Ipotesi applicative al tempo del Covid-19, anche alla luce del fattore R0.
Sommario
1.1 L’introduzione dell’articolo 438 del codice penale. 2
1.2 Struttura del reato di epidemia: elemento oggettivo e soggettivo. 3
1.3 Evento (non voluto) “morte di più persone”: causalità con la condotta dell’agente. 6
1.4 Ipotesi di morte di una sola persona. 7
3.1 La diffusione dolosa e il tentativo. 13
3.2 L’ipotesi colposa, commissiva ed omissiva. 13
3.4 La rilevanza del fattore R0. 16
3.5 Le altri ipotesi di reato configurabili. 16
Il legislatore del 1930, sensibile alla seconda rivoluzione industriale, ha introdotto nel nuovo codice penale il delitto di epidemia, reato prima sconosciuto al codice Zanardelli.
Nella relazione ministeriale ai Lavori preparatori del Codice penale e del codice di procedura penale del 1929, il guardasigilli Alfredo Rocco commentava: “(…) Si è riconosciuta la necessità di prevederlo nel Codice, in rapporto alla enorme importanza che ormai ha acquistato la possibilità di venire in possesso di germi, capaci di cagionare una epidemia, e di diffonderli”.
La norma tutela l’incolumità pubblica, intesa come complesso di condizioni che garantiscono la vita e l’integrità fisica della intera collettività, tanto che – si legge ancora nella relazione: “(…) si è trovata giustificata la grave sanzione, che è la pena dell’ergastolo, per la forma tipica del delitto, e la pena di morte, per l’ipotesi che dal fatto derivi la morte di più persone”.
L’on. Rocco spiegava anche che: “(…) la locuzione «bacilli o germi o altri microrganismi patogeni» poteva essere sostituita con la semplice indicazione di «germi patogeni» (…) perché effettivamente nel linguaggio scientifico la parola «germi patogeni» è comprensiva di tutti gli esseri capaci di produrre malattie infettive”.
L’articolo 438 del codice penale prevede che chiunque cagiona un’epidemia, mediante la diffusione di germi patogeni, è punito con l’ergastolo.
L’ipotesi aggravata di cui al capoverso, qualora dal fatto derivi la morte di più persone, è da considerarsi sostanzialmente soppressa, in conseguenza dell’abolizione della pena di morte e della applicazione dell’ergastolo in luogo di questa, ai sensi del d.lgs. Lt n.224 del 1944: sia per l’ipotesi del primo comma che per quella del capoverso, dovrà essere comminata la pena dell’ergastolo.
La fattispecie è rimasta, sostanzialmente, fra le pagine del codice e non sono state rintracciate sentenze di condanna definitiva, nelle quali se ne fa applicazione.
La giurisprudenza di legittimità si è espressa due volte in tema, nel 2008 e nel 2019: con la prima sentenza, le Sezioni uniti civili hanno delineato sinteticamente i tratti salienti della fattispecie, dichiarandola insussistente nel caso concreto in materia di emotrasfusioni; più recentemente, la Suprema Corte, pur sempre escludendone la configurazione, ha fissato ulteriori caratteri del peculiare reato in tema di infezione da H.I.V. (più pertinente all’odierno argomento).
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L’articolo 438 del codice penale è un reato comune, in quanto può essere commesso da chiunque cagiona una epidemia, purché mediante la diffusione di germi patogeni.
L’ipotesi racchiude, al contempo, i tratti del reato di danno e quelli del reato di pericolo, in quanto, al danno rappresentato dalla malattia di un considerevole numero di persone, si aggiunge il pericolo dell’ulteriore diffusione della patologia e quello della compromissione della loro vita.
La dottrina che ritiene tale reato di solo danno, tralascia il significato letterale del termine epidemia, più avanti tratteggiato.
Il lessico utilizzato dal legislatore rende indispensabile, nell’applicazione in concreto della fattispecie, il confronto con la scienza e, in particolare, con quella medica ed epidemiologica.
Nella accezione scientifica, “germi patogeni” sono tutti i microrganismi capaci di innescare malattie infettive. Il principio di tassatività delle disposizioni penali impone di escludere altri agenti, al di fuori di quelli espressamente richiamati dalla norma, quali sostanze tossiche, radioattive o, altrimenti nocive per la salute.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.), una malattia infettiva è “una patologia causata da agenti microbici che entrano in contatto con un individuo, si riproducono e causano un’alterazione funzionale”.
Gli effetti possono avere proporzioni variabili: “(…) In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione del germe, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma epidemica, endemica o sporadica.”
L’evento richiesto dalla norma è l’epidemia, definita secondo l’enciclopedia Treccani quale: “manifestazione collettiva d’una malattia (colera, influenza ecc.), che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile “.
Il termine “diffusione” richiama una nozione fisica che si presta a interpretazioni estensive e molteplici, sulla base della accezione comune e di quella scientifica.
L’agente può diffondere i germi in qualsiasi modo, purché ne derivi una propagazione rapida per un numero significativo di persone, in rapporto all’area colpita, o la possibilità che ciò possa avvenire (nelle ipotesi di tentativo).
La giurisprudenza di legittimità ha escluso il delitto in un caso di contagio specifico individuale o da persona a persona, nella ipotesi di trasmissione del virus dell’H.I.V. (da contatto).
Recentemente, infatti, Cass. pen. Sez. I, 30.10.2019, n. 48014 ha affermato che “la norma incriminatrice non seleziona le condotte diffusive rilevanti e richiede, con espressione quanto mai ampia, che il soggetto agente procuri un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, senza individuare in che modo debba avvenire questa diffusione; occorre, però, al contempo – e ciò è evidente – che sia una diffusione capace di causare un’epidemia.”
I giudici precisano che una diffusione può aversi anche quando sia l’agente stesso il vettore consapevole dei germi patogeni, come nel caso del soggetto contagiato da H.I.V.
In tal senso, la Suprema Corte statuisce: “(…) Non persuade allora l’assunto dei giudici di appello che non possa parlarsi di diffusione rilevante per la fattispecie di epidemia se non vi sia un possesso di germi patogeni in capo all’autore segnato da separazione fisica tra l’oggetto, quel che viene diffuso, e il soggetto, ossia chi diffonde.
La norma non impone questa relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni”.
In maniera più esplicativa, però, aggiungono in un passaggio chiarificatore – che merita di essere riportato integralmente: “(…) vero è, però, che la modalità per contagio con contatto fisico, per rapporto sessuale, tra soggetto agente e vittima esprime una assai maggiore difficoltà ad innescare il decorso causale di tipo epidemico, alla luce del preciso significato penalistico di epidemia.
Se, da un lato, non si può elevare ad affermazione di principio generale inderogabile che nella nozione di diffusione non rientrino le forme di contagio per contatto fisico tra agente e vittima, non potendosi escludere che vi siano o vi possano essere, attraverso questa modalità, contagi rapidi di un numero potenzialmente più elevato di persone, anche eventualmente attraverso forme di diffusione organizzata in manifestazione criminose di tipo concorsuale; dall’altro, si conviene sul fatto che, con queste specifiche modalità, il contagio – almeno di regola- non possa porsi come antecedente causale del fenomeno epidemico, se questo viene definito come una malattia contagiosa con spiccata tendenza a diffondersi sì da interessare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, un numero rilevante di persone, una moltitudine di soggetti, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e agevole propagazione del contagio, un pericolo di infezione per una porzione ancora più vasta di popolazione.
Quel che difetta nel caso in esame è proprio l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come hanno precisato le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata – Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899-92 “.
L’indirizzo ermeneutico prospettato valorizza la causalità, nel caso concreto, fra le modalità di contagio, la diffusività del virus ed il fenomeno epidemico.
Ancor prima, invero, i giudici della Suprema Corte in composizione nomofilattica hanno delineato, incidentalmente, i caratteri del reato di epidemia, ancorché colposa, sulla scorta della sua essenza, per argomentare sulla prescrizione in tema di danno.
In Cass. Civ. Sez. Unite, 11.1.2008, n. 576, viene esclusa, nel caso concreto, la sussistenza del reato di epidemia: “in quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati (…).
A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono:
- la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti;
- l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l’attività di emotrasfusione con sangue infetto;
- il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia) “.
L’inquadramento sistematico della norma rende sufficientemente chiaro che le malattie infettive devono colpire gli essere umani. L’eventuale diffusione su scala rilevante di una malattia delle piante o degli animali è punita, infatti, dall’articolo 500 del codice penale, nell’ambito dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria ed il commercio.
Il reato è punibile a titolo di dolo, ma, per la rilevanza del bene giuridico tutelato, il legislatore ne ha previsto espressamente la punibilità anche a titolo di colpa con l’articolo 452 del codice penale.
Si tratta di un reato di evento a forma vincolata: per essere punibile, l’epidemia deve essere cagionata, esclusivamente, “mediante la diffusione di germi patogeni”.
L’agente deve agire con la coscienza e volontà dell’azione di diffusione e del conseguente evento.
Si presuppone, inoltre, la consapevolezza della natura patogena dei germi e del nesso che vi è fra la diffusione di essi e l’evento epidemia.
Originariamente, il capoverso dell’articolo 438 del codice penale comminava la pena di morte, qualora dal fatto fosse derivata la morte di più persone (almeno due).
Il reato era annoverabile, quindi, nella categoria dei delitti cd. qualificati o aggravati dall’evento. Solitamente, in tale ambito, si distingue fra reati in cui l’evento più grave deve essere non voluto, reati in cui è indifferente che l’ulteriore evento sia voluto o meno, reati in cui l’evento è necessariamente voluto.
Nel reato di epidemia, l’evento “morte di più persone” deve essere non voluto dall’agente, anche se eziologicamente connesso alla sua condotta.
Il colpevole che agisca con il dolo di uccidere, infatti, risponderebbe del reato di strage.
La condotta del reato di epidemia verrebbe assorbita da quegli “atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità” compiuti al fine di uccidere, di cui all’articolo 422 del codice penale. Invero, quest’ultima ipotesi sarebbe applicabile anche per la morte di una sola persona, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione.
L’evento morte di più persone richiamato nell’articolo 438 del codice penale (che, come detto, non deve essere voluto), ancorché punibile con la medesima pena dell’ipotesi base, non può essere addebitato all’agente a titolo di responsabilità oggettiva, ma sulla base di un coefficiente di prevedibilità, nel rispetto del principio di colpevolezza di cui all’articolo 27 Cost. (Cass. Sez. unite 22.05.2009, n.22676).
L’imputazione o meno della evento-morte può, infatti, far discendere in capo al colpevole ulteriori conseguenze giuridiche.
In ordine logico, è necessario ricostruire rigorosamente il nesso eziologico tra la condotta dell’agente e l’evento epidemia e fra quest’ultimo e la morte di più persone, valutando la rimproverabilità soggettiva del medesimo collegamento.
La morte di una sola persona, quale evento non voluto, resta al di fuori della previsione normativa del capoverso dell’articolo 438 del codice penale, nel rispetto del principio di tassatività.
E’ indubbio, però, che tale evento, qualora riconducibile causalmente e soggettivamente all’agente, conserva la sua rilevanza.
Il colpevole, infatti, risponde dell’evento non voluto ai sensi dell’articolo 586 del codice penale per il quale: “Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”.
La rilevanza del bene giuridico tutelato dall’articolo 438 del codice penale ha indotto il legislatore del 1930 alla previsione espressa della punibilità per colpa del fatto ivi sanzionato.
L’articolo 452 del codice penale, nell’ambito della disciplina dei Delitti colposi di comune pericolo (Capo III del Titolo VI del codice), prevede che “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articolo 438 e 439 è punito:
1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena [di morte];
2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo; (…)”.
Dalla lettura coordinata degli articoli 452 e 438 del codice penale, l’epidemia colposa è punita con la pena da uno a cinque anni (n. 2 comma 1 dell’art. 452); qualora dalla epidemia deriva la morte di più persone (n.1 comma 1 dell’art. 452), l’agente risponderebbe con una pena da tre a dodici anni.
In realtà, l’articolo 1 comma 2 del d.lgs.Lgt 10.8.1944, n. 224 ha soppresso e sostituito la pena di morte con l’ergastolo, con un intervento diretto sulle norme in cui essa era comminata; sarebbero, quindi, escluse le disposizioni che non assolvono tale funzione, come l’articolo 452 comma 1 del c.p. che adotta un mero rinvio.
La tecnica legislativa utilizzata ha diviso la dottrina.
Alcuni autori reputano abrogato implicitamente il n.1 comma 1 dell’articolo 452 del c.p. per via di un inammissibile doppio rinvio. Altri ritengono che la pena prevista dal citato n. 1 è applicabile a quei delitti colposi cui corrispondevano i delitti dolosi puniti con la pena di morte.
Non c’è giurisprudenza sul tema.
La tesi dell’abrogazione implicita del comma 1 porterebbe, però, ad un risultato irragionevole, meritevole di una valutazione del giudice delle leggi.
La morte di più persone, derivata da una epidemia colposa, verrebbe punita con la pena irrisoria che va da uno a cinque anni, mentre l’omicidio colposo plurimo (pur scontando una differente struttura causale, in considerazione del nesso diretto che intercorre fra la violazione della regola cautelare e l’evento) è punito con una pena che può arrivare a quindici anni, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 589 del codice penale.
La coerenza di quest’ultima sanzione con quella (da tre a dodici anni di reclusione) di cui al comma 1 n. 1 dell’articolo 452 del c.p. (epidemia dalla quale deriva la morte di più persone) appare l’effetto di una armonica compilazione del codice.
Il tema della colpa afferisce al campo delle attività umane lecite, intrinsecamente o meno connotate da rischio.
Le ipotesi colpose sono espressamente previste dal legislatore, ai sensi dell’articolo 42 comma 2 del c.p. e sono finalizzate a contenere i rischi connessi al continuo progresso tecnologico e alla evoluzione dello stile di vita individuale e collettivo.
Il delitto è colposo (o contro l’intenzione), secondo l’alinea 3 dell’articolo 43 del codice penale, “quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
La colpa si fonda su tre elementi essenziali: l’involontarietà dell’evento tipico; l’inosservanza di regole cautelari generiche o specifiche; l’attribuibilità soggettiva della violazione delle predette regole e la esigibilità in concreto del comportamento corretto idoneo a impedire il fatto.
L’articolata definizione normativa non dà indicazioni sulla individuazione della regola cautelare che, però, sostanzialmente, funge da precetto penale, secondo la concezione normativa della colpa.
Le fattispecie colpose, a differenza di quelle dolose, infatti, non sono autosufficienti e hanno necessità assoluta di essere eterointegrate mediante una regola esterna.
La regola cautelare ha rilevanza dal punto di vista della tipicità stessa della fattispecie, nel rispetto dei principi costituzionali in materia penale.
In sostanza, non c’è soggettività, ma oggettività nella colpa, con riferimento alla condotta cautelare da seguire.
La diposizione è formulata in modo poco preciso, in quanto la violazione dei doveri di diligenza, perizia e prudenza è una entità astratta che non può essere in sé causa dell’evento. L’imputazione colposa, più correttamente, richiede che l’evento si verifichi “a causa di [una condotta materiale connotata da] negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per [una condotta materiale connotata da] inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Nell’omicidio doloso, ad esempio, viene punito l’agente che, con qualunque condotta, cagiona la morte di un uomo: si tratta, infatti, di un reato comune a forma libera e la morte può essere provocata da qualunque comportamento sorretto dal dolo.
La corrispondente ipotesi colposa, prevista dall’articolo 589 del codice penale, punisce chiunque cagiona la morte di un uomo “per colpa”, dizione all’interno della quale si racchiude la condotta tipica che deve essere individuata, di volta in volta, dall’interprete nel caso concreto.
In sostanza, non esiste colpa senza la violazione di una regola cautelare di condotta, generica o specifica.
Individuate le regole cautelari violate nel caso concreto, è necessario aprire un giudizio di rimproverabilità del soggetto, basato sui criteri di prevedibilità ed evitabilità dell’evento (terzo elemento della colpa).
L’interpretazione delle regole cautelari e la misura del giudizio di esigibilità, naturalmente, influenzano i confini dell’area del penalmente rilevante. Una estensione impropria di tali valutazioni contrasta pericolosamente con principi cardine del diritto penale, quale quello di tassatività, di divieto di analogia e di colpevolezza.
Il reato colposo non si può configurare in termini di tentativo, per incompatibilità logico-strutturale del peculiare addebito con l’articolo 56 del codice penale. Il tentativo implica infatti l’intenzione, assente nell’elemento soggettivo della colpa.
L’evento, descritto nell’articolo 438 del codice penale e richiamato dall’articolo 452, è una epidemia cagionata mediante la diffusione di germi patogeni.
Tale evento, per essere imputabile per colpa, deve essere innanzitutto non voluto e causalmente collegato ad una condotta, imperita, imprudente o negligente o posta in essere in violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, rimproverabile all’agente.
La violazione oggettiva della regola comporta, però, una responsabilità colposa soltanto in presenza di quegli eventi lesivi che la stessa tende a prevenire.
In altre parole, non è sufficiente ricondurre l’evento all’azione o alla omissione dell’agente, limitandosi ad accertare la suitas della condotta, ma occorre che l’evento verificatosi sia lesivo proprio del bene giuridico che la regola cautelare violata mirava ad evitare, secondo il criterio della concretizzazione del rischio.
Il soggetto agisce in un contesto lecito, nel quale entra in relazione con germi patogeni, di cui ne conosce la natura o la ignora per colpa inescusabile.
L’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni deve essere causata dalla violazione, soggettivamente imputabile, di norme di condotta, generiche o specifiche, formulate ed imposte proprio per prevenirla o arginarla.
La norma non impone una “relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni” (Cass. pen. Sez.I, 30.10.2019, n. 48014)
Il giudizio della responsabilità colposa deve passare, però, attraverso una rigida sequenza logica che inizia con l’analisi dell’accadimento lesivo.
La prima fase consiste in un giudizio esplicativo, nel corso del quale si accerta il processo causale materiale dell’evento.
Il cd. giudizio “di realtà” sarà seguito dalla valutazione della natura della condotta che si ritiene causale, attiva od omissiva; in tale ultimo caso, sarà necessario verificare se sull’agente gravi una posizione di garanzia, con il conseguente obbligo giuridico di evitare l’evento.
E’ essenziale, poi, individuare la regola cautelare che si presume violata, correlandola con l’evento, secondo il criterio di concretizzazione del rischio. In sostanza, è necessario accertare se l’evento che si è verificato rientra fra quelli che la norma di condotta mirava ad evitare, nel rispetto della cd. causalità della colpa.
Infine e solo dopo aver accertato la causalità della colpa, si procede con un giudizio controfattuale (giudizio cd. di irrealtà), per provare la causalità in concreto dell’evento con la regola violata. Applicando il criterio del c.d. comportamento alternativo lecito, si deve verificare se l’osservanza della regola cautelare violata avrebbe effettivamente impedito la verificazione dell’evento, nel caso concreto.
Si conclude con la valutazione di eventuali cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, le quali, ai sensi del comma 2 dell’articolo 41 del codice penale, escludono il rapporto eziologico fra la condotta e l’evento.
Il concorso di cause preesistenti o simultanee (in quanto conosciute o conoscibili dall’agente), anche se indipendenti dall’azione o omissione del colpevole o consistenti nel fatto illecito altrui, non esclude il nesso di causalità, ai sensi del comma 1 dell’articolo 41 del c.p.
Proprio il concorso di cause sarà utile, oltre, per meglio chiarire le ipotesi di applicabilità della peculiare fattispecie.
Il 9 gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) ha dichiarato che le autorità sanitarie cinesi hanno individuato un nuovo ceppo di coronavirus, mai identificato prima nell’uomo, inizialmente denominato 2019-nCOV, poi SARS-CoV-2.
Il virus può causare una malattia respiratoria da lieve a moderata, battezzata COVID-19 che, nei decorsi più gravi, può portare alla morte del soggetto contagiato.
Il 30 gennaio 2020, l’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.) ha annunciato i primi due casi di infezione da COVID-19 in Italia e il 21 febbraio successivo ha confermato il primo caso autoctono in Italia.
La trasmissione del virus ha rapidamente investito tutti i continenti, tanto che, l’11 marzo 2020, l’O.M.S. ha dichiarato che la diffusione internazionale delle infezioni da nuovo coronavirus può essere considerata una pandemia.
Sulla base delle attuali conoscenze scientifiche e delle conseguenze riscontrate finora, è possibile qualificare il SARS-CoV-2 fra i germi patogeni, richiamati dall’articolo 438 del c.p., che qualora diffusi, dolosamente o colposamente, possono cagionare una epidemia, quale “manifestazione collettiva d’una malattia, che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile”.
Secondo le informazioni mediche pubblicate dall’I.S.S, “i coronavirus umani si trasmettono da una persona infetta a un’altra attraverso:
- la saliva, tossendo e starnutendo,
- contatti diretti personali,
- le mani, ad esempio toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) bocca, naso o occhi,
- una contaminazione fecale (raramente).”
Il principale portatore di questo germe è l’uomo stesso, che può sviluppare, per la malattia che ne deriva, una sintomatologia similinfluenzale, accompagnata o meno da polmonite.
Per ricostruire la causalità nelle fattispecie criminose di cui all’articolo 438 e 452 del c.p. in presenza della diffusione di questo nuovo coronavirus, dobbiamo necessariamente far riferimento alla scienza medica-epidemiologica.
Nel rapporto dell’I.S.S., in relazione ai mezzi di trasmissione del SARS-CoV2, si legge: “Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la trasmissione delle infezioni da coronavirus, incluso il SARS-CoV-2, avviene attraverso contatti ravvicinati tra persona e persona per esposizione delle mucose buccali o nasali o delle congiuntive di un soggetto suscettibile a goccioline (droplets) contenenti il virus emesse con la tosse, gli starnuti, il respirare e il parlare di un soggetto infetto. Il virus può anche essere trasmesso per contatto indiretto come ad esempio attraverso le mani contaminate che toccano bocca, naso, occhi, ovvero con oggetti e/o superfici posti nelle immediate vicinanze di persone infette che siano contaminate da secrezioni (es. saliva, secrezioni nasali, espettorato). Tale è l’attuale posizione unanimemente condivisa dalla Comunità scientifica, ciò nonostante non si può escludere una possibile trasmissione oro-fecale, mentre i dati disponibili portano ad escludere la trasmissione per via aerea, a parte situazioni molto specifiche, di interesse ospedaliero (formazione di aerosol durante le manovre di intubazione, tracheotomia, ventilazione forzata).
Sulla base di queste informazioni e senza presunzione di completezza, si possono esaminare alcune applicazioni della fattispecie di epidemia, dolosa o colposa, nell’attuale contesto storico emergenziale, caratterizzato da una regolamentazione nazionale, regionale e comunale, tesa ad arginare il fenomeno epidemico.
Un soggetto, consapevole della natura del SARS-CoV2, potrebbe deliberarne la diffusione, per cagionare ulteriori focolai.
Per fare ciò, potrebbe veicolarlo, se portatore, nei modi di trasmissione note alla letteratura medica, servirsi di oggetti o secrezioni contaminati da mettere in circolazione o, comunque, utilizzare qualsiasi altra modalità.
L’agente risponderà, a titolo di dolo, del delitto di cui all’articolo 438 del c.p., qualora, a seguito della diffusione, cagioni una epidemia.
L’elemento soggettivo della fattispecie è il dolo generico e l’agente può rispondere del reato anche a titolo di dolo eventuale.
In tale ultima ipotesi, egli agisce per altro, ma è consapevole che, con la sua condotta, può cagionare una epidemia mediante la diffusione dei germi e, nonostante ciò, accetta il rischio del verificarsi dell’evento.
Allo stato attuale, l’epidemia è già in corso, con focolai sparsi nelle varie regioni geografiche. Per tanto, l’evento addebitabile all’agente sarà il focolaio epidemico cagionato direttamente e causalmente dalla sua condotta.
E’ ammesso il tentativo, configurabile se l’evento epidemico non si verifica, nonostante la diffusione dei germi.
Il Ministero della Salute, ha comunicato che, in Italia al 21 aprile 2020, i casi totali di Covid-19 dall’inizio della pandemia sono 183.957, mentre il numero di decessi è di 24.648: una percentuale del 13.39 %.
L’ulteriore evento “morte di più persone”, di cui al capoverso dell’articolo 438 del codice penale, nel caso di diffusione di germi SARS-CoV-2, non è certamente una ipotesi remota ed imprevedibile, della quale l’agente sarà, quindi, chiamato a rispondere, ancorché con la medesima pena dell’ergastolo.
Deve, comunque, essere provata la concatenazione causale fra i decessi e lo specifico focolaio della malattia infettiva innescato dal responsabile.
Al di là della ipotesi manualistica prima segnalata, è più probabile che, nell’attuale contesto storico, si possano verificare fatti riconducibili al reato di epidemia colposa, fattispecie che presenta maggiori profili problematici.
Muovendo dalla incompatibilità del tentativo con i reati colposi, il delitto di cui all’articolo 452 del codice penale si consuma, soltanto, con la verificazione dell’evento epidemico (non voluto), mediante la diffusione del virus causata da condotte che violano i doveri di diligenza, prudenza e perizia, o inosservanti leggi, regolamenti, ordini o discipline, imposti proprio per evitare il verificarsi dell’evento.
E’ necessario ricostruire eziologicamente il nesso tra la condotta e lo specifico focolaio epidemico, con il supporto della scienza medica.
Infine, l’inosservanza delle regole cautelari deve essere rimproverabile all’agente, secondo le coordinate sopra richiamate in tema di responsabilità colposa.
Per contenere e contrastare la diffusione del virus SARS-CoV2, sono in vigore molteplici misure, di natura legislativa e regolamentare, emanate a vari livelli.
E’ stato imposto un distanziamento fisico e un confinamento domiciliare su tutto il territorio nazionale.
Le imponenti campagne informative, pubbliche e private, spiegano e raccomandano le più elementari precauzioni per evitare di infettarsi o contagiare altri soggetti.
Si tratta, in altre parole, dell’insieme delle regole cautelari, cui si deve conformare un soggetto modello per evitare che l’evento epidemia possa verificarsi a causa del suo comportamento.
Un soggetto è punibile quando la condotta che viola una delle misure emergenziali, fra quelle generiche o specifiche, si pone come antecedente causale di uno specifico focolaio epidemico, evento che rientra fra quelli che le regole cautelari miravano proprio ad evitare (secondo il criterio della causalità della colpa).
Per muovere l’addebito colposo, è comunque necessario ricostruire la logica sequenza del giudizio colposo, descritta sopra (punto 2.2).
L’agente deve avere conoscenza di essere portatore dei germi o di avere la disponibilità di oggetti contaminati (o ignorarlo per colpa inescusabile).
Esemplificando, un soggetto infetto che, violando i provvedimenti normativi, gli ordini dell’autorità sanitaria o le regole cautelari generiche, diffonde con qualsiasi modalità il virus e cagiona l’epidemia, non volendola, è chiamato a rispondere dell’ipotesi di cui all’articolo 452 comma 1 n.2 del codice penale, con la pena della reclusione da uno a cinque anni.
La giurisprudenza è esigua in tema.
Nel 2008, la Suprema Corte di Cassazione ha delineato gli elementi che connotano il reato di epidemia, sopra richiamati (punto 1.2), mentre nel 2017, proprio in tema di epidemia colposa, ha affermato che: “Non è configurabile il delitto di epidemia colposa a titolo di omissione, posto che l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, 2° comma, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”, Cass. pen. Sez. IV, 12/12/2017, n. 9133.
Il principio di diritto enunciato solleva qualche perplessità.
L’epidemia punibile, indubbiamente, è quella cagionata soltanto mediante la diffusione di germi patogeni, ma la diffusione può avvenire in qualsiasi modo.
L’articolo 40 comma 2 del codice penale recita: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Nel settore sanitario, in particolare, alcuni soggetti ricoprono posizioni di garanzia connotate da obblighi giuridici imposti, proprio, per impedire l’evento “epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”.
Nel 2002, è stato pubblicato il Piano Italiano Multifase per una pandemia influenzale, poi sostituito dal Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale, stilato secondo le indicazioni del 2005 fornite dall’O.M.S.
Si tratta di direttive programmatiche ed esecutive dalle quali discendono obblighi giuridici imposti, proprio al fine di prevenire, evitare o contenere una epidemia, anche nell’ambito della sanità pubblica.
In realtà, tra l’altro, nel 2013, proprio la Suprema Corte ha affermato che: “È configurabile il concorso per omissione, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., rispetto anche ai reati di mera condotta, a forma libera o vincolata “, (Cass. pen. Sez. I Sent., 23/09/2013, n. 43273) e, ancora più recentemente, nel 2016, che: “È configurabile il concorso per omissione, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., nel reato di frode nelle pubbliche forniture, posto che la responsabilità da causalità omissiva é ipotizzabile anche nei riguardi dei reati di mera condotta, a forma libera o vincolata, e che, nell’ambito della fattispecie concorsuale, la condotta commissiva può costituire sul piano eziologico il termine di riferimento che l’intervento omesso del concorrente avrebbe dovuto scongiurare”, (Cass. pen. Sez. VI Sent., 08/04/2016, n. 28301)
La caotica evoluzione dell’emergenza epidemica solleva il problema della interferenza di altre cause concorrenti alla verificazione dell’evento.
Ai sensi del comma 1 e 3 dell’articolo 41 del codice penale, “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o omissione del colpevole” o consistenti nel fatto illecito altrui, “non esclude il nesso di causalità fra la azione od omissione e l’evento”.
Il legislatore non fa alcuna eccezione per le cause preesistenti e simultanee, poiché, per il loro carattere, possono entrare nella sfera rappresentativa dell’agente.
Una deroga è dettata per le circostanze sopravvenute che, non essendo conoscibili in quanto, appunto, future, “escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”, ai sensi del comma 2 della medesima disposizione.
La valutazione sulla diffusività di una epidemia può tener conto del parametro “R0” della malattia infettiva, ossia il numero di riproduzione di base: “il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile, cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente” (I.S.S.).
Nella scienza epidemiologica, tale valore può variare, in quanto è influenzato dalla scelta dei modelli e dei parametri sottostanti che dovranno, quindi, essere oggetto di approfondimento da parte dell’interprete nel caso concreto.
Esemplificando, un fattore R elevato, normalmente, è correlato ad una diffusività elevata; viceversa, un valore particolarmente basso indicherà una malattia infettiva che, per quanto contagiosa, potrà essere contenuta più facilmente.
L’indice è, comunque, un dato relativo che tiene conto, ad esempio, delle modalità di trasmissione della malattia: germi aerotrasportati avranno un potenziale epidemico ben più elevato di altri trasferiti per contatto.
L’I.S.S. spiega che “R0 è funzione della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, del numero dei contatti della persona infetta e della durata dell’infettività”.
Tali fattori, variabili nel caso del SARS-CoV2, aggiornano, quindi, a posteriori l’indice ‘R’ che, di conseguenza, sembra avere un valore relativo nel giudizio di prevedibilità ed evitabilità a carico dell’agente.
La diffusione di germi patogeni a seguito di una condotta, commissiva od omissiva, di natura colposa, nei termini sopra richiamati, può non cagionare un episodio epidemico, ma non per questo essere penalmente irrilevante.
Le regole cautelari, dettate in materia, presidiano il bene giuridico rappresentato dall’incolumità pubblica, così come quello della salute e della vita dei singoli.
Per tanto, l’agente che, violando le disposizioni normative e regolamentari, gli ordini dell’autorità, le linee guida del settore sanitario o altre regole cautelari, provoca il contagio di una o più persone, senza causare comunque un focolaio epidemico in senso scientifico, può rispondere di lesioni colpose ai sensi dell’articolo 590 del codice penale.
La condotta, infatti, sarebbe causa di una lesione personale, l’infezione, dalla quale deriva una malattia nel corpo, con un decorso più o meno grave, che può portare anche alla morte del soggetto contagiato.
Il decesso è un evento assolutamente prevedibile per l’agente, sulla base della mole di informazioni che, da mesi, circolano in ambito nazionale ed internazionale e dei dati statistici sopra indicati. Ciò comporta che il responsabile può essere chiamato a rispondere di omicidio colposo ai sensi dell’articolo 589 del codice penale.
Solo una approfondita valutazione, permette di sussumere il caso concreto nella specifica fattispecie delittuosa.
Tenuto conto della sua complessità, il giudizio colposo ha necessità di valorizzare, oltremodo, il principio secondo il quale il soggetto (che, comunque, agisce nell’ambito di attività lecite) dovrà essere ritenuto “colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ai sensi dell’articolo 533 c.p.p., così come modificato dalla l. n. 46/2006.
Infine, il comma 6 dell’articolo 4 del d.l. 25 marzo 2020, n.19 prevede che, al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 452 del codice penale o di più grave reato, sopra illustrate, la violazione del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus” è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000.
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Riferimenti bibliografici:
- Relazione ministeriale, in Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di procedura Penale, Roma 1929, Vol. V;
- Istituto Superiore della Sanità – L’epidemiologia per la sanità pubblica :https://www.epicentro.iss.it/;
- Istituto Superiore della Sanità: https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/id/5268851;
- pen. Sez. I, 30.10.2019, n. 48014;
- Civ. Sez. Unite, 11.1.2008, n. 576;
- Garofoli, Manuale di Diritto Penale – Parte generale, Nel Diritto Editore, 2014, pp.1020-1030;
- Sez. unite 22.05.2009, n.22676;
- pen. Sez. IV, 12/12/2017, n. 9133;
- pen. Sez. I Sent., 23/09/2013, n. 43273;
- pen. Sez. VI Sent., 08/04/2016, n. 28301.
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