Lo straining: lo stress forzato sul posto di lavoro[1]

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Indice.

  1. La teorizzazione dello straining.
  2. La prima sentenza.
  3. Definizione e caratteristiche dello straining.
  4. I rimedi per il lavoratore in caso di straining.
  5. Alcuni esempi di straining.

1. La teorizzazione dello straining

Il termine straining è stata adottato per primo dal dott. Harald Ege, dottore in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, anche noto in Italia per aver introdotto, nel 1995, la definizione di mobbing.

Il dott. Ege aveva infatti rilevato che, nell’ampia casistica da lui esaminata, non poche vittime di condotte inadeguate sul posto di lavoro, pur essendo convinte di essere state sottoposte a mobbing, avevano in realtà subìto una forma diversa di condotte vessatorie, una sorta di “conflitti organizzativi” differenti ma comunque situazioni lavorative stressanti, ingiuste e lesive, quali per esempio la dequalificazione o isolamento professionale.

Per tali fattispecie il dott Ege ha coniato il termine straining, dall’inglese “to strain” (tendere, mettere sotto pressione, stringere), avente stretto legame con lo stress occupazionale, considerato che in presenza di straining il c.d. strainer indurrà il soggetto passivo in una inevitabile condizione di pressione psicolgica superiore alla norma.

Per il dott. Ege lo straining è in definitiva definibile come “… una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante[2].

Sempre secondo il dott. Ege, sono sette i parametri che consentono di ritenere configurabile lo straining[3]:

  • ambiente lavorativo (il comportamento ostile deve verificarsi sul posto di lavoro);
  • frequenza (conseguenze costanti);
  • durata (da almeno sei mesi);
  • azioni (attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, demansionamento o privazione di qualunque mansione, attacchi alla reputazione, violenza o minacce di violenza, fisica o sessuale);
  • dislivello di posizione (vittima in posizione di inferiorità);
  • andamento per fasi successive (fase 1: azione ostile; fase 2: conseguenza lavorativa percepita come permanente; fase 3: conseguenze psicofisiche; fase 4: uscita dal lavoro), con raggiungimento quantomeno della seconda;
  • intento persecutorio (scopo politico ed obiettivo discriminatorio).

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  1. La prima sentenza.

Prima di definire come straining le condotte illecite “minori” a danno dei lavoratori, non era semplice per questi ultimi poter far valere i propri diritti, in quanto non sempre i Tribunali ritenevano potesse darsi seguito a richieste di risarcimento conseguenti a vessazioni che non avessero le caratteristiche proprie del mobbing.

Per avere il primo riconoscimento giurisprudenziale dello straining si è dovuta attendere la sentenza n. 286 del 21/04/2005 (est. dott.ssa Bertoncini, R.G.L. n. 711/02) del Tribunale di Bergamo, prima decisione che ne ha delimitato caratteristiche e rilievo.

In sintesi, una lavoratrice conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro per far accertare la dequalificazione posta in atto nei suoi confronti e per ottenere il risarcimento del danno subito[4]: lamentava di essere stata vittima di mobbing, in quanto trasferita in una sorta di ripostiglio, con mobili in disuso, senza PC e telefono, lasciata nella più assolta inattività, senza contatti con altro personale e con l’esterno.

Dall’istruttoria del giudizio emergeva l’effettivo grave demansionamento, con l’assoluta privazione di tutte le mansioni svolte sino ad allora, il mancato inviti a meetings, lo spostamento in un ripostiglio di mobili dismessi, separato e lontano dagli altri e privo di strumenti di lavoro, il mancato affidamento di pratiche, l’omissione nell’elenco telefonico dei dipendenti aziendali. La condizione della ricorrente veniva persino considerata dai colleghi come “monito” a non parlare con lei.

La condizione di totale e forzata inattività era durata dall’ottobre 1998 al marzo 2001 (data delle dimissioni) e, secondo il Giudice, integrava violazione dell’art. 2103, cod. civ.. Considerando le modalità attraverso le quali il demansionamento era stato attuato, il comportamento illecito del datore di lavoro è stato ritenuto connaturato da particolare ostilità, ed il Giudice ha così ritenuto di doverlo condannare al risarcimento del danno subito dalla dipendente in conseguenza di tale illecita condotta, da liquidarsi equitativamente utilizzando come parametro la sua retribuzione[5].

Il Giudice ha ritenuto di accogliere la domanda di risarcimento seppure i fatti non fossero riconducibili alla fattispecie del mobbing, aderendo alle conclusioni del C.T.U., dott. Ege, ritenendo che il comportamento dell’azienda fosse sì carente di una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, ma in ogni caso sufficienti per configurare la fattispecie dello straning.

  1. Definizione e caratteristiche dello straining

Come visto sopra, la nozione di straining è emersa da pochi anni, e non ha una norma che la riconosca e regoli espressamente: ciò ha reso centrale la recente casistica giurisprudenziale, che ne ha delimitato confini e stabilito caratteristiche essenziali.

Come per il mobbing, anche per lo straining la fattispecie legale di riferimento è quella di cui agli artt. 2087 e 2103, cod. civ. che tutela ogni lesione sofferta dal lavoratore in conseguenza della condotta del datore di lavoro che abbia violato le norme di sicurezza sul lavoro, incluse le lesioni della personalità morale[6].

Lo straining può considerarsi un minus del mobbing[7], per cui i comportamenti del datore di lavoro, pur non presentando i requisiti della sistematicità e della frequenza nel tempo e, quindi, non integrando i caratteri tipici della condotta mobbizzante, rappresentano, comunque, una forma attenuata (anche un solo episodio, come avviene nei casi di demansionamento e/o di trasferimento[8], o più a distanza nel tempo) di condotta vessatoria[9].

Lo straining è costituito dalla adozione di condizioni stressogene che, modificando in modo negativo e permanente la situazione lavorativa del dipendente, minandone i diritti fondamentali, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possono presuntivamente determinare la sussistenza di un più tenue danno alla sua salute o dignità, pur in assenza di un intento persecutorio[10].

Perché possa configurarsi lo straining è pertanto sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo. Deve ovviamente trattarsi di un tipo di stress superiore rispetto a quello connaturato alla natura stessa del lavoro ed alle normali interazioni organizzative e di colleganza orizzontale e/o verticale[11].

Lo straining si verifica soltanto al ricorrere di determinati parametri di riconoscimento, quali l’ambiente lavorativo, la frequenza e durata dell’azione ostile. Le azioni subite, poi, devono appartenere ad una delle categorie tipizzate come attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza, posizione di costante inferiorità percepita come permanente, andamento secondo fasi successive[12].

  1. I rimedi per il lavoratore in caso di straining.

Lo “stress forzato” inflitto al lavoratore dal superiore gerarchico, laddove venga lesa l’integrità psico·fisica, legittima in primis, il lavoratore a richiedere ed ottenere la condanna dell’azienda a cessare la condotta illecita nei suoi confronti, e adottare ogni misura atta ad evitare il suo perpetuarsi.

Non va sottovalutato infatti che, proprio l’essere lo straining un minus (cfr. supra) del mobbing, il suo emergere può avere anche funzione preventiva: la reazione del lavoratore agli atteggiamenti vessatori “minori” di straining rispetto a fatti ricollegabili a mobbing potrebbero consentirgli di evitare di subire condotte illegittime croniche e ripetute, con conseguenze anche più gravi per la sua salute e sicurezza sul lavoro (fermo restando che lo straining non necessariamente è causa di pregiudizi minori rispetto al mobbing per la salute psico-fisica, tenuto altresì conto della soggettiva reazione che ciascuno può manifestare alle vessazioni subite)[13].

Lo straining inoltre può generare un danno ingiusto che va adeguatamente risarcito[14] qualora risulti che il datore di lavoro abbia consentito che venissero attuate condotte riconducibili al concetto stesso di straining[15]. Il risarcimento può comprendere i danni[16]:

  • patrimoniali, che oltre alle eventuali spese mediche affrontate a seguito della condotta vessatoria, comprendono senz’altro il pregiudizio alla professionalità del dipendente (specie dinanzi a demansionamento, dequalificazione o perdita del posto di lavoro per licenziamento o per dimissioni), l’avvenuto impoverimento della capacità professionale acquisita, la mancata acquisizione di una maggior capacità o la perdita di chances di ulteriori possibilità di guadagno;
  • non patrimoniali, considerato che pur non essendo mobbizzato, la vittima di straining non di rado presenta ugualmente pregiudizi gravi alla salute, con sintomi psicosomatici anche gravi, spesso sconfinanti in patologie ed in peggioramento del livello di autostima e di qualità di vita in senso lato. Considerato che l’art. 2087, cod. civ. impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore, il risarcimento di tale voce di danno comprenderà senz’altro il pregiudizio all’integrità psico-fisica (danno biologico) ma anche la lesione della dignità personale (onore, immagine e reputazione) e della sfera relazionale/esistenziale.

E’ da considerare che se il lavoratore, con le proprie condotte, contribuisce a determinare la situazione di conflitto, la sua domanda di risarcimento potrebbe non essere accolta, in quanto a causa dei comportamenti dello stesso lavoratore non è possibile configurare una condotta stressogena del datore di lavoro nei confronti del dipendente[17].

In tema di onere della prova, e nonostante lo straining sia integrato in assenza di intento persecutorio, incombe sul lavoratore dimostrare, oltre all’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra[18], e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, non potendo il dipendente pretendere che il giudice colmi, con i propri poteri istruttori, la sua inerzia probatoria sui fatti costitutivi della domanda[19].

Dal punto di vista procedurale, non incorre in violazione dell’art. 112, cod. proc. civ. il giudice che qualifichi la fattispecie in termini di straining a fronte di una deduzione di mobbing, trattandosi semplicemente di differenti qualificazioni di tipo medico-legale, ed è altresì prospettabile solo in appello tale fenomeno se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati mobbing[20], dal momento che le due fattispecie sono configurabili da tipologie di atti simili, che comportano entrambe la violazione dell’art. 2087, cod. civ. al fine di una salvaguardia più generale della salute e della sicurezza dei lavoratori contro ogni tipologia di atto a loro pregiudizievole ascrivibile ad una responsabilità datoriale[21].

Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria è di dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale.

  1. Alcuni esempi di straining.

Nelle sentenze che hanno riconosciuto la sussistenza della fattispecie di straining emergono alcuni esempi che possono essere tenuti in considerazione per avere una più concreta idea delle condotte ricollegabili a tale fenomeno.

Si pensi al caso del dipendente (dottoressa ASL) che aveva agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno da demansionamento e per le ingiurie subite dal suo superiore (pur se tali azioni ostili erano limitate nel numero e distanziate nel tempo), che le avevano cagionato disturbi di adattamento, di ansia e depressione[22].

Ancora, un dipendente di banca era stato progressivamente allontanato dalla direzione ed aveva ricevuto delle lettere di scherno diffuse sul luogo di lavoro. Pur essendo anche in questo caso gli episodi accertati distanziati nel tempo, erano stati tali da provocare situazioni di stress fonte di grave frustrazione[23].

Sono state, inoltre, qualificate come straining le condotte tenute di una scuola verso una propria impiegata volte alla immotivata privazione degli strumenti di lavoro, all’assegnazione di mansioni incompatibili con lo stato di salute ed alla riduzione in una condizione di umiliante inoperosità[24].

Più in generale, pur dovendo dare centrale rilevanza alla soggettiva percezione della singola vittima, lo straining può configurarsi altresì qualora[25]:

  • il datore di lavoro non riconosca la professionalità acquisita del dipendente, pur avendo quest’ultimo ricoperto ruoli di responsabilità;
  • il dipendente venga privato dei ruoli professionali precedentemente acquisiti e progressivamente affidati ad altri;
  • il lavoratore venga gradualmente isolato, non sia più coinvolto né informato circa progetti e scenari futuri come in precedenza;
  • si verifichi la perdita definitiva da parte del dipendente di ogni attività o responsabilità precedentemente ricoperta;
  • venga meno la preparazione professionale del lavoratore;
  • si verifichi la perdita del contatto diretto del dipendente con i propri responsabili;
  • il dipendente venga escluso dai lavori di gruppo.

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Note

[1] Approfondimento redatto nel mese di aprile 2020.

[2] Cfr. Ege, Oltre il mobbing, Straining, Stalking ed altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, pag. 70.

[3] Cfr. Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, pag. 93.

[4] Quantificato in una mensilità retributiva per ogni mese di mansioni dequalificanti, nonché in via equitativa per il danno alla salute.

[5] Considerata la gravità del comportamento del datore di lavoro, il Giudice ha quantificato in Euro 500,00 per ogni mese di dequalificazione subita (pari a circa l’80% della retribuzione netta mensile): il Giudice ha motivato di non riconoscere una mensilità di retribuzione per ogni mese in quanto la ricorrente, alla data delle dimissioni, ha conseguito la pensione e quindi il danno alla professionalità risultava attenuato dal fatto che non aveva dovuto ricollocarsi sul mercato del lavoro.

[6] Corte appello sez. lav. – Ancona, 17/07/2019, n. 70.

[7] Cfr., sul punto, Cassazione civile sez. lav. – 10/07/2018, n. 18164; Tribunale Lodi sez. lav., 31/12/2018, n.180.

[8] Cfr., sul punto, Cassazione civile sez. lav. – 29/03/2018, n. 7844; Tribunale sez. lav. – Chieti, 30/05/2017, n. 138.

[9] Cfr., sul punto, Corte appello sez. lav. – Ancona, 17/07/2019, n. 70; Cassazione civile sez. lav. – 10/07/2018, n. 18164; Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2018, n. 3977.

[10] Cfr., sul punto, Tribunale sez. lav. – Milano, 23/04/2019, n. 1047; Tribunale Roma sez. lav., 10/01/2019, n. 156; Cassazione civile sez. lav. – 10/07/2018, n. 18164; Cassazione civile sez. lav. – 29/03/2018, n. 7844; Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2016, n. 3291; Corte appello sez. lav. – L’Aquila, 07/02/2019, n. 68.

[11] Cfr., sul punto, Cassazione civile sez. lav. – 29/03/2018, n. 7844; Tribunale sez. lav. – Chieti, 30/05/2017, n. 138.

[12] Cfr., sul punto, Corte appello sez. lav. – Ancona, 17/07/2019, n. 70; Tribunale sez. lav. – Venezia, 31/07/2017, n. 480.

[13] Cfr. Renzi, Lo straining e la progressiva emersione giurisprudenziale di suoi connotati, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Anno XXXVII, Fasc. 3-2018, pag. 575.

[14] Cfr., sul punto, Cassazione civile sez. lav. – 29/03/2018, n. 7844  Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2018, n. 3977.

[15] Tribunale sez. lav. – Aosta, 01/10/2014, n. 121.

[16] Cfr. Lambrou, Rapporto di lavoro e danni da straining, in Diritto & Pratica del Lavoro 47-48/2018, pag. 2858.

[17] Cassazione civile sez. lav. – 05/12/2018, n. 31485

[18] A mero titolo di esempio, la prova della sussistenza dello straining e del conseguente danno possono essere le richieste scritte che il lavoratore ha trasmesso all’azienda con cui ha denunciato le condotte vessatorie subite, le incombenze lavorative inadeguate alla sua professionalità e competenza, comunicazioni email offensive, testimonianze di colleghi o terzi che abbiamo assistito direttamente a quanto lamentato, la documentazione medico-legale che accerti l’insorgere di disturbi e/o patologie conseguenti allo straining subito.

[19] Cassazione civile sez. lav. – 04/10/2019, n. 24883

[20] Cfr., sul punto, Cassazione civile sez. lav. – 10/07/2018, n. 18164; Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2018, n. 3977; Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2016, n. 3291; Tribunale Lodi sez. lav., 31/12/2018, n. 180.

[21] Cfr. Renzi, Lo straining e la progressiva emersione giurisprudenziale di suoi connotati, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Anno XXXVII, Fasc. 3-2018, pag. 572.

[22] Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2016, n. 3291.

[23] Cassazione civile sez. lav. – 29/03/2018, n. 7844.

[24] Cassazione civile sez. lav. – 19/02/2018, n. 3977.

[25] Cfr. Formini, Lo Straining, in Businessjus (https://www.businessjus.com/wp-content/uploads/2014/05/Lo-Straining.pdf), pag. 7.

Avv. Walter Giacardi

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