Il fatto
La Corte di appello di Catanzaro confermava integralmente la sentenza di primo grado con la quale, all’esito di giudizio abbreviato, l’imputato era stato dichiarato colpevole del delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4 e ciò per aver illecitamente coltivato in un terreno di sua proprietà ed in un altro contiguo in suo uso 1087 piante di canapa indiana nella fase di maturazione “dalle quali era possibile ricavare 71.165,4 dosi medie singole” con l’aggravante di cui al cit. D.P.R., art. 80, comma 2, per la quantità ingente della sostanza stupefacente coltivata nonché veniva riconosciuta la recidiva reiterata specifica di cui all’art. 99 c.p., comma 4.
La sanzione veniva determinata in complessivi sei anni e otto mesi di reclusione ed Euro 40.000 di multa calcolata ponendosi come base la pena di cinque anni di reclusione ed Euro 30.000 di multa aumentata di tre anni e quattro mesi di reclusione ed Euro 20.000 di multa per il riconoscimento della recidiva e di ulteriori un anno e otto mesi di reclusione ed Euro 10.000 di multa ai sensi dell’art. 63 c.p., comma 4, per l’aggravante speciale della ingente quantità con riduzione finale di un terzo per la scelta del rito speciale.
I giudici di merito ritenevano fondata l’ipotesi accusatoria osservando che l’imputato fosse stato sorpreso, nella flagranza del reato, mentre operava manualmente, chiudendolo, su un rubinetto a leva – collocato all’ingresso della propria abitazione e “nascosto da un secchio di plastica rovesciato e da una tegola” – al quale erano collegati una serie tubi costituenti il sistema irriguo della piantagione dove erano coltivate le piante di canapa.
Con riferimento alla ritenuta aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, i giudici di merito osservavano come la relazione tecnica operata dagli specialisti del laboratorio di analisi delle sostanze stupefacenti avesse consentito di accertare che dalle piante rinvenute si sarebbe potuta ricavare una quantità di principio attivo pari a 1,780 kg. e quindi ben superiore alla quantità pari a 1 kg. indicata come limite minimo per la configurabilità della circostanza dalla sentenza delle Sezioni Unite penali n. 36258 del 24 maggio 2012.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza avevano proposto ricorso per cassazione i difensori dell’imputato.
In particolare, uno di questi legali denunciava nel primo motivo il vizio della motivazione e la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 ed 80 osservandosi a tal proposito come la sentenza impugnata si fosse limitata ad un sintetico riassunto di quella di primo grado omettendo di rispondere alle censure difensive proposte con il gravame circa la ricostruzione del fatto, censure corredate da ampia indicazione di favorevoli elementi circostanziali comprendenti anche le certificazioni acquisite in sede di rinnovazione ed attestanti – ai fini della valutazione di congruità del consumo d’acqua con fini domestici – che nell’abitazione dimorasse anche il fratello dell’imputato.
Si deduceva invece, con il secondo motivo, la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, e vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantità rilevandosi a tal riguardo come la sentenza impugnata avesse affermato che nel caso di specie dovesse ritenersi la sussistenza dell’aggravante essendo pervenuti gli esami al risultato di 1,7 kg. di principio attivo ma ciò in difformità dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale, affinchè detta circostanza possa configurarsi il quantitativo di principio attivo, deve essere non inferiore ai 2 kg e si citava sul punto la sentenza Sez. 4, n. 49366 del 19/07/2018 con la quale, ribaditi i principi generali affermati dalle Sezioni Unite n. 36258 del 24/05/2012, si precisava che l’aggravante della ingente quantità non è di norma ravvisabile quando la quantità di principio attivo sia inferiore a 4000 e non a 2000 volte il valore-soglia in milligrammi come determinato per le cosiddette droghe leggere nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006 e ciò ricollegando l’applicazione del raddoppiato moltiplicatore alla necessità di rispettare le proporzioni fra quantità poste a base della sentenza delle Sezioni Unite succitata la quale – allo scopo di determinare un limite minimo ponderale da potersi considerare ingente – aveva utilizzato il moltiplicatore “2000” sul presupposto che il valore-soglia indicata nel decreto ministeriale 11 aprile 2006 fosse pari a 1000 mg ma tale quantità-soglia era stata invece riportata al valore originario e quindi ridotta della metà (cioè a 500 milligrammi) a seguito dell’annullamento del D.M. che l’aveva aumentata nella misura presa in considerazione dalle Sezioni Unite.
Si deduceva ancora come la Corte d’appello non avesse motivato in relazione alle rilevanti critiche svolte dal consulente tecnico di parte avverso le modalità di svolgimento delle analisi dirette all’accertamento del principio attivo con particolare riferimento al limitato quantitativo utilizzato per eseguirle, tale da non consentire alcuna certezza, nè in termini di attendibilità, nè in termini di giudizio probabilistico.
Con il terzo motivo si denunciava il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento al trattamento sanzionatorio.
Con l’atto d’impugnazione a firma dell’altro avvocato si denunciava con il primo motivo il vizio della motivazione e la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 posto che
i giudici del merito avrebbero travisato la prova omettendo di valutare elementi decisivi tutti evidenziati nell’atto di appello ed in particolare: che risultasse pacifica la circostanza che due giorni prima dell’arresto dell’imputato la polizia giudiziaria avesse effettuato in loco una perquisizione senza rinvenire alcun sistema di irrigazione; che il rubinetto ivi esistente servisse alla sorella dell’imputato per irrigare una piccola parte del terreno coltivata ad ortaggi; che l’abitazione fosse priva di recinzione da tre lati, come evidenziato nella consulenza tecnica di parte; che dall’abitazione dell’imputato non fosse possibile accedere alla piantagione; che il consumo idrico fosse bassissimo mentre le coltivazioni di canapa hanno bisogno come noto di una notevolissima quantità di acqua; che i proprietari del terreno in cui si trova la piantagione avessero dichiarato di avere conferito l’incarico di curare il fondo in loro assenza a una terza persona la quale tuttavia non era stata neppure sentita a sommarie informazioni testimoniali dalla polizia giudiziaria precedente; che neppure i giudici avessero ritenuto di esplorare tale tema probatorio disponendo la escussione di questo soggetto; che il sistema di irrigazione fosse collegato ad un rubinetto pubblico.
Elementi tutti che, ad avviso della difesa, se presi in considerazione, avrebbero potuto dimostrare che l’imputato era del tutto ignaro dell’esistenza di un collegamento tra l’impianto idrico dell’abitazione peraltro utilizzata dal fratello e la piantagione.
Con il secondo motivo si deduceva la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87 nonchè dell’art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 364 e 260 c.p.p. ed art. 83 disp. att. c.p.p., comma 3, in relazione al D.P.R. cit., art. 73 visto che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87, il quale dispone in materia di prelievo di campionatura e di distruzione degli stupefacenti, impone il rispetto delle formalità previste dall’art. 364 c.p.p. a tutela del diritto all’assistenza e partecipazione del difensore alle operazioni denunciandosi al contempo come tale disposizione non fosse stata seguita impedendo di fatto alle parti private di segnalare eventuali irregolarità connesse alle modalità di estrazione e di qualificazione scientifica delle piante sottoposte a sequestro e quindi a campionatura e, nella restante parte, totalmente distrutte, lamentando che la Corte territoriale aveva ritenuto utilizzabile il contenuto della campionatura a fronte della evidente nullità di tutta l’attività complessivamente posta in essere dalla polizia giudiziaria.
Con il terzo motivo si denunciava la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 ed il vizio della motivazione rilevandosi innanzitutto come i giudici del merito, operando un giudizio definito nel ricorso “del tutto predeterminato“, avessero obliterato il rilievo dirimente secondo cui ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità il superamento della soglia indicata nella sentenza delle Sezioni Unite summenzionata non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi predetta dovendosi in ogni caso, secondo la giurisprudenza di legittimità, avere riguardo anche alle circostanze del caso concreto.
Si lamentava altresì che la sentenza impugnata non si fosse confrontata con l’orientamento giurisprudenziale pressochè consolidato il quale afferma che, in ipotesi di detenzione di “droghe leggere“, ai fini della configurazione della circostanza aggravante de qua, si rende necessario il superamento del valore soglia di 4000 unità e non più di 2000 citandosi in proposito la medesima sentenza della Sezione quarta penale della Corte di cassazione già richiamata nel ricorso succitato.
Con il quarto motivo si denunciava la violazione di legge e il vizio della motivazione con riferimento diniego delle circostanze attenuanti generiche ed alla dosimetria della pena.
Infine, con memoria difensiva a firma di uno dei difensori dell’imputato, si illustrava ulteriormente il denunciato vizio di violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, sotto il profilo dell’utilizzazione da parte dei giudici di merito del moltiplicatore del valore soglia pari a 2000 anzichè a 4000, come in più occasioni indicato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione successiva all’arresto delle Sezioni Unite di cui sopra.
Le argomentazioni sostenute nell’ordinanza di rimessione
La Sezione assegnataria rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p., rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la persistente attualità e le modalità applicative del principio affermato dalla più volte citata Sezioni Unite, n. 36258 del 24/05/2012, secondo cui la circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2000 volte il valore massimo espresso in milligrammi (valore-soglia) determinato per ogni sostanza dalla tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006 ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito quando tale quantità sia superata.
L’ordinanza di rimessione, in particolare, precisava i termini del conflitto interpretativo richiamando un indirizzo giurisprudenziale il quale, a fronte di quello prevalente che ritiene perdurante la validità dei criteri fissati dalle Sezioni Unite del 2012, perchè possa configurarsi la circostanza aggravante dell’ingente quantità, si era diversamente espresso nel senso che la modifica del sistema tabellare allora vigente, realizzatasi per effetto del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella L. 16 maggio 2014, n. 79, dovesse imporre una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della circostanza aggravante della ingente quantità in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con un’interpretazione tendenzialmente solo aritmetica e dunque automatica di tale aggravante.
La Sezione rimettente, inoltre, richiamava le oscillazioni giurisprudenziali segnalate nei ricorsi concernenti l’individuazione, con riferimento alle c.d. “droghe leggere“, del limite minimo di principio attivo perchè possa ritenersi sussistere l’”ingente quantità” rilevando in proposito come nella giurisprudenza di legittimità emergano decisioni di segno diverso circa i fattori da utilizzare per il relativo calcolo in conseguenza dell’annullamento, con sentenza del T.A.R. Lazio in data 21 marzo 2007 (dunque precedente alla pronuncia delle Sezioni Unite), del D.M. 4 agosto 2006 il quale aveva raddoppiato il moltiplicatore previsto in origine dal D.M. 11 aprile 2016 portando la quantità massima disponibile di “droga leggera” (valore soglia) da 500 a 1000 mg.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite in ordine alla questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
Le Sezioni Unite rilevavano prima di tutto come l’ordinanza di rimessione proponesse alle Sezioni Unite due quesiti diversi ma strettamente collegati:
“- se mantenga validità il criterio per la determinazione dell’ingente quantità fissato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2012, fondato sul rapporto (1 a 2000) fra quantità massima detenibile come prevista nell’”elenco” allegato al D.M. 11 aprile 2006 e quantità di principio attivo contenuto nella sostanza oggetto della condotta, ferma la discrezionalità giudiziale in caso di superamento del limite così ottenuto;
– come debbano essere individuati i fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c. d. “droghe leggere“.
Le Sezioni Unite, nella pronuncia del 2012, avevano risolto il contrasto interpretativo sorto nella giurisprudenza di legittimità dopo che le medesime Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000 avevano affermato il principio secondo cui la circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti secondo l’apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.
La sentenza del 2000, intervenuta peraltro in sede di risoluzione di un conflitto interpretativo su questione affatto diversa da quella in esame, pur superando apparentemente il riferimento all’incerta nozione di saturazione di un “mercato illecito” di aleatoria definizione sulla quale la giurisprudenza si era fin lì in sostanziale continuità assestata, aveva concluso nel senso che, perchè potesse parlarsi di quantità “ingente” di stupefacente, era necessario che il dato ponderale di sostanza tossica oggetto del procedimento superasse notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera ma con ciò, sostanzialmente, da un lato, riconducendo nuovamente il concetto a valutazioni collegate a realtà locali, necessariamente differenti, “apprezzate specificamente” dal giudice e riaffidandolo, da un altro, all’”abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della decisione”.
Detto questo, le Sezioni Unite, nella pronuncia qui in commento, evidenziavano come a tale pronunzia si fosse conformata a lungo la giurisprudenza successiva senza che sulla uniformità di tale orientamento – posto in discussione solo a far data dal 2010 – incidesse in qualche misura l’entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. “Fini-Giovanardi”).
Detto intervento normativo, evidenziavano le Sezioni Unite, aveva disposto (art. 4-vicies ter) che le sostanze stupefacenti “pesanti” e “leggere” fossero raggruppate senza distinzioni nella medesima tabella, di formazione ministeriale, allegata al D.P.R. n. 309 del 1990 (artt. 13 e 14 D.P.R. cit. come allora novellati) ed unificava la sanzione per i reati ad esse relativi (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come emendato dall’art. 4-bis) e, nello stesso tempo, la riforma aveva sostanzialmente ripristinato l’originario sistema della predeterminazione della quantità detenibile per uso personale, cioè quello dell’individuazione numerica del limite di irrilevanza penale, attribuendo ad un decreto del Ministro della Salute (D.M. 11 aprile 2006) ed all’”elenco” ad esso allegato il compito di fissare i limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili a tale uso esclusivo (art. 73, comma 1 bis, lett. a): del tutto analogo era infatti il sistema precedente – introdotto con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, e art. 78, comma 1, lett. c), venuto meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171) nel quale l’irrilevanza penale era riconosciuta a condotte aventi ad oggetto sostanze “in dose non superiore a quella media giornaliera”, l’individuazione della quantità massima del cui principio attivo tollerato era sempre attribuita ad un decreto ministeriale ed alle tabelle ad esso allegate (si emanò in attuazione il D.M. 12 luglio 1990, n. 186).
Ciò posto, solo con la sentenza Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010 (e varie altre successive, tra cui si segnalano Sez. 6, n. 31351 del 19/05/2011, e Sez. 6, n. 27128 del 25/05/2011), si era manifestata l’esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi e ciò anche per evitare un insanabile contrasto fra la circostanza aggravante in questione ed il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità presidiato dall’art. 25 Cost., comma 2.
Si sottolineava, in particolar modo, come, ai fini di un’applicazione giurisprudenziale che non offrisse il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non addirittura casuale arbitrarietà, fosse necessario meglio definire l’ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite del 2000, pur prestandovi formalmente adesione, presentava talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati qualitativi/quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili.
Ritenendo pertanto che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, debba rilevare il criterio oggettivo del numero dei possibili fruitori finali e non l’area dove essi insistono e dunque essenzialmente il valore ponderale dello stupefacente considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in relazione al grado di purezza, la Sezione sesta prendeva atto dei dati derivanti dall’esperienza giudiziaria, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata di conoscenza in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale per concludere che ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non possano di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” o “leggere” che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg.
Contrastavano espressamente tale orientamento, riproponendo i principi della sentenza delle SSUU del 20000 e ritenendoli idonei a superare i dubbi di determinatezza della norma, tra le altre, Sez. 4, n. 24571 del 03/06/2010; Sez. 4, n. 9927, del 01/02/2011; Sez. 4, n. 38794 del 29/09/2011, ad avviso delle quali, la predeterminazione dell’indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente, finendo col proporsi in sostanza come dato avente valenza normativa, non potrebbe che essere prerogativa del legislatore.
In tale quadro di decisioni configgenti, interveniva a sua volta la sentenza n. 35258 del 24/05/2012 e, con essa, le Sezioni Unite, preso atto dei perduranti contrasti giurisprudenziali e difformità applicative anche risalenti in ordine al significato da attribuire all’espressione “ingente quantità“, su cui si fonda una circostanza aggravante oggettiva “molto soggettivamente interpretata” alla quale si ricollegano rilevanti effetti commisurativi in pejus, avevano ricercato e rinvenuto la soluzione del quesito all’interno del sistema approntato dalla legislazione (allora) vigente in tema di stupefacenti.
Il punto di partenza del ragionamento espresso in sentenza, osservavano le Sezioni Unite in questa decisione, è stata la constatazione che la normativa prevedesse espressamente indicatori precisi per la determinazione dei limiti quantitativi entro i quali le condotte descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, potevano considerarsi di regola penalmente irrilevanti e così fornendo attraverso dati numerici il discrimine tendenziale fra l’”uso personale“, che non comporta sanzione penale, e le condotte viceversa penalmente represse.
Le Sezioni Unite avevano dunque preso le mosse in quell’occasione dal riferimento testuale operato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (come introdotto dalla “Fini-Giovanardi”) ai limiti massimi di stupefacente la cui detenzione è tendenzialmente presunta per uso personale i quali sono indicati con decreto del Ministro della Salute – adottato di concerto con altre autorità di governo – in un “elenco” ad esso allegato contenente la specificazione del quantitativo massimo di principio attivo detenibile: quantitativo definito espressamente come “soglia” e ricavato – per ogni sostanza – dal prodotto della moltiplicazione del valore della dose media singola espresso in milligrammi per un fattore (“moltiplicatore” variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza) individuato dal ministero competente.
Dal rilievo diretto e riflesso che il sistema tabellare, così delineato, aveva assunto all’interno della disciplina repressiva dei reati in tema di stupefacenti, le Sezioni Unite avevano considerato di potere e dovere trarre la conclusione della necessità di individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità: se il legislatore ha infatti positivamente fissato la soglia quantitativa della punibilità (dunque un limite “verso il basso“), consegue che l’interprete ha il compito di individuare una soglia quantitativa definita al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa intendersi l’ingente quantità (un limite, quindi, “verso l’alto“).
Assumendo come riferimento il valore-soglia previsto dalla predetta “tabella” (in quanto “unità di misura” rapportabile al singolo cliente/consumatore), le Sezioni Unite avevano pertanto ritenuto di individuare, sulla base dei dati esperienziali relativi al traffico di sostanze stupefacenti come risultante dai casi affluiti alla Corte (riferibili all’intero territorio nazionale e tenuto conto del grado di “purezza” medio relativo alle singole sostanze), una soglia ponderalmente determinata al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità “ingente” e avevano quindi affermato che, specificando di non usurpare con ciò una funzione normativa ma di svolgere semplicemente un’opera ricognitiva dei dati empirici raccolti, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella “tabella” allegata al D.M. 11 aprile 2006 (cioè il provvedimento previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), non possa di norma ritenersi “ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia espresso in milligrammi di principio attivo (750 mg. per la cocaina, 250 mg. per l’eroina, 1000 mg. per l’hashish: così testualmente in sentenza).
Tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, soddisfaceva i criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità che le stesse Sezioni Unite avevano già ritenuto in materia fondanti (Sezioni Unite n. 17 del 21/06/2000) con la specificazione che la soglia in tal modo individuata, proprio perchè volta a definire tendenzialmente la quantità minima indispensabile al fine di ritenere la sussistenza della circostanza de qua, può valere solo “in negativo” nel senso che il suo superamento non comporta di per sè automaticamente la configurabilità dell’ipotesi aggravata, dovendo comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice di merito.
A sua volta la giurisprudenza delle sezioni semplici si era adeguata ai principi così espressi (Sez. 4, n. 6369 del 20/12/2012; Sez. 4, n. 10618 del 18/01/2013; Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014) i quali sono stati, tuttavia, posti in discussione in seguito alla vicenda normativa originata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4-bis e 4-vicies ter, come convertito dalla L. n. 49 del 2006, art. 1, comma 1, in riferimento all’art. 77 Cost., comma 2, per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto legge e quelle, impugnate, introdotte nella legge di conversione posto che, pur avendo il giudice delle leggi espressamente affermato che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, dovesse tornare ad applicarsi non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo, il legislatore aveva ritenuto di dover ancora intervenire per regolamentare la materia.
Il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, nel riscrivere il D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 ha così espressamente ripristinato la distinzione fra sostanze di tipo “pesante” e sostanze di tipo “leggero” prevedendo la loro indicazione in tabelle diverse (I e II), inserite nel D.P.R. n. 309 del 1990 ai sensi dell’art. 1, comma 30, del predetto D.L., il cui completamento ed aggiornamento è assegnato ad un D.M., secondo i criteri per la loro formazione fissati dall’emendato art. 14.
Alla rinnovata distinzione tabellare ha quindi fatto seguito – per effetto della “riviviscenza” della disciplina pregressa – la medesima distinzione sanzionatoria per i reati concernenti i diversi tipi di sostanze così come era prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 prima della modifica operata dalla normativa dichiarata incostituzionale fermo restando che la novella ha pure parzialmente ridefinito la regolamentazione delle sanzioni amministrative per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti per uso personale ricollocandola nell’originaria sede del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, ma sostanzialmente reiterando la previsione già contenuta nell’art. 73, comma 1 bis, lett. a) della Legge “Fini-Giovanardi” secondo cui agli effetti dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale deve tenersi conto, insieme ad elementi circostanziali rivelatori dell’intenzione, del dato oggettivo che la quantità della sostanza non sia superiore ai limiti massimi di principio attivo (valori-soglia) indicati con decreto emanato dal Ministro della Salute di concerto con altre autorità di governo.
Il D.L. n. 36 del 2014, come convertito, a sua volta, ha altresì disposto all’art. 2, comma 1, la perdurante efficacia del decreto ministeriale fissante valori-soglia emanato nel vigore della “Fini-Giovanardi” sul rilievo di tale continuità normativa.
Orbene, all’indomani della riforma, si è dunque manifestato un orientamento giurisprudenziale – la cui segnalazione era stata oggetto dell’ordinanza di rimessione – teso a sollecitare il superamento delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite il quale vedeva il suo leading case in Sez. 3, n. 25176 del 21/05/2014 e che si era sviluppato attraverso alcune decisioni, anche graficamente sovrapponibili, per un assai ristretto periodo di tempo (Sez. 4, n. 41779 del 02/07/2014,; Sez. 3, n. 46172 del 01/10/2014; Sez. 3, n. 45458 del 01/10/2014; Sez. 3, n. 5907 del 30/10/2014; Sez. 3, n. 27057 del 18/12/2014; Sez. 3, n. 11338 del 07/01/2015; Sez. 3, n. 12532 del 29/01/2015; Sez. 3, n. 1609 del 27/05/2015) fermo restando che il contrasto era stato interamente e definitivamente riassorbito dalla giurisprudenza successiva univocamente orientata nel confermare la persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite del 2012.
In particolare, secondo questo orientamento, poichè a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 il legislatore ha modificato il “sistema tabellare” che era seguito alla legge “Fini-Giovanardi” ed introdotto quattro nuove tabelle in ordine alle sostanze stupefacenti e psicotrope, la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante della ingente quantità non potrebbe prescindere da questa impostazione normativa differente e dunque non può non rilevarsi, si afferma, che in un quadro che smentisce la ratio della normativa vigente all’epoca dell’approdo giurisprudenziale delle Sezioni Unite – spezzando la sostanziale equiparazione tra il reato attinente a droghe pesanti ed il reato relativo a “droghe leggere“, per di più enucleando come reato autonomo, anche sotto il profilo delle modalità di esecuzione, e non solo dell’entità, del trattamento sanzionatorio, la fattispecie lieve – “tale giurisprudenza dovrà essere rimeditata, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità”.
A fronte di ciò, a questo indirizzo se ne era sincronicamente contrapposto un altro (Sez. 4, n. 32126 del 20/06/2014; Sez. 4, n. 43465 del 02/07/2014; Sez. 4, n. 1817 del 03/10/2014; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014; Sez. 4, n. 1292 del 17/10/2014; Sez. 6, n. 47907 del 14/11/2014; Sez. 4, n. 3799 del 05/12/2014; Sez. 6, n. 6331 del 04/02/2015; Sez. 6, n. 20140 del 05/05/2015) secondo il quale, per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come modificato dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2012 basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Quest’ultimo orientamento, consapevolmente discostatosi da quello opposto, a sua volta, era in breve tempo divenuto univoco (Sez. 6, n. 44596 del 08/10/2015; Sez. 6, n. 543 del 17/11/2015, dep. 2016; Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016; Sez. 6, n. 50076 del 04/10/2016; Sez. 4, n. 49619 del 12/10/2016; Sez. 4 n. 55014 del 05/11/2017; Sez. 6, n. 18829 del 16/02/2018; Sez. 4, n. 50300 del 11/07/2018, sul punto; Sez. 4, n. 49366 del 19/07/2018, sul punto; Sez. 3, n. 37530 del 11/06/2019; Sez. 4, n. 35671 del 18/06/ 2019).
Orbene, le Sezioni Unite, in questa pronuncia, condividevano le argomentazioni delle decisioni da ultimo citate e le loro conclusioni circa la persistente validità dei criteri fissati nella sentenza del 2012 per la configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Si rilevava a tal riguardo, innanzi tutto, l’erroneo presupposto dal quale muove l’orientamento rimasto minoritario per derivarne la necessità di ridefinire i criteri per l’applicazione della circostanza de qua e cioè la considerazione che la riforma del 2014 abbia determinato una modifica (o “travolgimento“, così Sez. 4, n. 41779 del 02/07/2014) del sistema tabellare introdotto con la c.d. legge “Fini-Giovanardi” nella vigenza della quale si erano pronunciate le Sezioni Unite posto che il recente intervento legislativo e la L. n. 49 del 2006 (di conversione del D.L. n. 272 del 2005) si pongono entrambi in continuità con il sistema tabellare già prefigurato fin nella L. 22 ottobre 1954, n. 1041 (in cui si disciplina la compilazione di un “elenco” delle sostanze e preparati ad azione stupefacente a cura del Ministero della Sanità, pubblicato nella G.U. ed inserito nella Farmacopea ufficiale) e quindi realizzato compiutamente con la L. 22 dicembre 1975, n. 685 la quale, agli artt. 11 e 12, prevedeva che le sostanze fossero raggruppate in sei tabelle: la prima e la terza delle quali indicanti sostanze stupefacenti e psicotrope di tipo “pesante“, la seconda e la quarta di tipo “leggero”, ricollegando sanzioni di differente gravità alle rispettive violazioni; sistema peraltro integralmente replicato nel T.U. stup. del 1990 (artt. 13, 14 e 73).
Ebbene, in tale continuità di sistema, si collocano, per le Sezioni Unite, sia la discrezionale opzione del legislatore del 2006 di unificare la pena per i reati concernenti sostanze “pesanti” o “leggere” mediante lo strumento di tecnica legislativa di indicarle tutte nella medesima tabella, sia quella del legislatore del 2014 il quale, sempre attraverso lo strumento di intervenire sul contenuto delle tabelle, questa volta tornando a distinguerlo, ha realizzato l’intento di nuovamente differenziare la sanzione a seconda dell’efficacia drogante delle sostanze “vigilate” dal Ministero della salute ed ivi elencate.
Nessuna “modifica di sistema” può dunque per il Supremo Consesso evocarsi in proposito e così, sotto questo profilo, nessun effetto ermeneutico può riconoscersi alla riforma del 2014 sul significato di “ingente quantità“ intorno alla cui definizione non può attribuirsi influenza alcuna alla rinnovata differenziazione della pena comminata a seconda del tipo di sostanza oggetto del reato: non a caso il concetto di “ingente quantità” definito dalle Sezioni Unite del 2000 era rimasto del tutto insensibile all’introduzione della “Fini-Giovanardi” venendo rimeditato, nelle successive ampie cadenze temporali sopra descritte, non in funzione del disposto accorpamento delle sostanze proibite nella medesima tabella, bensì dalla necessità di elaborare un’interpretazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, maggiormente aderente al principio costituzionale di determinatezza.
Unica conseguenza discendente dalla riforma del 2014 era dunque esclusivamente quella di differenziare, a seconda della sostanza, la pena base sulla quale deve essere applicato l’aumento per la ricorrenza della circostanza aggravante e non certo quella di riscrivere i criteri per la sua configurabilità, a fronte di un dato normativo rimasto testualmente invariato sin dalla disciplina posta dalla L. n. 685 del 1975, art. 74, il quale al comma 2 espressamente contemplava che “se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”, con formula identica a quella contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non modificato nè dalla L. n. 49 del 2006 di conversione del D.L. n. 272 del 2005 (poi dichiarata incostituzionale) nè dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79.
Alcuna interferenza, poi, per la Suprema Corte, è dato individuare – nè la giurisprudenza qui non condivisa lo esplica, limitandosi semplicemente ad affermarne valenza ermeneutica – fra la “trasformazione” in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ed i criteri di valutazione dell’ingente quantità: si tratta di vicenda normativa del tutto eccentrica rispetto alla questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite del 2012 e conseguentemente del tutto ininfluente sulla sua risoluzione ed è così a dirsi anche a proposito dei pur evocati ma non precisati effetti interpretativi derivanti dalla nuova disciplina (art. 73, comma 5 bis) delle modalità di esecuzione della pena irrogata o applicata per il predetto reato ove commesso da tossicodipendente o assuntore.
Per esigenze di chiarezza era inoltre per le Sezioni Unite opportuno altresì precisare che detta “trasformazione” (operata in origine dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, convertito dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10, in tema di riduzione controllata della popolazione carceraria) risaliva ad intervento legislativo precedente alla sentenza costituzionale n. 32 del 2014 e che la riforma ad essa successiva si era limitata a modificare in melius la sanzione ivi prevista.
Tutto ciò premesso, a questo punto della disamina, per le Sezioni Unite era necessario chiarire un equivoco, peraltro diffuso nella giurisprudenza di legittimità, e caratterizzante anche le decisioni appartenenti all’orientamento minoritario che induceva a confondere il sistema delle tabelle disciplinato dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 con il sub-sistema concernente l’individuazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale.
Si denotava a tal proposito chelLe tabelle previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 e ad esso allegate (ora “inserite” ex D.L. n. 36 del 2014, art. 30) hanno costituito (in tutte le versioni succedutesi a far data dalla emanazione del T.U. stup.) la fonte legislativa per l’individuazione delle sostanze vietate ed oggetto delle disposizioni sanzionatorie previste nel titolo VIII (“Della repressione delle attività illecite“) mentre è del tutto diversa la funzione dell’”elenco” allegato al decreto ministeriale previsto dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a) Legge “Fini-Giovanardi” nel cui vigore si sono pronunciate le Sezioni Unite con la più volte citata sentenza del 2012 la quale, proprio sull’indicazione normativa della quantità massima di principio attivo detenibile, ha fondato la ricostruzione della nozione di “ingente quantità” ricavandola dalla moltiplicazione del valore-soglia per un fattore ricavato dalla concreta esperienza giudiziaria.
Tale sub-sistema è rimasto inalterato dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge “Fini Giovanardi” ed il varo della riforma.
In tale contesto normativo, assume decisivo rilievo, ai fini della risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, per queste stesse Sezioni, la circostanza che il D.L. n. 36 del 2014, art. 2, comma 1, come convertito dalla L. n. 79 del 2014, abbia espressamente previsto che riprendano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990 sino alla data della pubblicazione della sentenza costituzionale n. 32/14; è stata così integralmente “recuperata” dal legislatore primario l’efficacia del D.M. 11 aprile 2006 contenente l’indicazione “dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale” cioè proprio l’atto di normazione secondaria che la sentenza del 2012 aveva posto a base del proprio argomentare partendo dal dato testuale della specifica indicazione numerica di un limite massimo di principio attivo detenibile per giungere, come si è detto, alla fissazione di un limite minimo – pur esso coerentemente fondato su dati numerici – per il riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità.
Al citato decreto ministeriale deve operarsi ora riferimento nell’applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come novellato, il quale pure si pone in continuità normativa, confermandone effetti e ratio, con l’art. 73, comma 1 bis, lett. a), legge “Fini-Giovanardi”, chiaro indice dell’intento del legislatore di mantenere inalterato non solo il sistema tabellare nella sua funzione di selezione delle sostanze proibite (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14) ma anche il sub-sistema dell’indicazione – in apposito “elenco” allegato al decreto ministeriale ora previsto dall’art. 75 – dei “limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale” (così l’intestazione del vigente D.M. 11 aprile 2006).
Escluso dunque che sia individuabile quello che, con formula invero generica, l’indirizzo minoritario definisce “accresciuto tasso di modulazione normativa” per derivarne il superamento del principio fissato dalle Sezioni Unite, per queste medesime Sezioni, deve necessariamente escludersi la ulteriore conseguenza che se ne trae, e cioè quella della sopravvenuta incompatibilità con il sistema delineato dal D.P.R. n. 309 del 1990, come novellato, di un’interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’ingente quantità.
Solo per completezza si aggiungeva inoltre come sul punto la giurisprudenza di legittimità, con argomentazione integralmente qui condivisa, avesse da tempo chiarito che il superamento dei parametri enucleati dalla sentenza delle SSUU del 2012, per l’individuazione del limite minimo dell’ingente quantità, come peraltro nella stessa espressamente affermato, non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi aggravata dovendosi in ogni caso avere riguardo alle circostanze del caso da valutarsi con riferimento alla pericolosità della condotta ed al livello di potenziale compromissione della salute e dell’ordine pubblico e che il giudice, nell’esercizio del potere di valutazione in concreto cui è tenuto, possa valorizzare, per corroborare il dato rappresentato dal superamento del limite, tutti quegli elementi di fatto mirati a considerare la realtà specifica che già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva individuato anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 quali indici di per sè esaustivi della ricorrenza dell’aggravante (Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014; Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011; per una sintesi, Sez. 3, n. 37530 del 11/07/2019).
Rimane dunque per le Sezioni Unite di perdurante attualità ed efficacia dimostrativa la base sostanziale e formale delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite nella sentenza del 2012 per la definizione dei criteri di individuazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità; conclusioni che – collegando l’entità della sanzione anche a dati oggettivi i quali indirizzano in funzione di garanzia la discrezionalità del giudice – soddisfano insieme, come rilevato, ineludibili esigenze costituzionali e convenzionali di determinatezza del precetto penale e parità di trattamento rilevandosi al contempo come non possa sfuggire, a questo proposito, il limite intrinseco dell’indirizzo rimasto minoritario il quale, pur sollecitando un ripensamento della giurisprudenza tracciata dalla sentenza delle SSUU del 2012 in ragione, come si è detto, del ritenuto “accresciuto tasso di modulazione normativa” conseguente alla riforma del 2014, di tale ripensamento non indicava la direzione limitandosi ad assegnare genericamente al giudice di rinvio la ricostruzione di un criterio alternativo, così tornando a rendere “vaga” una norma “elastica” alla quale l’interpretazione sistematica delle Sezioni Unite aveva dato concretezza e determinatezza.
Ciò posto, successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite ed all’interno dell’indirizzo giurisprudenziale poi definitivamente affermatosi che ne aveva condiviso il criterio “aritmetico” temperato dalla discrezionalità giudiziale, si era sviluppato un contrasto interpretativo concernente la individuazione precisa dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c.d. “droghe leggere“.
Tale contrasto, in particolare, aveva avuto origine da un’imprecisione contenuta nella sentenza resa nel 2012 la quale, individuato in 2000 il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo, pure numerico, dell’ingente quantità, aveva indicato per le c.d. droghe leggere un “valore soglia“, espresso in milligrammi, pari a 1000.
Ed invero, pur avendo la sentenza operato, al fine di individuare i dati dei valori-soglia, un generico riferimento alle tabelle di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 le quali hanno solo la diversa funzione di individuare le sostanze “vietate” o comunque sottoposte a controllo, appare evidente, ad avviso del Supremo Consesso, come le Sezioni Unite abbiano tratto tali valori dall’”elenco” allegato al più volte citato D.M. 11 aprile 2006 previsto dall’art. 73, comma 1 bis, legge “Fini Giovanardi (ed ora “recuperato” dalla riforma del 2014 come precisato al paragrafo 12.2) il quale tuttavia, al momento della decisione, prevedeva per le c.d. “droghe leggere” (THC) un valore-soglia di principio attivo, espresso in milligrammi, pari 500 e non a 1000, come invece indicato in sentenza. Tutto ciò in quanto il D.M. 4 agosto 2006 il quale – aumentando da 20 a 40 il moltiplicatore del valore di principio attivo della dose media singola (25 mg.) da applicarsi per ottenere la quantità massima detenibile – aveva portato a 1000 il valore-soglia del THC espresso in milligrammi, era stato annullato per vizi della motivazione dal Tribunale amministrativo del Lazio, Sez. III quater, con sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007.
Immediatamente dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, la giurisprudenza di legittimità aveva quindi preso atto della circostanza che prima della decisione fosse già intervenuto l’annullamento del D.M. 4 agosto 2006 ed aveva così ricondotto il valore-soglia delle “droghe leggere” all’originaria previsione di 500 milligrammi con la conseguenza che, operata la moltiplicazione di quest’ultimo dato per il fattore 2000 indicato da Sezioni Unite del 2012 per tutte le sostanze, il limite minimo dell’ingente quantità era stato fissato in 1 kg. di principio attivo.
Alcune decisioni avevano espressamente motivato il disallineamento (meramente numerico e non di principio) dalla sentenza delle SSUU del 2012 proprio con specifico riferimento all’annullamento del D.M. 4 agosto 2006 (Sez. 3, n. 2294 del 22/11/2012; Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2014; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014; Sez. 6, n. 6631 del 04/02/2015) mentre altre avevano sostanzialmente dato per scontata l’applicazione del dato numerico pari a 500 milligrammi indicato nel D.M. 11 aprile 2006 come vigente al momento della pronuncia delle Sezioni Unite per ribadire il limite minimo dell’ingente quantità nel caso di “droga leggera” in 1 kg. di principio attivo (Sez. 4, n. 6369/2013 del 20/12/2012; Sez. 6, n. 15788 del 09/01/2014; Sez. 3, n. 44375 del 20/07/2016; Sez. VII, del 11/10/2016; Sez. 3, n. 47275 del 19/10/ 2016).
Inoltre, a far data da Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, tale indirizzo era stato tuttavia integralmente sostituito da altro (tanto che il contrasto segnalato dalla sezione rimettente può ben definirsi diacronico e considerato ormai riassorbito) secondo il quale, seguendo il filo logico della motivazione della sentenza delle SSUU del 2012, per rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio con essa affermato alle conseguenze dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo “leggero” al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, “deve essere necessariamente pari al doppio di quello da essa (erroneamente) indicato e dunque a 4.000 (e non 2.000) volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg. di principio attivo, che del resto corrisponde a quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)”.
Ciò posto, a tale decisione si era conformata la giurisprudenza successiva (Sez. 3, n. 5427/17 del 21/09/2016; Sez. 3, n. 14214 del 09/12/2016; Sez. 4, n. 11722 del 17/01/2017; Sez. 6, n. 36209 del 13/07/2017; Sez. 6, n. 18829 del 16/02/2018; Sez. 4, n. 50300 del 07/11/2018; Sez. 4, n. 49366 del 19/07/2018).
Le Sezioni Unite, dal canto loro, ritenevano la correttezza di quest’ultimo orientamento perchè aderente al reale contenuto dell’analisi effettuata dalla sentenza delle SSUU del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza (qualità, quantità, concentrazione) idonee a rendere applicabile il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Detta analisi, dal canto suo, si era sviluppata da parte delle Sezioni Unite dapprima commisurando il dato oggettivo delle quantità di stupefacente alle quali attribuire – secondo la verifica effettuata in concreto da un osservatorio privilegiato – rilievo ponderale tale da poter integrare il valore minimo per la configurabilità della circostanza aggravante de qua e, quindi, in successione logica e partendo dalla premessa teorica della fissazione normativa della quantità massima detenibile individuando un moltiplicatore di questa che consentisse di ricostruire e rappresentare in termini numerici proprio quel valore ponderale minimo come determinato attraverso l’esame dell’esperienza giudiziaria.
In altre parole, nel ragionamento della Corte, era venuta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di “droghe leggere“) e poi quella dei numeri atti a rappresentarle sicchè l’evidente errore di lettura del D.M., quanto al valore-soglia di principio attivo del THC, ad avviso delle Sezioni Unite, non poteva inficiare in alcun modo l’accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato da queste stesse Sezioni ma imponeva solo una correzione dei fattori del calcolo per ricostruirlo secondo i principi espressi in sentenza; e che questa correzione riguardi il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000), per la Suprema Corte, poco importa perchè il risultato aderente all’esito dell’indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza del 2012 è che la soglia minima, perchè si possa intendere ingente una quantità di “droga leggera“, è di 2 kg. di principio attivo.
Le Sezioni Unite, inoltre, ritenevano all’uopo necessario fare una precisazione concerne la reiterata definizione in motivazione della dose-soglia come “quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno” palesandosi ciò necessaria, più che per ragioni di correttezza terminologica, per il contributo che essa può fornire al giudice nell’ambito dell’esercizio della residua discrezionalità valutativa della sussistenza o meno della circostanza aggravante dell’ingente quantità nei casi in cui risulti superato il valore minimo ponderale determinato secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite.
Rilevato ciò, si rammentava a tal riguardo che la figura giuridica della “dose media giornaliera“, quale limite alla detenzione per uso esclusivamente personale, sia stata introdotta con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 comma 1 e art. 78, comma 1, lett. c) e sia venuta meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171).
La normativa attuale, come si ricava dalla lettura del preambolo al più volte citato D.M. 11 aprile 2006, contiene nell’”elenco” ad esso allegato l’indicazione, per ogni sostanza, in primis di una dose media singola intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo e, di seguito, quella di una dose-soglia, significante la quantità massima detenibile, la quale è data dall’incremento della dose media singola in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza: essa prescinde totalmente dalla frequenza delle assunzioni nell’arco della giornata e perciò sembra anzi consentire (tollerare) anche un modesto accumulo per più giorni, sempre presunto come destinato all’uso personale.
L’unità di misura rapportabile al singolo cliente-consumatore è e deve pertanto essere, per il Supremo Consesso, non quella della non più normativamente esistente e perciò giuridicamente irrilevante “dose media giornaliera” (il cui valore era stato fissato dal D.M. 12 luglio 1990, n. 186), bensì quella del valore soglia (la quantità massima detenibile) posto a base del percorso argomentativo delle Sezioni Unite del 2012 e ricavato dalla moltiplicazione del valore espresso in milligrammi della dose media singola per un fattore – di individuazione ministeriale sulla base di scelte di discrezionalità tecnica – pari a 5 per la cocaina, 10 per l’eroina, 20 per il THC, la cui determinazione già sconta la differente pericolosità o efficacia drogante dei vari tipi di stupefacente.
Le Sezioni Unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, enunciavano i seguenti principi di diritto: “a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2; con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo”.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante in quanto, con questa pronuncia, le Sezioni Unite, componendo un contrasto giurisprudenziale, affermano che i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, ossia quando la quantità non sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia) determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, mantengono la loro validità a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79 fermo restando che, con riferimento alle c.d. “droghe leggere”, la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo.
Tale provvedimento, dunque, deve essere preso nella dovuta considerazione ogniqualvolta si debba verificare la sussistenza o meno di questa aggravante.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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