Illecito aquiliano essenzialmente doloso: lo storno dei dipendenti

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Lo storno di dipendenti, che consiste in un atto di concorrenza sleale che rinviene la sua fonte normativa nell’art. 2595, n. 3 c.c., costituisce un tipico esempio di illecito aquiliano essenzialmente doloso.

Al fine di poter meglio apprezzare le peculiarità di questo particolare fatto illecito, si rende preliminarmente necessaria una breve premessa in tema di responsabilità extracontrattuale.

La responsabilità extracontrattuale, nota anche come responsabilità aquiliana, dalla lex Aquilia del 287 a.C. che per prima la disciplinò, consiste nella responsabilità che, ai sensi dell’art. 2043 c.c., insorge in conseguenza del compimento di “qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto” e che obbliga l’autore a risarcire il danno arrecato, in violazione del principio generale del neminem laedere incombente su tutti i consociati.

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Gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale

Dalla disposizione citata, emerge la necessità, affinché possa configurarsi responsabilità aquiliana, della compresenza di quattro presupposti, riassumibili segnatamente (i) nell’elemento oggettivo, costituito dalla condotta, dall’evento dannoso (ossia il danno ingiusto, che corrisponde al c.d. danno-evento, cioè la lesione di una situazione giuridica rilevante per l’ordinamento) e dal nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento dannoso, (ii) l’elemento soggettivo, che può essere rappresentato indistintamente dal dolo o dalla colpa (iii) l’antigiuridicità del fatto, intesa quale assenza di cause di giustificazione che escludono l’antigiuridicità della condotta illecita ed infine (iv) l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale per il soggetto danneggiato (c.d. danno-conseguenza).

Il modello generale di responsabilità delineato dall’art. 2043 c.c. costituisce quindi un modello di responsabilità soggettiva, improntato cioè al principio di colpevolezza, posto che occorre sempre che il danneggiante sia animato da un coefficiente psicologico, che indifferentemente può consistere nel dolo o nella colpa.

La impossibilità di una reductio ad unitatem del sistema della responsabilità extracontrattuale

Accanto al modello generale di responsabilità soggettiva ex art. 2043 c.c., l’ ordinamento prevede dei modelli alternativi speciali di responsabilità, che presentano una struttura che, in uno o più punti, si discosta dal modello generale, in particolare per l’assenza o per la peculiare modulazione dell’elemento soggettivo.

In definitiva, emerge un sistema della responsabilità aquiliana complesso, retto da regole variegate che risultano insofferenti ad una reductio ad unitatem, un sistema cioè pluralistico della responsabilità aquiliana, in cui convivono, affianco al modello generale di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., altri modelli speciali di responsabilità civile che presentano elementi di devianza rispetto al modello generale e che danno luogo ad ipotesi di responsabilità soggettiva presunta e di responsabilità oggettiva.

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L’elemento soggettivo nell’illecito civile: indifferenza del dolo e della colpa

Ciò premesso, al fine di poter cogliere la peculiarità del fatto illecito dello storno di dipendenti, occorre focalizzare l’indagine sull’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2043 c.c., che, come anticipato, indistintamente può essere rappresentato dal dolo o dalla colpa.

Emerge subito allora la distinzione con la responsabilità penale, nella quale, invece, ai sensi dell’art. 42, co. 2 c.p., il criterio di imputazione tradizionale del delitto è il dolo, salve le ipotesi di delitto colposo o preterintenzionale espressamente previste dalla legge.

L’indifferenza tra dolo e colpa nella responsabilità extracontrattuale si riflette del resto anche sul piano risarcitorio, nel senso che, in linea di massima, la qualificazione del fatto come doloso o colposo, oltre a  non incidere sull’an della responsabilità, non incide neppure sul quantum risarcitorio, essendo risarcibili tutti i danni, sia prevedibili che imprevedibili, a differenza del sistema penale, in cui l’entità del risarcimento deve essere parametrata alla luce dei criteri dettati dall’art. 133 c.p..

L’elemento soggettivo negli atti di concorrenza sleale

Ora, se la regola è quindi quella della sufficienza della colpa ai fini dell’integrazione dell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., tuttavia non mancano fattispecie in cui il fatto può essere qualificato civilmente illecito soltanto ove commesso con dolo, nel senso che, in difetto dell’elemento soggettivo doloso in capo al danneggiante, l’illecito non risulta integrato, con conseguente non insorgenza di responsabilità.

In altri termini, nell’ambito responsabilità extracontrattuale, il dolo può esplicare una funzione di filtro a monte e rilevare ai fini della stessa sussistenza dell’illecito come criterio di delimitazione dell’area del civilmente responsabile, incidendo quindi sull’an della responsabilità aquiliana.

In questi casi, si è in presenza di illeciti civili essenzialmente dolosi, illeciti cioè che, per la loro configurazione, devono necessariamente essere commessi con dolo.

In particolare, la giurisprudenza e la dottrina hanno individuato una serie di fatti che richiedono, per la loro integrazione, necessariamente l’elemento psicologico doloso, quali, a titolo meramente esemplificativo, la doppia alienazione immobiliare, la concessione abusiva del credito, gli atti emulativi ex art. 833 c.c., nonché gli atti di concorrenza sleale, fatti, questi, che, a ben vedere, sono tutti uniti dal file rouge dell’esercizio abusivo di un proprio diritto.

 

Atti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c.

In particolare, tra gli illeciti anticoncorrenziali, che attenta dottrina[1] ha qualificato come “atti dolosi di concorrenza sleale”, viene tradizionalmente ricompreso lo storno dei dipendenti, che, in particolare, nella tripartizione operata dal codice civile, viene fatto rientrare nel n. 3 dell’art. 2598 c.c..

La disposizione in parola fornisce infatti una tipizzazione degli atti di concorrenza sleale, classificandoli in tre macro “classi”.

Al n. 1 dell’art. 2598 c.c. sono contemplati i c.d. atti di concorrenza sleale per confusione, che consistono o nell’utilizzo di nomi o segni distintivi caratterizzati dalla idoneità a produrre confusione con i segni distintivi utilizzati da altri imprenditori o nella imitazione servile dei prodotti di un concorrente.

Al n. 2 dell’art. 2598 c.c., invece, sono previsti i c.d. atti di concorrenza sleale per denigrazione o vanteria, consistenti nella diffusione di notizie su prodotti e attività di un concorrente idonee a determinarne il discredito oppure nella appropriazione dei pregi dei prodotti di un concorrente.

Infine il n. 3 dell’art. 2598 c.c. prevede una clausola aperta, che, qualificando come atti di concorrenza sleale l’utilizzo di “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, non può essere costretta in classificazioni dal contenuto rigido, alla luce della mutevolezza diacronica di tali usi e della loro influenzabilità da circostanze non individuabili a priori.[2]

 

La clausola aperta ex art. 2598, n. 3 c.c.

Ebbene, è dunque affidato prevalentemente al giudice il compito di interpretare la coscienza sociale di un contingente momento storico al fine di poter valutare se una condotta concorrenziale, diversa da quelle tipizzate ai nn. 1 e 2, risulti o meno conforme ai canoni di etica e correttezza professionali generalmente accettati e seguiti nel settore cui appartengono le imprese coinvolte.

Ebbene, all’interno di quest’ultima ipotesi vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza e dalla dottrina la pubblicità menzognera (che si distingue dalla ipotesi di cui al n. 2 perché si tratta di una falsa attribuzione di qualità o pregi che in realtà non appartengono a nessun concorrente), il c.d. dumping, che consiste nel ribasso dei prezzi non giustificato da particolari esigenze e finalizzato alla eliminazione dal mercato dei concorrenti, il c.d. spionaggio industriale, ossia la sottrazione dei segreti imprenditoriali, o ancora il c.d. boicottaggio economico, che consiste nell’ingiustificato e sistematico rifiuto di contrarre con un determinato imprenditore al fine di escluderlo dal mercato.

Parimenti, anche lo storno dei dipendenti viene ricompreso tra gli atti di concorrenza sleale per difformità ai principi della correttezza professionale.[3]

 

Lo storno di dipendenti

Ebbene, lo storno dei dipendenti consiste nella sottrazione da parte di una azienda di lavoratori che appartengono ad una altra azienda; in particolare, deve trattarsi di c.d. core workers, ossia di professionisti dotati di peculiari skills e competenze lavorative, che ricoprono posizioni apicali nel proprio settore, e che quindi sono difficilmente sostituibili.

Come infatti tradizionalmente sostenuto dai giudici di legittimità, affinché lo storno di dipendenti altrui possa configurare atto di concorrenza sleale, “si richiede che i dipendenti medesimi siano particolarmente qualificati ed utili per la gestione dell’impresa concorrente, in relazione all’impiego delle rispettive conoscenze tecniche usate presso l’altra impresa e non possedute dal concorrente stesso, così permettendo a quest’ultimo l’ingresso nel mercato prima di quanto sarebbe stato possibile in base ai propri studi e ricerche”. [4]

Ovviamente, deve sottolinearsi la circostanza per cui non è considerata illecita ex se l’assunzione di lavoratori che prestano la propria attività professionale presso un diverso datore di lavoro, dovendo sussistere la non conformità ai principi della correttezza professionale e la idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda[5]. È infatti evidente il delicato bilanciamento di interessi sotteso alla situazione in esame: da un lato, la tutela della concorrenza e del mercato, dall’altro lato i diritti costituzionalmente garantiti della libertà di  iniziativa imprenditoriale ex art. 41 Cost. e del lavoro e alla sua adeguata remunerazione, ex artt. 4 e 36 Cost..[6]

In tal senso, quindi, il semplice passaggio di lavoratori da un’azienda ad un’altra è una attività perfettamente lecita, con la conseguenza che, affinché possa considerarsi alla stregua di un atto di concorrenza sleale e quindi un atto illecito, deve essere finalizzata a danneggiare l’impresa concorrente, vanificandone gli sforzi imprenditoriali di e “saccheggiandone” le risorse professionali più qualificate, con conseguente effetto distorsivo sul mercato.

Lo storno di dipendenti: fatto illecito essenzialmente doloso e animus nocendi

Ecco quindi come lo storno dei dipendenti debba concepirsi come un fatto illecito necessariamente doloso, nel senso che, per la sua integrazione, abbisogna, alla luce di quanto affermato da autorevole dottrina[7] e da una  giurisprudenza ormai granitica[8], che sussista in capo all’imprenditore sleale danneggiante il c.d. animus nocendi.

L’animus nocendi, come osservato da una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione[9], non deve esaurirsi nella mera consapevolezza che l’atto posto in essere sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda, dovendosi esigere altresì la intenzione di ottenere quel risultato.

A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità ritiene detto requisito risulti integrato ogni qualvolta

l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito”.[10]

A tal fine, la Cassazione ha individuato dei parametri da prendere in considerazione, quali la quantità e la qualità del personale stornato (c.d. “cherry picking”), la posizione ricoperta all’interno dell’organigramma dell’impresa avversaria, i metodi impiegati per convincere i dipendenti a lavorare per una impresa concorrente, la difficoltà collegate alla sostituzione.

Forme di tutela

Infine, quanto alle forme di tutela apprestate dalla legge in favore dell’impresa che subisce lo storno di dipendenti, queste consistono, oltra a quella risarcitoria, anche in quella inibitoria: ai sensi dell’art. 2599 c.c., infatti, la sentenza che accerta la sussistenza di un atto di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e contiene gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti.

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Note

[1] L’espressione è di ROVELLI R., La concorrenza sleale ed i beni immateriali di diritto industriale, Torino, 1967, P. 30.

[2] In questo senso, RICCIO G.M., Concorrenza sleale e tutela dei consumatori nelle reti telematiche, in Dir. Informatica 2006, fasc.03, p. 308.

[3] Si consiglia sul tema ex multis G. GHIDINI, Della concorrenza sleale (artt. 1598-2601), in Il cod. civ. Commentario, diretto da Schlesinger e continuato da Busnelli, Milano, 1991, p. 335 ss.; altresì, V. MELI, Lo storno dei dipendenti come atto di concorrenza sleale: un uso giurisprudenziale della clausola di correttezza professionale, in C.e.i., 1990, p. 165 ss.

[4] Cassazione civile sez. I, 23/05/2008, (ud. 03/04/2008, dep. 23/05/2008), n.13424; nel medesimo senso, Cassazione civile sez. I, 13/03/1989, n.1263; Cassazione civile sez. I, 16/05/1983, n.3365.

[5] In Cassazione civile sez. I, 08/06/2012, n.9386, i giudici di legittimità hanno confermato la sentenza impugnata, rilevando che le conoscenze acquisite dai lavoratori trasmigrati, pur se di pregio, non avevano carattere di esclusività, né rendevano detti dipendenti assolutamente essenziali, e che questi risultavano avere avuto convenienza a mutare la propria sede di lavoro.

[6] In questo senso, DALLA VEDOVE G., Lo storno dei dipendenti nella disciplina della concorrenza, Padova, 1992, p. 27; anche MARIA P. GRAUSO, La concorrenza sleale. Profili di tutela giurisdizionale e presso le Autority, Giuffrè Editore, 2007, p. 76.

[7] Ex multis, PALAZZO A. – SASSI A. – CIPPITANI R., Diritto privato del mercato, Perugia, 2007, p. 380.

[8] Da ultimo, si veda Cassazione civile sez. I, 17/02/2020, n. 3865; ex multis, Cassazione civile sez. I, 29/12/2017, n.31203; Cassazione civile sez. I, 23/05/2008, n.13424; Cassazione civile sez. I, 22/07/2004, n.13658.

[9] Cassazione civile sez. I, 17/02/2020, n. 3865.

[10] Cassazione civile sez. I, 17/02/2020, n. 3865.

Lorenza Pedullà

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