Il fatto
La Corte di appello di Catanzaro confermava la condanna per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, disposta dal Tribunale della stessa città in relazione alla detenzione di 9,75 grammi di cocaina.
In particolare, la Corte di appello, così come il primo giudice, aveva desunto la destinazione a terzi di quello stupefacente dalla quantità, dalla detenzione anche di sostanza di tipo differente e dalla inverosimiglianza della versione difensiva in ragione delle inadeguate condizioni economiche familiari dell’imputato (disoccupato e figlio di un’impiegata con reddito modesto) e del fatto che egli non fosse consumatore abituale rilevandosi al contempo che, da un lato, la sostanza era stata rinvenuta, a seguito di perquisizione domiciliare, all’interno di una scatola, in un cassetto della scrivania della stanza da letto dell’imputato nel quale vi era pure un altro contenitore con tracce di hashish, dall’altro, in sede di convalida del suo arresto, l’imputato aveva riferito di averla acquistata a Pistoia e di averla pagata settecento Euro attingendo ai suoi risparmi.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo manifesta illogicità della motivazione e insufficienza degli elementi ivi valorizzati al fine di sostenere un giudizio di colpevolezza che fosse in grado di superare la soglia del dubbio ragionevole.
Si evidenziava, a tal proposito, che: la sostanza era stata rinvenuta su indicazione dello stesso indagato; era custodita in un unico involucro e non suddivisa in dosi; non era stata sottoposta ad indagine tossicologica sicché ne era ignota la quantità di principio attivo; non erano stati rinvenuti nè strumenti per il frazionamento e confezionamento nè denaro; l’imputato, ventisei anni all’epoca, era incensurato, figlio unico di un’impiegata pubblica con un reddito documentato di circa 1.500 euro mensili; insignificante, infine, era la detenzione di sostanze di specie diversa (una delle quali, peraltro, in quantità inapprezzabile) essendone frequente il consumo di entrambi i tipi da parte di uno stesso soggetto.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il motivo di ricorso veniva stimato fondato per le seguenti ragioni.
A fronte del fatto che il ricorrente aveva sollecitato una verifica sulla resistenza del giudizio di colpevolezza da quei giudici formulato, a ragionevoli ipotesi ricostruttive alternative, e dunque una valutazione sul rispetto del canone fondamentale per l’affermazione della responsabilità penale, previsto dall’art. 533 c.p.p., comma 1, ossia il superamento di ogni dubbio ragionevole, gli Ermellini rilevavano come tale regola di giudizio consenta di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 5, n. 1282 del 12/11/2018; Sez. 4, n. 48541 del 19/06/2018) implicando ciò, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi difensiva (Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018).
In relazione a tali principi di diritto, i giudici di piazza Cavour notavano come la sentenza impugnata non ne avesse fatto corretta applicazione posto che gli elementi da essa valorizzati non risultavano muniti di significativa valenza indiziante e ciò anche perchè le tracce della disponibilità, da parte dell’imputato, di sostanza stupefacente di altro tipo rispetto a quella rinvenuta in suo possesso, non permettevano, per il Supremo Consesso, di stabilirne la quantità in ipotesi anche molto modesta, nè consentivano di collocare nel tempo tale detenzione ulteriore nel senso che le disponibilità economiche di costui, se sono state reputate insufficienti, non sono state oggetto di alcuna verifica né risultano manifestamente inconciliabili con il costo da lui asseritamente sopportato per l’acquisto mentre la qualità di consumatore “abituale” o meno è nozione vaga e, nello specifico, esclusa sulla base di un’inferenza priva di qualsiasi validità scientifica avendo la Corte di merito valorizzato, a tal fine, soltanto il fatto che l’imputato, a suo stesso dire, aveva interrotto l’assunzione di tali sostanze di propria volontà e senza ausilii esterni.
Di contro, la quantità di sostanza (pari a meno di dieci grammi lordi), il mancato rinvenimento, nella disponibilità del ricorrente, di strumenti funzionali al frazionamento ed al confezionamento in dosi al consumo ed il lineare comportamento da lui tenuto in occasione della perquisizione domiciliare subita, secondo la Corte di legittimità, risultavano essere ampiamente compatibili con una destinazione di quella sostanza al suo consumo personale.
La debolezza rappresentativa dei risultati probatori valorizzati in sentenza, combinata con l’indiscussa presenza di elementi idonei a sostenere un’ipotesi alternativa plausibile, non può che condurre, allora, secondo la Cassazione, ad un giudizio complessivo di manifesta illogicità del discorso giustificativo posto a fondamento della decisione impugnata e, pertanto, all’annullamento della stessa.
Di conseguenza, non emergendo dalla sentenza spazi per possibili approfondimenti istruttori, e dunque per un’eventuale affermazione di responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, non vi era ragione per la Suprema Corte di rinviare gli atti al giudice di merito.
Veniva pertanto annullata la sentenza impugnata senza rinvio.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui si spiega quando è possibile condannare al di là di ogni ragionevole dubbio tenuto conto che l’art. 533, c. 1, primo capoverso, c.p.p. dispone che il “giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Orbene, in siffatta pronuncia, come appena visto poco prima, si afferma, citandosi precedenti conformi, che questa regola di giudizio consente di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana implicando ciò, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi difensiva.
Da ciò deriva che la condanna può essere emessa a prescindere dei rilievi formulati dalla difesa ove essi consistano in ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali mentre, ove invece siano addotte valide alternative ricostruzioni dei fatti, è richiesto che il giudice circoscrivi gli elementi confermativi della prospettazione accusatoria e al contempo argomenti il perché la tesi della difesa non possa ritenersi credibile.
Tale pronuncia, dunque, deve essere presa nella dovuta considerazione in quanto in essa si rende comprensibile come e in che modo è possibile per il difensore sostenere che non risulti provato il reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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