2. L’INCONTROLLATO PROLIFERARE DEI DECRETI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI
MINISTRI
- GLI EFFETTI DEL CORONAVIRUS SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
- LA SOSPENSIONE DEI TERMINI PROCEDIMENTALI PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
- CONCLUSIONI.
1. La cornice normativa emergenziale in italia.
Il tornado del “Covid – 19”, virus altamente contagioso e completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario, in pochi mesi ha cambiato radicalmente lo scenario globale, con una ricaduta spaventosa e incontrollabile, oltre che sulla salute dei cittadini di tutti i continenti, anche sulla realtà economico-sociale degli stessi, determinando l’adozione di misure straordinarie in campo sanitario e giuridico, insidiando così i principi costituzionali dei vari Stati.
In particolare, nel nostro ordinamento giuridico, in primo luogo, è stato messo a dura prova il principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, in base al quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…”.
In Italia, infatti, il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha ufficializzato, lo stato di emergenza, per sei mesi dalla data del provvedimento, al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione civile, in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; ha deliberato, inoltre, lo stanziamento dei fondi necessari per dare attuazione alle misure precauzionali derivanti dalla dichiarazione di emergenza internazionale effettuata dall’O.M.S.
A disciplinare la materia nella fase di emergenza è intervenuto, a seguito del decreto legge n.11/2020 e dei DD.PP.CC.MM. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 11 marzo 2020, anche il decreto legge del 17 marzo 2020, n.18, pubblicato nella G.U. n. 70 del 18 marzo 2020, che ha previsto nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da covid-19 e contenerne gli effetti in tutti i settori, anche nel settore previdenziale.
Successivamente, a regolamentare la normativa emergenziale, è stato emesso il D.P.C.M. in data 22 marzo 2020, pubblicato nella G.U. n.76 in pari data, che ha fornito ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6, ed ha impartito disposizioni innovative in ordine ai poteri del Prefetto, ampliandoli in maniera significativa.
Nel tentativo, poi, di semplificare la normativa emergenziale e cercare di dare una veste costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, è intervenuto il decreto legge n.19 del 25 marzo 2020.
In primo luogo tale provvedimento ha precisato che possono essere adottate, una o più misure, per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili più volte fino al 31 luglio 2020. Si è posta fine, così, alla vortiginosa e discutibile legiferazione incontrollata da parte dell’esecutivo.
Da ultimo, con D.P.C.M. in data 10 aprile 2020 le misure emergenziali sono state prorogate al 3 maggio 2020.
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L’incontrollato proliferare dei decreti del presidente del consiglio dei ministri, dei decreti interministeriali e dei decreti ministeriali.
Come noto, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti interministeriali e i decreti ministeriali sono atti amministrativi che non costituiscono una fonte del diritto autonoma, sono disciplinati dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400 e non possono essere esercitati in difetto di una specifica attribuzione di rango primario, ossia di legge ordinaria.
Pertanto, tale tipologia di regolamenti non possono derogare, quanto al contenuto, né alla Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate. Per lo stesso motivo, le norme regolamentari non possono avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia (art. 25 Costituzione).
Quando l’organo emanante è il Presidente del Consiglio dei Ministri, il potere in questione è attribuito nell’ambito delle funzioni di coordinamento e indirizzo politico. In ogni caso tale decreti sono di solito generali e astratti, in quanto contengono norme di dettaglio, o generiche, ma relative ad uno specifico argomento, finalizzate all’attuazione di una data norma di legge.
Di regola il decreto è sempre prescritto dalla legge, che, dopo aver delineato i principi di una data materia (ad esempio, nel caso in esame, quella sanitaria), ne affida l’esatta definizione tecnica ed attuazione ai citati organi costituzionali, che la effettuano con proprio decreto.
Nella fattispecie in argomento, tale tipologia di decreto dovrebbe farsi rientrare tra quelli attuativi e integrativi, che non si limitano a dare esecuzione a norme contenute nella fonte sovraordinata (legge, decreto legislativo), ma hanno contenuto innovativo, assicurando l’applicazione e l’integrazione delle leggi, ancorchè nei limiti della disciplina da essa prefissata (art. 17, comma 1, lett. b), legge n.400/1988. Le citate leggi sovraordinate in materia di Coronavirus, per l’aspetto ivi considerato, allo stato, sono il decreto legge n.6/2020, il decreto legge n.11/2020, il decreto legge n.17/1990, il decreto legge n.18/2020, il decreto legge n.19/2020 e il decreto legge n. 23/2020.
Pertanto, il provvedimento in questione potrebbe farsi rientrare nei decreti ministeriali di natura non regolamentare che si innestano nell’orizzonte ormai caotico sistema delle fonti del diritto caratterizzato da una sempre più evidente tipicità.
La congruità di tali decreti, che potrebbero definirsi asistematici, spesso prescelti per l’esercizio del potere normativo del Governo in funzione della disciplina attuativa di un ambito di intervento legislativo, come nel caso in esame, avviene sulla base dell’uso flessibile e talvolta patologico delle fonti.
Quindi, in tale disordinato assetto, l’imporsi sulla scena delle fonti in tale tipologia di decreto, evidenzia da un lato la tendenza ad affidare sempre più spesso ambiti di disciplina alle fonti secondarie (il decreto legge, in sostituzione della legge ordinaria, le ordinanze di protezione civile invece del decreto legge, gli atti amministrativi generali che vanno oltre i regolamenti strictu sensu); dall’altro, i mutamenti nell’assetto del rapporto Parlamento-Governo, con una sempre maggiore invadenza dell’esercizio della funzione legislativa da parte dell’esecutivo.
Tali decreti sono definiti “atti amministrativi privi di forma regolamentare, tuttavia abilitati a derogare alla legge e stabilire regole innovative, i quali non possono non destare perplessità sul piano della legalità e della legittimità costituzionale”; essi possono alterare il principio di separazione dei poteri, dando vita all’esercizio sempre più frequente della funzione legislativa da parte dell’amministrazione.
La difficoltà di distinguere i regolamenti dagli atti amministrativi generali, basandosi soltanto su criteri sostanziali, ha indotto il legislatore ad emanare il sopracitato art.17 della legge n. 400/1988, la cui procedura è stata spesso aggirata violando lo spirito della riforma del titolo V della Costituzione, art.117, comma 6, che riconosce il potere regolamentare del Governo.
Le principali problematiche riguardano in primo luogo la loro normatività, in quanto ci si chiede fino a che punto sia legittimo attribuire contenuti di tipo normativo ad atti che dal punto di vista formale sono amministrativi e che sul piano pratico vengano adottati o per eludere l’art.117, comma 6, della Costituzione oppure per aggirare il procedimento di adozione dei regolamenti.
In secondo luogo si pone il problema del controllo della validità di questi atti.
La legge, che autorizza espressamente l’adozione di questi atti in deroga all’art. 17 della citata legge n.400/1988 (nel caso in esame i decreti legge citati), dovrebbe essere oggetto di sindacato costituzionale per eccesso di potere legislativo, quest’ultimo “riconducibile ad uno sviamento della funzione tipica della legge, che diventa strumento di illecita elusione delle competenze costituzionalmente assegnate”.
Il decreto, invece, “potrebbe essere impugnato in sede di conflitto tra Stato e regioni, nonchè in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, disapplicato dal giudice ordinario ove contrario alla legge o alla Costituzione, annullato dal giudice amministrativo nella sede del sindacato di annullamento, non propriamente adatta al controllo di validità degli atti normativi”.
Infine, dal punto di vista pratico, si osserva che la prassi dei decreti di natura non regolamentare realizza concretamente non tanto una delegificazione della materia quanto “una flessione patologica della normatività a favore dell’amministrativizzazione della legge.
La disposizione di cui al più volte citato art. 17 della legge n.400/1988, ritenuta fragile per la sua natura di legge ordinaria, potrebbe trovare, secondo una parte della dottrina, il suo fondamento nella sussistenza di un principio costituzionale implicito, che, come tale, dovrebbe costituire sufficiente vincolo per ottenere il rispetto dei limiti della potestà regolamentare. Sulla base di tale principio, la legge potrebbe attribuire, ad altre autorità, potestà amministrative subordinate alle leggi, purchè tutti i tipi di atti amministrativi siano elencati in una legge generale, non derogabile caso per caso neppure da successive leggi particolari; nonché alcun contenuto normativo venga ammesso se non introdotto con uno di tali atti normativi. Se, inoltre, la Corte Costituzionale condividesse l’esistenza e la portata di tale principio, almeno implicitamente, si potrebbe sostenere che quella legge generale già esiste, ed è proprio l’art. 17 della menzionata legge n.440/1988 che enumera tutti i regolamenti statali possibili; sicchè qualunque contenuto normativo subordinato alla legge o viene introdotto con uno di tali regolamenti seguendo le prescrizioni ivi previste o è illegittimo.
In realtà, si ritiene che attraverso l’uso dei regolamenti di cui trattasi, si possa produrre la violazione dell’art. 17 della legge n.400/1988, il cui ambito di applicazione può anche ritenersi ridimensionato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 117, comma 6, della Costituzione, ma non certamente abrogato, determinandosi, così, un vulnus dei limiti costituzionali delle competenze.
Un primo sgarbo istituzionale, nella materia emergenziale in esame, si è avuto, ad esempio, con il rinvio all’art. 650 del codice penale operato in precedenza dall’art. 4 del D.P.C.M. 8 marzo 2020, che al secondo comma recitava: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6 ”.
Per effetto di questa disposizione, tutti gli obblighi contenuti nel provvedimento risultavano sanzionati con il reato contravvenzionale ex art. 650 del codice penale (“Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro”), mentre per le numerose raccomandazioni ivi previste, il medesimo testo non prevedeva sanzioni.
Tale sistema sanzionatorio è stato, però, rivoluzionato dall’art. 4 del decreto legge 19/2020, che al primo comma ha statuito “Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’art. 1, comma 2, individuate ed applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 2, comma 2, individuate ed applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 2, comma 1, ovvero dell’art. 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’art. 650 del codice penale o di ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’art. 3, comma 3. Se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo”.
In tal modo lo pseudo legislatore, resosi conto della evidente violazione della normativa costituzionale e dell’abnorme portata dell’avvio di migliaia di procedimenti penali che avrebbero intasato le procure della repubblica e della scarsa efficacia deterrente delle stesse, ha previsto un meccanismo sanzionatorio molto più efficace e legittimo.
Un altro dubbio sulla decretazione di cui trattasi concerne la possibile violazione dell’art. 41 della Costituzione che sancisce “L’iniziativa economica privata è libera […]”. Pertanto, far discendere una limitazione di tale libertà così rilevante nel nostro ordinamento giuridico a provvedimenti amministrativi del Prefetto dall’art, 1, lettere d), f), g) e h) del D.P.C.M. in data 22 marzo 2020 desta non poche perplessità (cfr il mio lavoro su “Diritto e Giustizia” del 26 marzo 2020).
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3. Gli effetti del coronavirus sulla pubblica amministrazione
Si deve rilevare, in primo luogo, la sicura influenza della normativa emergenziale sul funzionamento della pubblica amministrazione e, per quanto ci riguarda, su quello del nostro ordinamento giuridico.
Tale normativa, dettata da indubbie ragioni di natura sanitaria, ha costituito un ulteriore vulnus per l’art. 97, secondo comma, della Costituzione, spesso inattuato, secondo cui “…I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione…”.
Una svolta nel settore di interesse, si è avuta con la circolare del Ministro per la Pubblica Amministrazione n.15008 del 4 marzo 2020, concernente misure incentivanti per il ricorso a modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa.
La direttiva parte da una premessa contenente principi di carattere generale, in parte discutibili e sostanzialmente inattuati. Essa, in buona sostanza, afferma che, anche a seguito delle recenti situazioni emergenziali, si rende necessario un ripensamento delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa anche in termini di elasticità e flessibilità, “allo scopo di renderla più adeguata all’accresciuta complessità del contesto generale in cui essa si inserisce, aumentarne l’efficacia, promuovere e conseguire effetti positivi sul fronte della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, favorire il benessere organizzativo e assicurare l’esercizio dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, contribuendo, così, al miglioramento della qualità dei servizi pubblici…”.
Si ritiene che l’efficienza della Pubblica Amministrazione non può, allo stato, compiutamente realizzarsi con il conseguimento di tali principi, peraltro, in gran parte inattuati, anche perché, come vedremo, la quasi totalità degli uffici pubblici si fonda su servizi di front office diretti al cittadino.
La circolare prosegue rammentando l’obbligo per le amministrazioni pubbliche, derivanti dall’art. 14 della legge 7 agosto 2015, n.124, di adottare misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro “di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10% dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tale modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgano non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera…”.
Tale disposizione avrebbe dovuto incidere sulla valutazione dei dirigenti e sui sistemi di monitoraggio interno, accertamento quasi del tutto trascurato dalle Pubbliche Amministrazioni.
Prosegue la circolare che, con decreto legge 22 maggio 2017, n.81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato” sarebbe stata introdotta una nuova concezione dei tempi e dei luoghi del lavoro subordinato, mediante accordi tra le parti, “senza precisi vincoli di orari e di luoghi di lavoro”. La prestazione verrebbe eseguita “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Per il settore pubblico, l’art. 18, comma 3, della predetta legge n. 81 del 2017, prevede che le disposizioni introdotte in materia di lavoro agile si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (totalità dei dipendenti pubblici).
Viene, altresì, prevista una priorità per le lavoratrici madre e viene richiamata la direttiva n. 3 del 2017 recante “Le linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti”. Le modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, tra le quali, il lavoro agile, sono altresì richiamate nella direttiva n. 1 del 25 febbraio 2020 e nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° marzo 2020.
La direttiva stabilisce, poi, misure di incentivazione quali il ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni ed incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference), l’utilizzo di propri dispositivi e l’attivazione di un sistema bilanciato di reportistica interna ai fini dell’ottimizzazione della produttività anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance.
Viene, inoltre, ribadito il monitoraggio, già indicato nella direttiva n. 3 del 2017, con la collaborazione dei Comitati Unici di garanzia per le pari opportunità, per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) e degli organismi indipendenti di valutazione della performance (OIV), secondo le rispettive competenze.
Con successiva circolare n. 2 del 1° aprile 2020 è stato ribadito che il lavoro agile costituisce la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione fino alla cessazione dello stato di emergenza. La direttiva conferma che le amministrazioni sono chiamate a uno sforzo organizzativo e gestionale per garantirne il pieno utilizzo, accessibile in modo temporaneamente semplificato, così da ridurre al minimo gli spostamenti e la presenza dei dipendenti negli uffici, correlandola ai servizi indifferibili non erogabili da remoto. Il ricorso al lavoro agile non esclude l’utilizzo, per motivate esigenze organizzative, agli altri istituti richiamati dalla norma, tra i quali ferie pregresse, congedo, banca ore, rotazione nel rispetto della contrattazione collettiva, mentre l’esenzione del lavoratore dal pubblico servizio è un’extrema ratio da motivare puntualmente. La circolare precisa, però, che qualora una pubblica amministrazione non individui le attività indifferibili da svolgere in presenza, ciò non significa che il dipendente sia automaticamente autorizzato a non presentarsi in servizio.
Da quanto detto si comprende che la differenza fondamentale del lavoro agile pubblico e quello privato consiste nel fatto che, mentre nella pubblica amministrazione si tratta di un obbligo e non di una possibilità ed è possibile derogare agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui agli articoli dal 18 al 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, lo stesso non può essere detto per il lavoro privato in cui tale tipologia di lavoro non è un obbligo, ma una possibilità e deve, comunque, rispettare gli articoli sopra citati.
Tanto premesso, deve rilevarsi che, ad avviso dello scrivente, il sistema delineato dalla citata circolare del 4 marzo 2020 del Ministro per la Pubblica Amministrazione, allo stato, è in gran parte inattuato.
Tutti i Ministeri, adempiendo ad un obbligo formale, avevano emanato i regolamenti di attuazione, ed hanno svolto la contrattazione sindacale, ma il ricorso al sistema, prima dell’emergenza, era quasi nullo. Il Ministero dell’Economia e Finanze, a far data dal 9 marzo 2020, si è attrezzato per prevedere una partecipazione dei propri dipendenti a tale forma di lavoro pari al 50%, ma eravamo di fronte ad un tentativo ancora in fieri. Tutti gli altri Ministeri, nelle loro articolazioni centrali e periferiche, hanno oramai effettuato un massiccio ricorso al sistema dello smart working. Le altre Amministrazioni Pubbliche, tra cui gli enti locali, in molti casi non avevano neanche adottato i regolamenti e lo hanno fatto frettolosamente di recente a causa dell’emergenza del covid-19. In particolare i Comuni hanno dovuto rimodulare radicalmente le proprie modalità di azione sia sul fronte esterno, per garantire non solo la continuità dei servizi esistenti, ma anche l’approntamento di nuove e urgenti iniziative per rispondere ad esigenze mutate improvvisamente, sia sul fronte organizzativo, dovendo essi stessi contribuire a garantire il prioritario distanziamento sociale mediante la massima riduzione del personale in servizio.
Le disposizioni contenute nella direttiva sono state confermate e rafforzate da tutta la normativa prevista dai successivi decreti legge e DD.PP.CC..MM. che si sono susseguiti sino ad oggi, come precisato in premessa.
E’ indubbio, quindi, che il contagio ha avuto il “merito” di aver riproposto il tema del telelavoro, prezioso strumento a disposizione anche delle Pubbliche Amministrazioni. Probabilmente sarebbe bastato seguire le indicazioni dell’Unione Europea che, con la risoluzione del 13 settembre 2016, si impegnava a “sostenere il lavoro agile”, per garantire maggiore inclusione e nuove assunzioni nel corso di questi anni, maggiore sicurezza e tutela della salute.
Ma a parte le citate inadempienze, devono rilevarsi alcune difficoltà strutturali per il ricorso a tale strumento.
In primo luogo tale sistema lavorativo renderebbe più difficili i controlli previsti dalla vigente normativa. In un sistema pubblico, caratterizzato da un rilevante fenomeno di assenteismo (ad esempio, i cc.dd. furbetti del cartellino), la verifica dell’attività lavorativa, al di là delle belle parole, diverrebbe ancora più difficile, con conseguenti responsabilità penali e contabili per i dirigenti.
In secondo luogo, come già accennato, la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni svolge un compito di ricevimento del pubblico, che diverrebbe più difficile con lo strumento del telelavoro e distoglierebbe numerose unità lavorative destinate a tale compito, mentre sarebbe molto difficile interloquire con i cittadini non tutti in possesso di strumenti e competenze informatiche. Negli ultimi mesi, infatti, si è assistito alla parziale chiusura degli sportelli, con gravi disagi per i cittadini.
Infine, il progressivo ed abnorme invecchiamento dei lavoratori pubblici non sempre in possesso di professionalità informatiche e, soprattutto la carenza degli organici, giunta a livelli preoccupanti, potrebbero ostacolare il ricorso a tale forma di lavoro.
Certamente le disposizioni normative e le indicazioni del Ministro per la Pubblica Amministrazione dovranno essere eseguite ed implementate, ma non può nascondersi che tale processo si svolgerà faticosamente e richiederà del tempo (cfr il mio lavoro su “PMI.it” del 16 marzo 2020).
4. La sospensione dei termini procedimentali per la pubblica amministrazione.
L’atteso “Decreto Cura Italia” (decreto legge 17 marzo 2020, n.18, convertito in legge con modifiche in data 24 aprile 2020), non si è limitato solo a sospendere i termini dei processi civili, penali, tributari e militari, amministrativi e quelli della Giustizia contabile, ma ha disposto, altresì, la sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi e degli effetti degli atti amministrativi in scadenza.
L’art. 37 del decreto legge n.23/2020 ha prorogato dal 15 aprile al 15 maggio 2020 la data conclusiva del periodo di sospensione dei termini riguardanti, in via generale, i procedimenti amministrativi e l’efficacia degli atti amministrativi in scadenza.
La sospensione dei termini, data la sua portata generale, interessa anche i procedimenti in materia di accesso, incluso l’accesso civico generalizzato. Pertanto, ove nel periodo considerato siano pendenti richieste di accesso civico generalizzato (o di altro tipo), le amministrazioni possono avvalersi della sospensione del termine di conclusione dei relativi procedimenti.
La proroga in argomento non modifica invece quanto previsto dall’art. 67 del decreto legge n. 18/2020, che ha sospeso dall’8 marzo al 31 maggio 2020 i termini per rispondere “alle istanze formulate ai sensi dell’art. 22 della legge 7 agosto n.241, e dell’art. 5 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n.33”, con riferimento esclusivo al settore dell’amministrazione fiscale.
Secondo la comunicazione approvata dal Collegio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), nelle sedute del 1° aprile e del 10 aprile 2020, l’art. 103, comma 1, del citato decreto legge n.18/2020 prevede che “Ai fini del computo dei termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, non si tiene conto del periodo compreso tra la medesima data e quella del 15 aprile 2020 (ora 15 maggio 2020). Le pubbliche amministrazioni adottano ogni misura organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei procedimenti, con priorità per quelli da considerare urgenti, anche sulla base di motivate istanze degli interessati…”.
La misura si applica sia al termine di chiusura dei procedimenti, sia ai termini di conclusione di precise fasi endoprocedimentali, nonché a tutti termini concernenti i singoli adempimenti procedimentali (come il termine entro il quale provvedere su un’istanza di parte).
La sospensione trova, altresì, applicazione nei confronti dei termini che regolano l’inizio del procedimento. Pertanto, qualunque notificazione/notifica o denuncia inviata nel periodo compreso tra il 23 febbraio e il 15 maggio del 2020 dovrà ritenersi pervenuta il 16 maggio 2020. E non si esclude che tale termine verrà ulteriormente prorogato.
Al fine di garantire l’efficace ed efficiente svolgimento delle proprie funzioni istituzionali, in linea con quanto previsto dall’art. 103, che riconosce alle pubbliche amministrazioni la potestà di adottare misure organizzative idonee ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione del procedimento, l’Autorità ha individuato i casi che non rientrano nella sospensione.
Sono esclusi dalla sospensione i termini dei procedimenti cautelari. In questa ipotesi l’intervento tempestivo dell’Autorità è necessario a impedire il prodursi di un danno grave e irreparabile alla concorrenza e ai diritti dei consumatori che, nelle more della sospensione, potrebbe invece consolidarsi definitivamente. La natura per definizione irreparabile del danno derivante dalla mancata tutela di un interesse pubblico risulterebbe, infatti, ulteriormente aggravata dal mancato esercizio del potere cautelare.
Esulano dalla sospensione anche i termini entro cui le imprese devono ottemperare alla diffida, trattandosi di un’attività che non solo non è amministrativa e non si svolge nell’ambito di un procedimento, ma che è necessaria a rimuovere dall’ordinamento un illecito anticoncorrenziale o consumeristico. Applicare la sospensione a questi termini significherebbe prolungare ingiustificatamente la durata di una condotta illecita, con conseguente lesione degli interessi alla cui tutela è istituzionalmente preposta l’Autorità.
La sospensione non si applica parimenti al termine entro cui le imprese devono ottemperare alle misure imposte in sede di autorizzazione condizionata di un’operazione di concentrazione, in quanto volte a preservare la concorrenza.
Poiché l’art. 103 si applica anche ai termini esecutivi, in materia di concorrenza, i termini di pagamento delle sanzioni che scadono nel periodo dal 23 febbraio al 15 maggio 2020 sono prorogati al 1° ottobre 2020, tenuto già conto del periodo di sospensione.
Per le sanzioni in materia di tutela del consumatore, il cui pagamento, in base a quanto disposto dall’art. 27, comma 13, del Codice del Consumo deve essere effettuato entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, il termine esecutivo è sospeso e ricomincerà a decorrere al termine della sospensione.
Per le sanzioni i cui termini di pagamento siano già scaduti alla data del 23 febbraio 2020 non si tiene conto del periodo di sospensione ai fini del computo degli interessi e delle maggiorazioni. Sono sospesi i termini di pagamento delle rate che scadono nel periodo della sospensione.
Una volta stabilita l’applicabilità del citato art. 103 anche ai procedimenti ad evidenza pubblica, la circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in data 23 marzo 2020 ritiene che lo stesso si applica anche alle procedure di appalto o di concessione disciplinate dal decreto legislativo 30 aprile 2016, n.50 (codice degli appalti).
Inoltre, la direttiva chiarisce anche la portata dell’effetto sospensivo disposto dalla norma anzidetta e gli effetti pratici che ne derivano: “Ne deriva che la previsione recata dall’art. 103 del decreto legge n.18/2020 risulta applicabile a tutti i termini stabiliti dalle singole disposizioni della lex specialis (ad esempio, termini per la presentazione delle domande di partecipazione e/o delle offerte; termini previsti dai bandi per l’effettuazione di sopralluoghi; termini concessi ai sensi dell’ art. 83, comma 9, del codice per il c.d. “soccorso istruttorio…”. In ogni caso, “poiché la sospensione dei termini è stata stabilita in favore del soggetto onerato di osservarlo, nulla vieta che quest’ultimo possa comunque validamente porre in essere l’attività prevista entro il termine originario ovvero in un termine inferiore rispetto a quello risultante dalla sospensione. In tale caso, rimane comunque ferma l’applicazione dell’art. 103, comma 1, del decreto legge n.18/2020 per quanto concerne i termini relativi allo svolgimento delle attività conseguenti”. Quindi, i termini gravanti sull’Ente appaltante (ad esempio, i termini stabiliti dalla commissione di gara per l’espletamento della sua attività e i termini di riscontro delle eventuali istanze di accesso degli operatori economici) sono sottoposti al periodo sospensivo, sebbene residui in capo al medesimo Ente la valutazione in ordine al rispetto dei termini originari, ove siano presenti ed operative misure organizzative compatibili con le norme in tema di contenimento del rischio da contagio del virus.
Tale ricostruzione non allontana i dubbi sul permanere di criticità, soprattutto alla luce dell’avvertita necessità di non bloccare in maniera generalizzata l’operato delle stazioni appaltanti, a maggior ragione laddove si tratti di acquisire prestazioni essenziali e strategiche per fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto.
Dubbi sorgono, poi, per le procedure concorsuali (ad esempio, sedute collegiali a distanza di una commissione di gara), laddove diventa indispensabile identificare con certezza i partecipanti ed essere tali da assicurare la regolarità dello svolgimento delle sedute, nel rispetto di criteri di trasparenza e di tracciabilità.
Ancora, in tema di procedure concorsuali, l’art. 87 del decreto legge n.18/2020 precisa che la sospensione dei concorsi pubblici non opera per quelle procedure “in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità telematica”.
Pertanto, se l’utilizzo di strumenti telematici e a distanza nell’ambito di procedure concorsuali pubbliche sembra affievolire la necessità di sospendere l’attività amministrativa, analoga soluzione potrebbe essere adoperata nell’ambito delle gare pubbliche, nelle quali, l’unica esigenza di sospensione dei termini permarrebbe ove vi sia il bisogno di acquisire documentazione o riscontri da soggetti diversi rispetto all’operatore economico.
Se è vero, quindi, come affermato nella circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che “La conclusione in tempi certi e celeri dei procedimenti amministrativi rappresenta, infatti, un’esigenza ineludibile per l’intero settore dei contratti pubblici, a prescindere dall’emergenza determinata dalla diffusione del virus Covid-19…”, l’effetto sospensivo previsto dalla norma, ove interpretato in termini eccessivamente generici e rigidi si ripercuoterà inevitabilmente sul necessario ed agile svolgimento dell’attività economica (cfr sul punto Imbergamo G. e Cicchinelli A. in “Piselli & Partners” del 30 marzo 2020).
L’interpretazione data dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, inoltre, potrebbe considerarsi in contrasto con l’art. 79 del Codice dei contratti che impone alle stazioni appaltanti di comunicare espressamente la proroga agli operatori economici interessati.
Il secondo comma dell’art. 103 introduce, a sua volta, una proroga degli effetti di certificati, attestati, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, in scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile 2020, i quali conservano validità fino al 15 giugno 2020.
Si evidenzia che la proroga è limitata agli atti che vanno a scadere in quel determinato periodo, sicchè essa non opera quando il termine di efficacia o decadenza o prescrizione scade in un momento successivo al 15 maggio 2020.
Questa “conservazione della validità dell’atto” rileva senz’altro con riguardo ai termini di decadenza dei titoli abilitativi edilizi (ad esempio, permessi di costruire e SCIA: art. 15 del D.PR. n.380/2001) e delle autorizzazioni paesaggistiche (art. 146, comma 45, del decreto legislativo n. 42/2004); dubbi sorgono, invece, per la SILA, avendo la stessa un particolare regime “comunicativo”.
Dovrebbe, altresì, rientrare nella proroga il termine di validità dei piani urbanistici attuativi, mentre non è chiara la definizione di eventuali termini concordati dalle parti in una convenzione urbanistica o in un accordo pubblico-privato ovvero ancora in un contratto di appalto pubblico; in questi casi la proroga del termine posto a carico di una parte dovrebbe comunque essere consentita applicando analogicamente il primo comma dell’art. 103 ovvero facendo ricorso ai principi generali del diritto civile sull’adempimento delle obbligazioni contrattuali, peraltro espressamente richiamati, ai fini della valutazione della responsabilità del debitore, dall’art. 91 del medesimo decreto legge n. 18/2020.
La conservazione della validità dei provvedimenti amministrativi dovrà essere considerata anche con riguardo ai termini – di decadenza o di prescrizione – entro i quali (o a decorrere dai quali) è possibile tutelare giudizialmente una posizione giuridica soggettiva lesa dall’atto i cui effetti sono stati prorogati sino al 15 giugno 2020, tenuto ovviamente conto della sospensione dei termini del processo amministrativo, come disposta dall’art. 84, primo comma, del decreto legge n. rilascio degli 18/2020 ( cfr sull’argomento Pedoja M. in “Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti” del 23 marzo 2020).
Il terzo comma precisa che “Le disposizioni di cui ai commi precedenti non si applicano ai termini stabiliti da specifiche disposizioni del presente decreto e dei decreti legge 23 febbraio 2020, n.6, 2 marzo 2020, n.9, e 8 marzo 2020, n.11, nonché dei relativi decreti di attuazione.
Secondo il quarto comma “Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai pagamenti di stipendi, pensioni, retribuzioni per lavoro autonomo, emolumenti per prestazioni di lavoro o di opere, servizi e forniture a qualsiasi titolo, indennità di disoccupazione e altre indennità da ammortizzatori sociali o da prestazioni assistenziali o sociali, comunque denominate nonché di contributi, sovvenzioni e agevolazioni alle imprese comunque denominati”.
Il quinto comma precisa che “I termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, ivi inclusi quelli del personale di cui all’art. 3, del medesimo decreto legislativo, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15 aprile 2020”. Tale termine, come detto, è stato prorogato al 15 maggio 2020 dall’art. 37 del citato decreto legge n.23/2020.
Il sesto comma dell’art. 103, infine, dispone la sospensione dei provvedimenti di immobili, anche ad uso non abitativo, sino al 30 giugno 2020, laddove per “provvedimenti dovrebbero intendersi, ratione materia, solo i provvedimenti amministrativi di rilascio degli immobili, posto che quelli giurisdizionali sembrano già ricompresi nella generale sospensione dei procedimenti esecutivi disposta dal secondo comma dell’art. 83 dello stesso decreto.
Sull’argomento è intervenuta anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione con delibera n.312 del 9 aprile 2020 che ha fissato alcune misure volte a garantire la massima partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici in vigenza in della situazione di emergenza sanitaria.
L’art. 1, della I parte della delibera, disciplina le procedure di gara per le quali non si è ancora addivenuti alla pubblicazione del bando di gara, dell’avviso o dell’invito a presentare le offerte. A tale riguardo la delibera suggerisce in linea generale alle amministrazioni di avviare soltanto le procedure di gara ritenute urgenti e indifferibili, adottando tutte le cautele volte a favorire la massima partecipazione e garantire la par condicio tra i concorrenti.
Se la disposizione appare ispirata ad un principio di cautela, non si può negare che la stessa costituisce un freno al libero svolgimento dell’attività economica, già duramente danneggiata dall’attuale fase emergenziale.
L’art. 2, invece, si occupa delle procedure di selezione in corso di svolgimento e richiede la massima pubblicità e trasparenza delle determinazioni adottate in conseguenza dell’emergenza sanitaria e prevede che “le stesse danno atto con avviso pubblico riferito a tutte le gare:
2.1 della sospensione dei termini disposta dall’art. 103 del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, così come modificato dall’art. 37 del decreto legge n.23 dell’8 aprile 2020, chiarendo che detta sospensione si applica a tutti i termini stabiliti dalle singole disposizioni della lex specialis e, in particolare sia a quelli “iniziali” relativi alla presentazione delle domande di partecipazione e/o delle offerte , nonché a quelli previsti per l’effettuazione dei sopralluoghi, sia a quelli endoprocedimentali tra i quali, a titolo esemplificativo, quelli relativi al procedimento di soccorso istruttorio e al sub-procedimento di verifica dell’anomalia e/o congruità dell’offerta;
2.2 della nuova scadenza dei termini già assegnati così come ricalcata con applicazione della sospensione di cui al citato decreto legge, specificando che alla conclusione del periodo di sospensione (16 maggio 2020) i termini suindicati riprenderanno a decorrere per il periodo residuo;
2.3 che la stazione appaltante adotterà ogni misura organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione della procedura, compatibilmente con la situazione di emergenza in atto. A tal fine, valuterà l’opportunità di rispettare, anche in pendenza della disposta sospensione e limitatamente alle attività di esclusiva pertinenza della stessa, i termini endoprocedimentali, finali ed esecutivi, originariamente previsti, nei limiti in cui ciò sia compatibile con le misure di contenimento della diffusione del Covid-19…”.
Si tratta di una normativa dettata dal buon senso e che adatta le disposizioni di cui al citato art. 103 alla delicata materia degli appalti.
L’art.2.4 prosegue prevedendo la facoltà di dare atto della “pubblicità della possibilità per la stazione appaltante, laddove il tipo di procedura e la fase della stessa lo consentano, di determinarsi per la disapplicazione della sospensione di alcuni termini di gara previsti a favore dei concorrenti, precisando per quali termini conseguenti resta ferma l’applicazione dell’art. 103, comma 1, del decreto legge n.18/2020, così come modificato dall’art. 37 del decreto legge n. 23 dell’8 aprile 2020. Tale possibilità è consentita, nelle procedure ristrette e negoziate, in cui sono noti i partecipanti, già a partire dal termine per la presentazione delle offerte e, per tutte le procedure, con riferimento ai termini relativi alle fasi successive di gara. Nela caso in cui le amministrazioni intendano avvalersi di tale previsione possono acquisire preventivamente la dichiarazione dei concorrenti in merito alla volontà di avvalersi o meno della sospensione dei termini disposta dal decreto legge n.18/2020, così come modificato dal decreto legge n.23 dell’8 aprile 2020…”.
Tale disposizione desta non poche perplessità perchè viene ad incidere pesantemente sui termini di gara previsti a favore dei concorrenti disponendo un’ingiustificata restrizione dei diritti degli stessi.
Altrettanto discutibili e pericolose sono le successive facoltà attribuite alle stazioni appaltanti dai successivi articoli, concessione di proroghe e/o differimenti ulteriori rispetto a quelli previsti dal decreto legge in esame (art. 2.5), possibilità di svolgere le procedure di gara con modalità telematiche anche nel caso in cui tale previsione non fosse contenuta nel bando di gara (art.2.6), possibilità di svolgere le sedute pubbliche a distanza (art.2.7), possibilità di rinunciare al sopralluogo obbligatorio previsto dalla lex specialis di gara nei casi in cui lo stesso non sarebbe strettamente necessario per la formulazione dell’offerta (art.2.8, si tratta di una contraddizione in termini, perché non si comprende come possa considerarsi non necessario un sopralluogo ritenuto obbligatorio dal bando di gara), prevedere la possibilità svolgere le sedute riservate della commissione giudicatrice di cui all’art. 77 del decreto legislativo n.50 del 18 aprile 2016 in streaming o con collegamenti da remoto (art.2.9, disposizione contra legem ed in insanabile contrasto con il bando di gara). Meno rilevante e giustificata appare la disposizione che prevede la possibilità di adottare modalità di adempimento degli obblighi connessi alla partecipazione alle procedure di affidamento compatibili con le misure restrittive in atto (art.2.10).
Per quanto concerne la fase di esecuzione del contratto, la parte II della delibera, prevede opportunamente una causa di forza maggiore; infatti, il rispetto delle misure di contenimento del contagio previste nel decreto legge 23 febbraio 2020, n.6, nei contratti aventi ad oggetto servizi e forniture, è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c,c,, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. Il provvedimento rimanda, poi, al protocollo del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti stipulato con Anas S,p,A, RFI, ANCE e sindacati per la tipizzazione dei possibili casi concreti di esclusione della responsabilità nel caso dei contratti di lavoro.
Solo un cenno, infine, si ritiene di fare sulla illegittima procedura che viene posta in essere in questi giorni da grosse aziende private, come istituti di credito e società partecipate come poste italiane, compagnie di telefonia mobile ed altre, che hanno rallentato e ridotto i propri servizi, anche di assistenza tecnica, adducendo una impropria, quanto ingiustificata, sospensione dei termini in base alla vigente normativa emergenziale. Tale atteggiamento non li renderà immuni dai probabili giudizi di responsabilità per risarcimento dei danni.
5. Conclusioni.
Certamente le citate disposizioni emergenziali incidono pesantemente sul nostro sistema della pubblica amministrazione, già atavicamente in una situazione di difficoltà strutturale e funzionale.
Pertanto, si rende necessario il bilanciamento con gli altri diritti inviolabili dei cittadini e, in particolare, non devono essere messi in pericolo gli elementi necessari a garantire la fruizione dei diritti garantiti dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie. La violazione di tali diritti sicuramente può costituire un pregiudizio per la collettività, nell’auspicio, inoltre, che le misure adottate saranno confinate alla fase emergenziale.
Tuttavia, deve anche rilevarsi che l’emergenza Coronavirus sta contribuendo a rendere possibile un passaggio epocale nella pubblica amministrazione, in quanto finalmente si sta cercando di attuare le disposizioni in un’ottica non solo formalistica, ma con riguardo ai servizi resi ai cittadini ed al risultato, garantendo, pur con il ricorso a forme di lavoro agile, servizi pubblici essenziali, quali sanità, istruzione, protezione civile, sicurezza, infrastrutture, trasporti, interventi per la sicurezza del lavoro. Si stima, infatti, che nei settori attivi, allo stato, circa tre milioni di lavoratori, tra il pubblico e il privato, utilizzano il telelavoro o lo smart working.
In conclusione, si deve rilevare che siamo di fronte ad un fenomeno di tale gravità, che i suoi effetti si rifletteranno anche sul funzionamento di tutto il nostro sistema economico e sociale, in tutte le sue componenti con una inevitabile limitazione dei diritti fondamentali dell’individuo, anche se temporanea e opportunamente controllata da organi terzi (ad esempio, prefetture). Deve, perciò, auspicarsi che l’impegno di tutte le componenti sociali, possa contribuire a controllare questo fenomeno invasivo e di difficile contrasto nel rispetto delle disposizioni poste a tutela del nostro ordinamento democratico.
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