Il risalente dibattito a livello internazionale sui sistemi di rinegoziazione del contratto e sul ruolo del giudice, quale arbitro di equità, mostra oggi la sua attualità. L’emergenza sanitaria, infatti, ha e avrà forti ricadute sui rapporti negoziali che dovranno necessariamente essere rimodulati. Il tema della solidarietà e dell’essere parte attiva di una comunità riguarda anche il mondo dei contratti, stravolgendo il sistema improntato dal codice civile.
L’autonomia negoziale e il principio dei pacta sunt servanda, figli del liberismo, caratterizzano la disciplina del codice civile e limitano fortemente i poteri del giudice.
La Camera di Commercio internazionale nell’ormai lontano 2003 ha previsto la clausola c.d. Hardship che inserisce un obbligo di rinegoziazione del contratto, alternativo alla risoluzione, in caso di eccessiva onerosità derivante da un evento imprevedibile e fuori dal controllo delle parti. L’assenza di un simile sistema di rimodulazione nel codice civile, frutto della sua storia, rischia oggi di compromettere la tenuta di molti negozi.
Interessante è allora analizzare le previsioni in materia di contratti contenute nel Decreto c.d. Cura Italia (n.18 del 17 marzo 2020) alla luce del sistema di rinegoziazione presente nel codice civile e nel sistema del diritto privato internazionale.
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Si legga anche:
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Responsabilità contrattuale, caso fortuito e ipotesi di forza maggiore;
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Risoluzione del contratto: è ammissibile nell’ipotesi del Coronavirus?
La sospensione dei pagamenti nel decreto legge 17 marzo 2020 n. 18
Il contenuto del decreto c.d. Cura Italia è ampio ed eterogeneo dovendosi occupare dei tanti settori compromessi dall’emergenza sanitaria e dalle misure di distanziamento sociale. Interessante notare come sottesa a tutte le disposizioni vi sia la considerazione che l’emergenza sanitaria sia una potenziale causa di impossibilità sopravvenuta, i cui effetti sono oggi imprevedibili.
Alla luce del grave impatto economico derivante dall’emergenza sanitaria e dalle necessarie restrizioni previste dal Governo, il decreto prevede forme di sostegno per famiglie e imprese.
L’art. 56 si apre affermando che l’epidemia da COVID-19 e’ formalmente riconosciuta come evento eccezionale e di grave turbamento dell’economia, ai sensi dell’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Tale precisazione è funzionale a giustificare le forme di aiuto statale previste per le imprese che, al di fuori di particolari circostanze, sarebbero vietate perché idonee a falsare la concorrenza (art.107 TFUE). Nel bilanciamento tra interessi contrapposti la concorrenza oggi deve necessariamente cedere di fronte alla tutela della salute e della vita stessa, compromessa anche dalla crisi economica.
In tale situazione emergenziale la sospensione di determinati pagamenti diviene uno strumento predisposto dal decreto per favorire la ripresa di imprese e sostenere le famiglie. Nello specifico il Governo utilizza strumenti di sospensione già esistenti potenziandoli.
L’art.54, infatti, estende l’utilizzo del Fondo Gasparrini, costituito nel 2007, per i mutui stipulati per l’acquisto della prima casa a favore di determinate classi di lavoratori proprio per far fronte all’emergenza. Nello specifico la sospensione è accompagnata dal pagamento degli interessi compensativi da parte del Fondo, con effetti vantaggiosi in quanto gli interessi sorti durante il periodo di sospensione non gravano e non graveranno sul singolo debitore.
Per le imprese, anche, l’art. 56 prevede la sospensione dei pagamenti di mutui o finanziamenti fino al 30 settembre 2020. La sospensione qui non è accompagnata dal pagamento degli interessi compensativi da parte di alcun fondo il che si giustifica a fronte della particolare categoria contrattuale per cui opera il Gasparrini, ossia il mutuo stipulato per l’acquisto della prima casa. Si tratta di una misura a beneficio del singolo consumatore e delle famiglie. A seguito dell’emergenza sanitaria dunque il suindicato Fondo è stato finanziato nuovamente e ne è stata allargata la platea di beneficiari.
Il sistema di sospensione di pagamento per rate di mutui o canoni leasing per le imprese viene attuato invece tramite il potenziamento dell’iniziativa Imprese in Ripresa 2.0., creata dall’accordo sottoscritto il 15 novembre 2018 tra l’ABI e le Associazioni di rappresentanza delle imprese e di cui hanno preso parte molte banche.
Si tratta di istituti completamente diversi perché diversi i destinatari. Per le imprese, inoltre, sono stati previsti anche sistemi di finanziamento e di garanzia pubblica, assenti per i singoli consumatori.
Interessante notare come i benefici per le imprese siano rivolti anche alle c.d microimprese, aventi sede in Italia, così come definite dalla Raccomandazione della Commissione europea n. 2003/361/CE del 6 maggio 2003. Il Ministero dell’Economia e Finanze ha puntualizzato che in tale categoria rientra anche il lavoratore autonomo, titolare di partita Iva. Si tratta quindi di un bacino di beneficiari volutamente esteso ed eterogeneo; si cerca così di approntare una tutela efficace e effettiva a tutte le categorie di imprenditori.
Il Governo tenta di arginare e contenere gli effetti della crisi sanitaria prevedendo la sospensione di determinati pagamenti verso gli enti creditizi, in una veste paternalistica.
L’art.91, inoltre, afferma in via generale che il rispetto delle misure di contenimento di cui il presente decreto e’ sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilita’ del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.
Tale disposizione conferma quanto già desumibile dal codice civile escludendo la responsabilità per il debitore che si trovi nella situazione di non poter adempiere a causa del rispetto delle misure di contenimento. Non sarà possibile per il creditore richiedere un risarcimento per il danno subito dall’inadempimento se questo deriva dal rispetto delle misure governative.
Il sistema rimediale del codice civile
A prescindere dagli strumenti messi in campo dal Governo, appare interessante valutare il sistema dei rimedi offerto dal codice civile al fine di verificare gli strumenti di tutela utilizzabili dal privato a fronte dell’emergenza da Coronavirus. Esempio sono i contratti di locazione, non menzionati nel decreto, ma che presentano vari profili problematici. Si tratta di contratti, molto in uso tra i privati, il cui inadempimento rischia di incidere maggiormente sulla vita del singolo rispetto, invece, a quanto accade per i contratti bancari, in cui si ha a disposizione maggiori strumenti di garanzia.
L’emergenza sanitaria è inquadrabile come una situazione che rende impossibile la prestazione in particolare in virtù della chiusura obbligata delle attività commerciali da parte del Governo.
L’art. 1463 c.c. espressamente si riferisce a situazioni di impossibilità sopravvenuta, quale causa di risoluzione del contratto. Nei contratti a prestazioni corrispettive alla liberazione della parte, per sopravvenuta impossibilità, segue la restituzione di quanto ricevuto. La situazione eccezionale rende violabile e superabile il principio dei pacta sunt servanda e preclude, inoltre, la possibilità di un risarcimento del danno. L’impossibilità sopravvenuta da un lato giustifica lo scioglimento del contratto e dall’altro esclude la responsabilità del debitore, ex art. 1218 c.c., per l’inadempimento o il ritardo[1].
Deve rilevarsi, però, che l’effetto estintivo della risoluzione potrebbe non offrire alle parti una tutela adeguata in quanto la restituzione di quanto ricevuto può essere, addirittura, più onerosa della controprestazione.
L’art.1464 c.c. inserisce una sorta di ius variandi al fine di preservare alcuni effetti del contratto. Nello specifico, a fronte dell’impossibilità parziale di una parte l’altra ha diritto a una riduzione della propria controprestazione o in alternativa a recedere. La scelta tra la conservazione o l’estinzione del contratto è nella libera disponibilità di una delle parti.
La disciplina della risoluzione da impossibilità sopravvenuta nasce per fronteggiare situazioni particolari, in cui l’evento che rende impossibile la prestazione riguarda il singolo e non ha una portata generale come l’emergenza che stiamo affrontando. Il rimedio descritto di fatto non sembra offrire una tutela efficace nella situazione attuale, legittimando al più la scioglimento del contratto.
Ulteriore ipotesi di risoluzione è quella per eccessiva onerosità ex art. 1467 c.c. La norma fa riferimento espressamente al verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili che rendano la prestazione eccessivamente onerosa. In tale ambito può rientrarvi senza alcun dubbio l’emergenza odierna e le misure di contenimento previste per fronteggiarla. Si pensi al canone che un commerciante si trovi a dover pagare per i mesi in cui non ha potuto esercitare la propria attività; il quantum pattuito potrebbe definirsi eccessivamente oneroso a causa della straordinaria e imprevedibile chiusura obbligata dell’attività commerciale.
L’istituto offre spunti interessanti in quanto, oltre a prevedere l’estinzione del negozio con la risoluzione, attribuisce alle parti la possibilità di rimodulare i termini contrattuali. A norma dell’art. 1467, comma III, c.c. la parte contro cui si richiede la risoluzione può offrire una modifica equa delle condizioni contrattuali. L’avvenimento straordinario, che rende eccessivamente onerosa la prestazione, può essere così neutralizzato tramite l’equa modifica delle condizioni contrattuali, oggetto di valutazione del giudice in un eventuale giudizio.
Da rilevarsi come in tal caso non sia necessario che la modifica riporti il contratto ad equità come previsto per la rescissione, in quanto l’avvenimento straordinario non è responsabilità di alcuna delle parti. La modifica delle condizioni è qui funzionale al raggiungimento di un equilibrio nuovo e non ha natura punitiva, è un’offerta a cui deve seguire l’accettazione dell’altra parte. Tale precisazione mostra la difficoltà di definire in tali casi l’oggetto del sindacato del giudice, eventualmente chiamato a verificare se il nuovo regolamento appaia equilibrato e se dunque la modifica sia equa.
Le parti, inoltre, potrebbero giungere a modificare il negozio in via stragiudiziale, tramite un negozio di mera integrazione, nel caso per esempio di modifica dei canoni, o di novazione. Un simile accordo tra le parti sarebbe addirittura auspicabile nella situazione odierna contenendo il contenzioso e le eventuali spese del giudizio, conservando il contratto ed eliminando di fatto anche il problema di delimitare il sindacato del giudice.
L’emergenza sanitaria può infine costituire una giusta causa di recesso.
Al di fuori di tali ipotesi la crisi economica è causa generale di inadempimento, cui segue lo scioglimento del contratto per risoluzione. Il rischio è quindi quello di un inadempimento generalizzato con blocco dei traffici commerciali. Il fatto imprevedibile rileverà al solo fine di escludere la responsabilità del singolo ex art. 1218 c.c. per l’inadempimento o il ritardo, senza che sia possibile conservare alcun effetto del contratto.
Sembrerebbe allora che a mancare nel sistema siano proprio strumenti di rinegoziazione del contratto che guidino le parti verso la rimodulazione dei termini negoziali.
La rinegoziazione nell’esperienza internazionale
La caducazione del contratto non appare uno strumento efficace per rispondere alle esigenze che stanno sorgendo in questa situazione emergenziale. Sarebbe, invece, maggiormente utile per i privati avere a disposizione strumenti manipolativi idonei a neutralizzare gli effetti della crisi, mantenendo in vita il contratto.
Le parti così come sono sempre libere di modificare il contenuto contrattuale possono al momento della stipula inserire sistemi di rinegoziazione del contratto al fine di fronteggiare situazioni di crisi. Le c.d. clausole di rinegoziazione, poco in uso nell’ordinamento interno, vincolano i contraenti e hanno un’efficacia obbligatoria inter partes. Il mancato rispetto di tali obblighi sarebbe infatti fonte di responsabilità contrattuale da inadempimento. Nella prassi tuttavia l’uso di tali clausole è ancora poco conosciuto.
Il problema è allora oggi quello di contemperare l’autonomia contrattuale e la necessità che gli scambi non si arrestino del tutto. Lasciare alla sola autonomia privata il potere di modificare il contratto in una situazione emergenziale potrebbe non essere sufficiente né efficiente.
Il diritto privato internazionale prevede le c.d. hardiship, clausole di rinegoziazione alternative alla risoluzione del contratto. La rinegoziazione può essere affidata, sempre in via negoziale, anche ad un soggetto terzo o ad una delle parti purché siano determinati o determinabili i criteri di modifica.
La scienza giuridica si è posta il problema di valutare anche la possibilità di affidare al giudice il controllo sulla negoziazione, attribuendo un’efficacia forte a tali clausole tramite forme di esecuzione in forma specifica. È evidente che in tal modo l’autonomia negoziale rischia però di essere fortemente compromessa.
Verso una “solidarietà contrattuale”
Le situazioni di crisi ed emergenza per loro natura stravolgono i sistemi, rendendoli inefficaci. I rimedi contrattuali, delineati per far fronte alle situazioni proprie della normalità, diventano inappropriati per fronteggiare situazioni di crisi generale, in cui l’impossibilità ad adempiere assume una portata globale e trasversale.
É quindi necessario un intervento dello Stato che deroghi al sistema generale e preveda strumenti innovativi per superare la situazione di crisi, come quelli presenti nel decreto Cura Italia. La funzione dello Stato sociale, del resto, è anche quella di tutelare e garantire determinati livelli di tutela nell’emergenza, incidendo maggiormente sull’autonomia negoziale, sulla concorrenza e sulla stessa libertà imprenditoriale.
L’azione dello Stato sarà tanto più efficace però quanto più il singolo deciderà di collaborare attivamente in tal senso. Il concetto stesso di solidarietà, tanto invocata in questi giorni, può avere dei riflessi anche in materia contrattuale. La buona fede che dovrebbe guidare formazione, esecuzione e risoluzione del contratto può essere oggi, nell’emergenza, uno strumento idoneo a rimodulare il regolamento negoziale.
La presa di coscienza rispetto ad una situazione di crisi dovrebbe spingere le singole parti ad abbandonare gli egoismi individuali per cercare di far fronte insieme alla situazione di crisi. Una sorta di solidarietà contrattuale idonea a salvare gli effetti del singolo negozio, modificarlo e renderlo nuovamente compatibile con la situazione attuale. Obblighi di rinegoziazione impliciti, in un certo senso, precipitati del principio di buona fede e dell’art.2 cost. Una cooperazione effettiva tra le parti, in cui il singolo contribuisce al superamento della crisi e alla ricerca di nuove forme rimediali.
Il sistema di rinegoziazione che potrebbe attuarsi durante l’emergenza potrebbe altresì porre le basi per una modifica generale del sistema rimediale, presente nel codice civile, che tenga conto del risalente dibattito internazionale in materia di ius variandi e hardship.
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Note
[1]Ai sensi dell’art.1256, comma II, c.c. il debitore non è responsabile del ritardo in situazioni di impossibilità temporanea ad adempiere a lui non imputabili. A simile inadempimento non segue l’estinzione del negozio finché sussista un interesse del creditore in tal senso.
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