesa come l’impossibilità dell’interessato di provvedervi da sé.
Ulteriore elemento imprescindibile, che si atteggia quale elemento negativo ai fini della corretta integrazione della fattispecie, è la mancanza di proibitio domini, ovvero la mancanza di una proibizione espressa del gerito che fungerebbe appunto da elemento impeditivo.
Ci si trova dunque in presenza di una situazione ove un soggetto si inserisce spontaneamente nella sfera giuridico-patrimoniale di un altro soggetto beneficiario, con la possibilità che la gestione utilmente iniziata possa protrarsi oltre la morte del gerito fino a conclusione dell’affare.
È agevole affermare che nell’absentia domini, sorretta dalla mancanza di dissenso, possa rinvenirsi la giustificazione causale; d’altra parte, questa forma di ingerenza “spontanea” e altruistica del gestore rappresenta uno dei fenomeni eccezionali dislocati nel codice che derogano al principio generale di “non ingerenza nella sfera giuridica altrui”.
Tale principio è rinvenibile nell’art.1372 c.c. e in tutte le norme in materia di contratto ove è sempre richiamata la necessaria circoscrizione degli effetti tra le parti, trovando esso una deroga espressa in quelle norme ove l’effetto verso il terzo non venga da questi rifiutato.
Si guardi ad esempio all’art.1411 c.c. sul contratto a favore di terzo, all’art.1333 c.c. sul contratto con obbligazioni del solo proponente ovvero all’art.1273 c.c. in materia di accollo.
Ciò che più preme in questa sede concerne tuttavia il requisito dell’animus aliena negotii gerendi, ovvero il tipo di rapporto causale che sorregge il contegno del gerito, del quale ci si domanda se, oltre che altruistico, possa essere anche egoistico.
La spontaneità dell’assunzione evoca il concetto di altruisticità che, se da un lato trova il proprio fondamento nell’intento solidaristico che ne è causa, dall’altro induce a domandarsi se sia possibile ammettere forme di negotiorum gestio ove si conciliano il perseguimento di un interesse altrui e di un interesse proprio.
Sul punto si sono contese lo spazio tre tesi.
Secondo la tesi negazionista l’intervento del gestore deve essere orientato esclusivamente nell’interesse del gerito, essendo tale presupposto richiesto dalla fattispecie.
Per la tesi mediana la negotiorum gestio condotta anche nel proprio interesse può ammettersi pur costituendo una forma impropria, la quale è tuttavia produttiva di effetti per effetto della ratifica dell’interessato.
Si guardi infatti all’art.2032 che disciplina espressamente la ratifica da parte del gerito, la quale produce gli effetti che sarebbero derivati dal mandato, anche se la gestione è stata compiuta da persone che credeva di gestire un proprio affare.
La tesi favorevole sostiene invece che la gestione egoistica sia ammissibile in quanto non necessariamente conduce ad un fatto illecito nei confronti del gerito, il quale ben potrebbe percepire dei benefici dall’ingerenza, ancorché l’attività sia compiuta contemporaneamente anche nell’interesse del gestore.
La tendenza giurisprudenziale sul punto si è mostrata favorevole per l’ipotesi concernente la locazione da parte di uno dei comproprietari del bene comune.
Nel caso di specie l’attività compiuta disgiuntamente dal comunista, a scanso di quella tesi che vorrebbe ricondotta nel mandato senza rappresentanza ex art.1705 c.c. con diritto degli altri comunisti ad esigere il canone, è stata diversamente intesa come una gestione d’affari altrui sorretta da un interesse parzialmente “proprio”.
In primo luogo può osservarsi che la costituzione di un diritto non reale, ma personale non ultra-novennale non è preclusa dall’art.1108 comma 3 c.c., con riguardo agli atti di straordinaria amministrazione.
L’aspetto più significativo risiede nel fatto che non risulta frustrato il principio dell’animus aliena negotii gerendi poiché viene a realizzarsi una comune condivisione dell’interesse che, in quanto fruttifero, va a beneficio di tutti i comunisti, i quali di conseguenza saranno tenuti all’adempimento delle obbligazioni derivanti dalla stipula del contratto. Sarebbe dunque ammissibile una gestione parzialmente egoistica del bene, anche per l’ipotesi in cui non vi sia l’absentia domini, dovuta ad esempio alla non necessità da parte dei comunisti di essere assistiti nella gestione del bene comune.
L’ordinamento infatti mette a disposizione dei geriti lo strumento della ratifica, la cui funzione è quella di sopperire una possibile illegittimità della gestione intrapresa dal gestore con dissenso degli altri.
In tal caso la ratifica determinerà la produzione degli effetti del mandato con tutte le applicazioni che ne conseguono.
Diversamente, in mancanza di ratifica, i comunisti dissidenti non entreranno a far parte del contratto stipulato dal gestore, né dovranno rimborsargli le spese sostenute.
La ripetizione dell’indebito avente ad oggetto un facere
Venendo alla seconda questione la disciplina è quella delineata dall’art.2033 c.c. che prevede la ripetibilità dell’indebito oggettivo da parte di colui che ha eseguito un pagamento non dovuto.
La fattispecie de qua si differenzia dall’indebito soggettivo, la quale si realizza nell’ipotesi in cui vi è l’erronea e scusabile convinzione da parte del soggetto di essere debitore.
Anche essa è un’azione ispirata alla ristabilizzazione dei rapporti economici, in particolare a seguito della caducazione per mancanza o illegittimità del titolo giustificativo che sorregge l’esecuzione di una prestazione, la quale diviene pertanto “non dovuta”.
Come per la negotiorum gestio, la ripetizione dell’indebito non può inquadrarsi in una matrice negoziale, riconducibile nella volontà implicita delle parti di ricondurre la permanenza degli effetti di ogni adempimento a una tacita condizione risolutiva. Questa soluzione è infatti espressione della tesi, ormai superata, improntata alla natura negoziale dell’atto di adempimento del rapporto obbligatorio.
Tradizionalmente l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo è stata concepita sulle prestazioni di dare, le quali si traducono nella consegna di un bene (normalmente un pagamento pecuniario) che è stato trasferito nella proprietà di un altro soggetto sulla base di un negozio presupposto affetto da nullità.
Non a caso l’azione di ripetizione ex art.2033 c.c. può essere cumulata a quella di nullità del negozio traslativo da cui il pagamento è scaturito, trattandosi di un’azione di carattere recuperatorio.
Per tale ragione l’azione di ripetizione va ben distinta dall’azione di nullità concernete la mancata giustificazione causale del negozio traslativo a monte, essa concernendo diversamente l’assenza di una giustificazione causale del pagamento in sé considerato.
Per tale attitudine è lecito domandarsi se la ripetizione dell’indebito possa avere ad oggetto anche una prestazione di facere: la risposta non è affatto pacifica e la tesi negativa e si basa sui seguenti argomenti.
In primo luogo emerge il dato letterale dell’art.2033 c.c., il quale parla di “pagamento”, una terminologia, questa, tipica delle prestazioni di dare.
A questa osservazione letterale si accompagna il fatto che la presenza di un facere privo di causa sarebbe già riconducibile nell’ambito del più generale rimedio di cui all’art.2041 c.c., inerente all’azione di arricchimento senza causa. Invero, trattandosi di una prestazione di fare e non propriamente di un “pagamento” non vi sarebbe un rimedio specifico che consenta di recuperare la prestazione indebita, ma solo quello sussidiario di carattere generale.
In terzo luogo si ritiene che oggetto della ripetizione posse essere soltanto il bene nella sua dimensione reale, salvo l’ipotesi in cui il facere consista nel creare una cosa materiale.
Di diverso avviso è altra parte della dottrina, la quale rinviene la possibilità di ricorrere all’azione ex art.2033 c.c. anche quando la prestazione indebita abbia ad oggetto un facere, non potendosi rinvenire nel sistema una norma di senso contrario.
Vieppiù se si considera che la disciplina di cui all’art.2037 c.c., potenzialmente invocabile poiché riferita alla restituzione di cose determinate, non troverebbe comunque applicazione al caso di specie, dandosi in essa rilevo allo stato di buona o mala fede dell’accipiens.
L’arricchimento senza causa e la questione del profitto
Dopo aver analizzato la due tipologie speciali di fatti leciti è ora possibile soffermarsi sul rimedio generale e sussidiario dell’arricchimento senza causa.
Dall’art.2041 c.c. può agevolmente desumersi il fondamento del principio, ovvero che nessuno può arricchirsi ingiustificatamente a danno di un altro soggetto.
In tal senso la fattispecie de qua costituisce la massima espressione del principio generale di causalità degli spostamenti patrimoniali.
In generale si definisce arricchimento la differenza tra la consistenza del patrimonio in seguito al fatto produttivo del medesimo e quella che il patrimonio avrebbe avuto qualora il fatto non si fosse verificato. All’uopo, nel parlare di arricchimento, si suole distinguere tra profitto economico, o arricchimento attivo e risparmio di spesa, o arricchimento passivo, ad esempio nell’ipotesi in cui si verifica una liberazione dal debito.
Affinché si parli di arricchimento, l’attribuzione patrimoniale deve essere patrimonialmente valutabile, non potendosi ammettere tale rimedio dinnanzi ad un mero vantaggio morale in favore dell’arricchito.
L’opinione prevalente ritiene che l’esperibilità dell’azione debba essere supportata anche dal contestuale impoverimento dell’altro soggetto, al quale spetterà un indennizzo che consta del danno emergente, ma non anche, secondo le Sezioni Unite, del mancato guadagno, essendo l’azione essenzialmente un rimedio a carattere restitutorio.
Soffermandosi sulla questione del profitto è possibile rilevare come esso debba dunque ritenersi circoscritto essenzialmente al danno subito, quest’ultimo inteso come la perdita da parte del soggetto di una posta attiva all’interno del suo patrimonio.
Tale situazione si verifica anche nell’ipotesi in cui l’arricchimento avviene mediante un’ingerenza ontologicamente illegittima nell’altrui patrimonio, la quale produce un profitto superiore al danno, o addirittura un danno inesistente.
In tali ipotesi, un ordinamento quale quello italiano improntato ad una logica riparatoria e non sanzionatoria impedisce che a fronte di queste situazioni il depauperato possa ricorrere a quei rimedi sanzionatori/punitivi tipici dei sistemi di common law.
Coerentemente alla tradizione interna è preferibile ricorrere all’azione di cui all’art.2041 c.c. poiché, in mancanza di un danno-conseguenza quantificabile ai sensi dell’art.1223 c.c. ovvero in presenza di un profitto superiore al danno, è necessario evitare che il fatto illecito costituisca per il danneggiato un’occasione di lucro.
Ci si riferisce a quei casi ove un soggetto utilizza indebitamente l’immagine altrui traendone profitto, senza tuttavia cagionare un danno affettivo al titolare dell’immagine. Di diverso avviso è quella parte della dottrina che ravvisa nella presenza di norme eccezionali, come ad esempio l’art.125 d.lgs.30/2005 Codice della proprietà industriale, una funzione sanzionatoria/repressiva che si accompagna a quella riparatoria.
Di talché potrebbe ammettersi la risarcibilità di ingerenze indebite non dannose, senza per ciò solo ricorrere al rimedio residuale dell’art.2041 c.c., in quanto nelle norme richiamate, ai fini della quantificazione del danno, deve tenersi conto anche del profitto conseguito dal trasgressore come conseguenza del suo comportamento lesivo.
In realtà, salve talune posizioni di segno contrario, è tendenzialmente prevalente la soluzione secondo cui le norme che hanno funzione di carattere sanzionatorio costituiscono una mera eccezione nel nostro ordinamento e non possono essere addotte a fondamento per poter ammettere un risarcimento in mancanza di un danno che abbia funzione sanzionatoria.
Il rimedio deve invece rinvenirsi nel meccanismo di restituzione del profitto, parametrato secondo il criterio poc’anzi esposto affinché, coerentemente con la ratio del principio di causalità degli spostamenti giuridici, il soggetto che ha subito un depauperamento possa essere reintegrato della perdita subita.
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