L’esterovestizione societaria quale sofisticata forma di evasione fiscale dai contorni indefiniti

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Premessa

L’esterovestizione societaria, neologismo assunto con una connotazione prevalentemente negativa, indica la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una persona giuridica (si specifica che, l’esterovestizione può riguardare anche le persone fisiche) all’estero, in particolare, in quelle giurisdizioni che offrono un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello previsto a livello nazionale, ove il soggetto effettivamente vive ed opera.

Si tratta di Paesi o giurisdizioni “Black list”, i c.d. tax havens (paradisi fiscali, per l’appunto), che garantiscono l’anonimato delle operazioni finanziarie effettuate, nonché tutelano fortemente il segreto bancario ed offrono condizioni fiscali ottimali ai contribuenti, in termini di tassazione nulla e/o esigua.

L’esterovestizione societaria rappresenta una particolare forma di evasione fiscale internazionale dai confini evanescenti, attuata mediante tecniche sempre più complesse e sofisticate, al solo scopo di sottrarsi a tassazione nel Paese di effettiva appartenenza, mediante la creazione di una realtà fittizia all’estero, raggirando il criterio della “Worldwide taxation”, ossia il criterio di tassazione dei redditi su base mondiale, a cui soggiacciono i soggetti residenti, i quali saranno tassati per i redditi ovunque prodotti nel mondo, cosicché l’Amministrazione finanziaria locale godrà di una potestà impositiva illimitata sia per i redditi prodotti nel proprio territorio sia per quelli prodotti altrove.

 

Il concetto di residenza ai fini fiscali: quando una persona giuridica si considera fiscalmente residente in Italia

I fenomeni di esterovestizione si sostanziano nella costituzione fittizia, per l’appunto all’estero, di una società o legal entity che poi, di fatto, subentra nel business della società residente, nel Paese di allocazione.

Dalle contestazioni mosse dai verificatori dell’Amministrazione finanziaria, emerge che le società estero domiciliate sono tali solo apparentemente, essendo in sostanza gestite ed amministrate dall’Italia. Quindi, è in Italia che sussiste la sede reale e quivi partono gli impulsi decisionali e vengono assunte le decisioni strategiche nonché vi è la sede di direzione effettiva dell’ente.

Mediante un mero artificio o fictio iuris, il contribuente tenta di sfuggire al regime fiscale più gravoso sussistente nel Paese di effettiva appartenenza, precludendo la nascita del presupposto d’imposta nel territorio nazionale, dunque sottraendosi fraudolentemente al pagamento delle imposte, provocando minor ricavi per l’Erario nazionale.

Si può osservare, come la residenza rappresenti un “fattore di discrimine” per l’attrazione dei redditi realizzati all’estero da una società, nell’ambito dello ius impositionis nazionale.

Dal punto di vista normativo, l’articolo 73 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) rappresenta un fondamentale punto di partenza per lo studio dei fenomeni di esterovestizione.

Il comma 3, dell’articolo 73, del DPR n. 917 del 1986, stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”. Pertanto, il summenzionato comma, individua tre criteri tra loro alternativi, per cui basterà la presenza di uno soltanto di essi affinché il soggetto passivo d’imposta possa essere considerato quale fiscalmente residente nel territorio dello Stato e, come tale, assoggettato quivi a tassazione, anche per i redditi prodotti aliunde.

Dalla lettura normativa, il legislatore ha introdotto tre criteri, il primo di carattere formale e gli altri due di carattere sostanziale, nello specifico:

  1. la sede legale, risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto;
  2. la sede dell’amministrazione, luogo da cui partono gli impulsi volitivi, ovvero luogo in cui vengono assunte le decisioni più importanti sotto il profilo strategico, imprenditoriale e decisionale la cui rilevanza investe l’impresa nel suo complesso;
  3. l’oggetto principale, tale espressione sta ad indicare l’attività essenziale perseguita per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto, cui l’articolo 73, comma 4 del TUIR. L’oggetto principale dell’impresa si indentifica con la concreta attività svolta per conseguire gli scopi sociali, per cui se l’attività viene svolta in parte in Italia e in parte all’estero, l’Amministrazione finanziaria dovrà individuare su quale territorio è localizzato il “core business”, ossia la principale attività commerciale, industriale etc, realizzata.

 

Il Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, nell’articolo 4 disciplina il concetto di residenza secondo cui la “sede effettiva” delle società deve rinvenirsi nel “luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l’esercizio dell’impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali”.

La stessa norma fornisce anche indicazioni per la risoluzione di eventuali conflitti nascenti tra i vari ordinamenti (in materia di localizzazione della residenza) dando preminenza al concetto di “sede di direzione effettiva” della società della cui residenza si controverte, dovendosi intendere il luogo in cui vengono assunte le decisioni-chiave, “key decisions”, di gestione e amministrazione dell’impresa, il c.d. “Place of effective management” (POEM).

La sede dell’amministrazione, ovvero il “Place of effective management”, rappresenta certamente il luogo in cui ci concentra maggiormente l’attività investigativa dell’Amministrazione finanziaria, non a caso l’effettività della localizzazione estera della sede legale o dell’oggetto principale è raramente controbattuta. Pertanto, ai fini della contestazione della fittizietà della residenza estera rileva in modo incisivo il luogo da cui partono gli impulsi decisionali, ovvero la sede effettiva dell’amministrazione.

Per individuare il luogo di ubicazione della sede dell’amministrazione di una società occorre un approccio “case by case”, in altre parole un’indagine molto articolata per poter individuare quali sono i soggetti cui spettano le più importanti nonché le scelte strategiche dell’impresa. La ricerca della sede, in estrema sintesi, dovrà indirizzarsi al luogo in cui la società svolge la sua attività di gestione per il tramite di amministratori e in particolare sarà volta all’individuazione del centro effettivo di interessi, ove la società vive ed opera per il conseguimento dei fini sociali.

 

Presunzione legale ed onere della prova: come difendersi dalla contestazione di esterovestizione societaria

La dislocazione geografica della propria residenza fiscale permette di sfuggire al criterio della tassazione su base mondiale applicabile in Italia, scegliendo, così, un Paese che presenti un regime fiscale più favorevole rispetto a quello di effettiva appartenenza. Tuttavia, non sempre gli imprenditori trasferiscono realmente la propria residenza altrove, incorrendo nella contestazione di esterovestizione societaria.

Il D.L. n. 223/2006, integrando l’art. 73 del D.P.R. 917/1986, ha introdotto la disciplina delle società esterovestite, prevedendo un meccanismo presuntivo di residenza in Italia di società ed enti esteri, cui i commi 5-bis e 5-ter dell’art. 73 del TUIR.

Il comma 5-bis, norma a carattere prettamente procedurale, inserisce una presunzione relativa (c.d. Praesumptio iuris tantum) che opera al verificarsi di specifiche condizioni, facendo ricadere l’onus probandi, dunque, determinando un’inversione dell’onere della prova, a carico di società ed enti esteri che detengono direttamente partecipazioni di controllo in società italiane, gestiti ovvero controllati anche indirettamente da parte di soggetti d’imposta italiani.

Tale presunzione opererà, salvo prova contraria, nel caso in cui la società o l’ente non residente:

  • detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, comma primo, cod. civ., nei confronti di società o trust o enti aventi per oggetto principale od esclusivo l’esercizio di attività commerciali residenti nel territorio dello Stato;
  • o, in alternativa, siano controllati, anche indirettamente, ai sensi del primo comma dell’articolo 2359 cc., da soggetti residenti nel territorio dello Stato, nonché siano amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Il comma 5-ter, invece, specifica che “ai fini della verifica della sussistenza del controllo di cui al comma 5-bis, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato. Ai medesimi fini, per le persone fisiche si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all’articolo 5, comma 5”.

Pertanto, al verificarsi delle summenzionate circostanze, una società o ente, seppur formalmente domiciliata all’estero, dovrà considerarsi, in realtà, residente nel territorio dello Stato, ai fini fiscali.

Per poter vincere tale presunzione, è necessario che il contribuente dimostri, nonostante la sussistenza dei presupposti ivi previsti, che la sede dell’amministrazione si trovi nello Stato estero e non sia radicata nel territorio nazionale; occorre, inoltre, dimostrare che la presenza di una holding nel territorio dello Stato e la residenza italiana dei membri del Consiglio di amministrazione, non implicano, di fatto, la sua gestione in Italia, dunque che gli impulsi volitivi nonché le decisioni strategiche provengano dal Paese estero e, quindi, che la legal entity è di fatto amministrata al di fuori del territorio dello Stato.

L’azione di contrasto ai fenomeni di esterovestizione societaria, si realizza mediante un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del soggetto sospetto di esterovestizione, la prova dell’effettiva esistenza di una struttura imprenditoriale in un altro Stato, stante dunque la sussistenza di elementi, individuati dall’Amministrazione finanziaria, idonei a dimostrare l’artificiosità della costruzione estera.

 

La libertà di stabilimento nel diritto europeo e la sottile linea di confine tra legittimo stabilimento e mera esterovestizione

Il fenomeno dell’esterovestizione collide, in particolar modo, con il principio di libertà di stabilimento, simbolo dell’integrazione comunitaria, il quale si presenta come diretta derivazione del principio di non discriminazione fiscale, collocandosi all’interno di un mercato unico che garantisce la libera circolazione di persone, servizi e capitali, consentendo ai cittadini e alle imprese dell’Unione Europea tanto il diritto di lasciare lo stato di stabilimento ed intraprendere un’attività economica autonoma o costituire una società in un altro Stato (c.d. stabilimento a titolo principale), quanto il diritto di mantenere il proprio stabilimento nello Stato di origine ed aprire un secondo centro di attività (ovvero, un’agenzia, una succursale, una filiale) in un altro Stato membro (c.d. stabilimento a titolo secondario).

In particolare, il diritto di stabilimento (la cui disciplina normativa è compresa negli artt. 49-55 TFUE) permette il duraturo insediamento di un soggetto in uno Stato membro che offra condizioni più vantaggiose rispetto a quello di appartenenza, in assenza di vincoli o limitazioni a sfavore dello spostamento della sede societaria. Tuttavia, come sottolineato dalla Corte di Giustizia UE in alcune pronunce, una restrizione alla libertà di stabilimento è ammessa qualora sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, ovvero deve avere lo scopo specifico di contrastare comportamenti che siano finalizzati alla creazione di costruzioni di puro artificio, “wholly artificial arrangements, prive di effettività economica, con lo scopo di eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.

Il concetto di “costruzione di puro artificio”, richiede la presenza di due presupposti:

  1. soggettivo, consistente nella volontà di ottenere un vantaggio fiscale indebito, mediante l’artificiosa creazione delle condizioni che giustificano l’applicabilità del diritto dell’Unione Europea;
  2. oggettivo, ovvero che, nonostante il formale rispetto delle condizioni previste per l’applicazione del diritto Ue, l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento non è stato raggiunto.

Affinché non venga contestata la creazione di una struttura puramente fittizia, la Corte di Giustizia ha decretato la necessità che il soggetto residente all’estero eserciti la propria attività mediante una “realtà economica” effettiva e con l’esistenza di “elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, relativi in particolare al livello di presenza fisica in termini di locali, di personale e di attrezzature”, per cui è possibile riconoscere, dunque tutelare, la libertà di stabilimento nel caso in cui la società, oggetto di accertamento, sia realmente impiantata nel territorio dello Stato ospitante, ivi esercitando attività economiche effettive.

Con la sentenza Cadbury Schweppes, la Corte di giustizia ha affermato che, il semplice fatto che una società, sia stata creata in uno Stato membro, per poter usufruire di una legislazione più vantaggiosa non è sintomatico ex se di abuso della libertà di stabilimento, potendosi ammettere una restrizione solo allorché si tratti di una costruzione di puro artificio, la cui ratio sottesa è l’elusione della normativa nazionale.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 7 febbraio 2013, n. 2869, si è pronunciata sul tema dell’esterovestizione e dell’abuso del diritto di stabilimento, stabilendo che, ai fini della configurabilità dell’abuso, occorre verificare se il trasferimento vi è stato oppure no, ovvero se l’operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente realtà economica.

Il Giudice di legittimità ha richiamato proprio la sentenza Cadbury Schweppes, al fine dunque di dare un’interpretazione ai criteri di collegamento, per l’individuazione della residenza fiscale delle società, utili anche all’interpretazione del concetto di sede dell’amministrazione, in termini di effettivo e durevole insediamento nel tessuto economico e giuridico dello Stato, tracciando la sottile linea di demarcazione tra insediamento legittimo, dunque compatibile con la ratio sottesa ai principi Ue in materia di stabilimento e mera esterovestizione, sintomatica di abuso della stessa.

Sempre la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta con una recentissima sentenza (Cfr., Cass., sentenza n. 14527 del 28 maggio 2019), risolvendo un caso presunto di esterovestizione societaria.

La vicenda traeva origine dalla negazione, da parte del Fisco, di una richiesta di rimborso delle ritenute operate in Italia, in sede di distribuzione dei dividendi da una società controllante con sede in Olanda, ritenendo che la costituzione di quest’ultima fosse avvenuta al solo scopo di poter usufruire del regime agevolato di tassazione dei dividendi, previsto dalla Convenzione Italia-Olanda sulle doppie imposizioni. La Commissione Tributaria Regionale ha contestato l’esterovestizione alla società Olandese in quanto, nonostante avesse la sede legale in Olanda, operasse effettivamente in Italia avendo quivi la residenza effettiva e ritenendo probatorio che gli amministratori della controllante fossero residenti in Italia.

In via preliminare la Cassazione ha avuto modo di chiarire nuovamente il concetto di esterovestizione quale “fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale” (Così, Cass. n. 2869/2013). Detto ciò, sempre la Cassazione, orientandosi conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria, ha riconosciuto che qualora il contribuente sia messo nelle condizioni di poter scegliere tra due operazioni, non è obbligato a scegliere quella che gli comporti un maggior carico fiscale ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione dei propri affari che gli consenta di “alleggerire” il proprio onere contributivo. Quest’ultimo è proprio l’obiettivo fondante della libertà di stabilimento che, consente, a qualsiasi cittadino dell’Unione Europea di creare uno stabilimento in un altro Stato membro per potervi quivi esercitare un’attività economica. Pertanto, il fatto che la costituzione sia avvenuta al solo scopo di poter usufruire del trattamento fiscale più vantaggioso non costituisce ex se un’ipotesi di abuso. Consegue che una limitazione di siffatta libertà può avvenire solamente nel caso di costruzione di puro artificio, volte essenzialmente ad eludere la normativa dello Stato interessato; affinché non ricorra una situazione di “puro artifizio” è necessario che il soggetto, residente all’estero, eserciti in modo effettivo e stabile un’attività economica nello Stato ospitante, ovvero contribuisca alle spese pubbliche, dunque che sia realmente stanziato in loco, comprovato da elementi di natura oggettiva, in termini di personale e/o attrezzature verificabili da parte di soggetti terzi.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, nonostante gli amministratori avessero la propria sede legale in Italia, ciò non implicasse in automatico che la società debba essere considerata esterovestita, in quanto  la nozione di “sede effettiva” sta indicare il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente, ovvero il luogo in cui si convocano le assemblee e, pertanto, tenendosi fuori dall’Italia i Consigli di amministrazione e sulla base dell’articolo 73, comma 3 del TUIR, che considera prova, relativa, della residenza la presenza congiunta sul territorio nazionale della sede legale e sede effettiva della società, per poter parlare di esterovestizione occorre che le decisioni strategiche vengano prese in uno Stato diverso da quello in cui è localizzata la società e che mediante tale separazione territoriale si realizzi un indebito risparmio d’imposta.

 

Considerazioni conclusive

In conclusione, è possibile osservare come in un’economia cosmopolita, caratterizzata dall’internazionalizzazione delle imprese e dalla frequenza degli scambi cross border, la scelta, circa, il luogo ove localizzare la propria attività rientra nelle strategie di pianificazione fiscale internazionale che permettono, dunque, di poter usufruire di un regime fiscale più vantaggioso offerto da giurisdizioni diverse rispetto a quella di appartenenza. Tuttavia, tali strategie o “tax planning”, incontrano i limiti imposti dalla legislazione nazionale e convenzionale, onde evitare una ricaduta nei fenomeni di “aggressive tax planning”, sintomatici di abuso e/o evasione fiscale internazionale.

In un quadro europeo carente di armonizzazione fiscale, siamo dinanzi a giurisdizioni differenti, spesso in reciproca concorrenza, che tendono ad offrire “terreno fertile” per l’attrazione dei capitali nel proprio territorio, mediante la previsione di aliquote minime o l’esenzione di alcune componenti di reddito.

Questi “poli attrattivi” offrono ai contribuenti l’input per poter realizzare condotte volte a trarre in inganno il Fisco, ad esempio, trasferendo fittiziamente la propria sede legale verso queste giurisdizioni maggiormente appetibili, violando la normativa sul corretto riparto del potere impositivo statale nonché precludendo la nascita del presupposto d’imposta nel territorio nazionale. Ciò è, appunto, quel che accade nei fenomeni di “esterovestizione societaria”.

Si tratta di un fenomeno di nuovo conio, frutto dell’apertura dei mercati e degli scambi “oltre confine”, indicando, per l’appunto, una dissociazione formale/sostanziale della residenza fiscale del soggetto passivo d’imposta, al fine dunque di sottrarsi al più gravoso regime di tassazione nazionale.

Punto di partenza fondamentale per lo studio dei fenomeni di esterovestizione è il concetto di residenza ai fini fiscali, cui l’articolo 73 del TUIR, a livello domestico, nonché la definizione convenzionale racchiusa nell’articolo 4 del Modello OCSE.

In assenza di una normativa unanime, spetta alle singole Amministrazioni interne l’accertamento della residenza fiscale dei contribuenti, mediante l’applicabilità dei criteri di collegamento previsti dalle singole disposizioni domestiche.

Trattandosi di un fenomeno del tutto nuovo, appare fortemente incerto dal punto di vista sistematico, non potendolo considerare una forma classica di evasione fiscale, per cui non è collocato né nel campo dell’evasione tout court né nel campo dell’abuso, anzi, presenterebbe punti di contatto con ambedue le fattispecie.

Dal punto di vista sostanziale, sembrerebbe logico far prevalere la soluzione di tipo mediana, quale fenomeno a metà strada tra l’evasione tributaria e il mero abuso in materia fiscale, d’uopo individuandone una doppia estensione: pertanto, quando parliamo di esterovestizione intendiamo una fenomenologia in stricto sensu evasiva, in quanto si sostanzia in condotte volte a sottrarre a tassazione materia imponibile, tramite la dislocazione fittizia della residenza all’estero, quindi vi è la presenza di un dolo specifico di evasione nonché la volontà di trarre in inganno il Fisco nazionale, con l’aggiunta di un elemento oggettivo dato dalla sottrazione agli obblighi dichiarativi,  e solo lato sensu abusiva, se si considera il fenomeno nella sua totalità, ossia prendendo in considerazione l’atteggiamento del contribuente che preclude completamente la nascita del presupposto d’imposta (senza violarlo, come nel caso dell’evasione), raggirando le norme sulla pianificazione fiscale legittima nonché le norme Ue sulla libertà di stabilimento. Si auspica, tuttavia, un intervento chiarificatore in materia, cosicché il legislatore agisca per il tramite di un’azione riformatrice, al fine dunque di collocare sistematicamente il fenomeno, considerando che la corretta collocazione dello stesso comporta, quale logica conseguenza, anche l’opportunità di specificarne il relativo regime sanzionatorio.

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Bibliografia

BARGAGLI M., Residenza fiscale delle società e presunzione di esterovestizione, in Azienda & Fisco, n. 11/2009 – BEGHIN M., La sentenza Cadbury Schweppes ed il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rassegna Tributaria, 2007 – SACCHETTO C., Esterovestizione societaria, disciplina tributaria e profili tecnico-operativi, Giappichelli, Torino, 2012.

Cass., 7 febbraio 2013, n. 2869 –  Cass., 28 maggio 2019, n. 14527 –  Corte di Giustizia Ue, Causa C-196/04 “Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ldt”, 12 settembre 2006.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Raffaella Ascolese

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