Quando si consuma il delitto di stalking nel caso di “contestazione aperta”

(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 612-bis)

Il fatto

Il Tribunale del Riesame di Roma, quale giudice dell’appello cautelare, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero di Tivoli avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione della custodia cautelare in carcere pronunciata dal Tribunale di Tivoli, disponeva la misura cautelare di massima afflittività nei confronti di un indagato in relazione al reato di stalking.

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IL REATO DI STALKING

Questo e-book si propone di fornire un’analisi chiara e completa del delitto di stalking (art. 612-bis c.p.) ad un decennio dalla sua introduzione nel nostro sistema penale ad opera della legge n. 11 del 23 febbraio 2009.La fattispecie delittuosa in esame appare oltremodo complessa nella sua struttura e non sempre di pronta ed immediata comprensione, nonostante di tale reato si dibatta a più livelli (politico, sociale, giornalistico) ed in molteplici sedi.Tale lavoro, dunque, si prefigge di fornire un testo esplicativo di facile consultazione e di adeguato approfondimento, diretto non soltanto ed esclusivamente all’operatore di diritto, per rendere più chiaro il quadro giuridico di riferimento.L’opera è completata ed arricchita non soltanto con il testo delle norme di riferimento, ma anche con il richiamo ai più rilevanti orientamenti della Corte di Cassazione formatisi sul punto.Paolo Emilio De SimoneMagistrato dal 1998, dal 2006 è in servizio presso la prima sezione penale del Tribunale di Roma, specializzata nella trattazione dei reati contro le fasce deboli (stalking, maltrattamenti, violenza sessuale, sequestro, ecc.); in precedenza ha svolto le sue funzioni presso il Tribunale di Castrovillari, presso la Corte di Appello di Catanzaro, nonché presso il Tribunale del Riesame di Roma. Nel biennio 2007/08 è stato anche componente del Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma previsto dalla legge costituzionale n. 01/89. Dal 2016 è inserito nell’albo dei docenti della Scuola Superiore della Magistratura, ed è stato nominato componente titolare della Commissione per gli Esami di Avvocato presso la Corte di Appello di Roma per le sessioni 2009 e 2016. Dal 2008 è autore di numerose pubblicazioni, sia in materia penale che civile, per diverse case editrici.

Paolo Emilio De Simone | 2020 Maggioli Editore

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’indagato deducendo violazione di legge e carenza e manifesta illogicità della motivazione sostenendo le ragioni sulla base delle quali il Tribunale di Tivoli, dinanzi al quale era in corso il dibattimento, aveva ritenuto di non poter accogliere la richiesta del pubblico ministero poiché le condotte nuove non potevano essere ricomprese nella contestazione già oggetto di giudizio e aveva invitato la pubblica accusa alla modifica eventualmente dell’imputazione ai sensi dell’art. 516 c.p.p. e ss. ovvero ad una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato.

Oltre a ciò, il ricorrente evidenziava, da un lato, che una decisione del Tribunale al riguardo avrebbe portato ad una perdita di terzietà e imparzialità del giudice chiamato a decidere all’esito del dibattimento già in atto (si richiamava l’art. 275 c.p.p., comma 1-bis), dall’altro, che è consentito ampliare l’oggetto della contestazione “aperta” di un reato abituale direttamente in dibattimento soltanto quando i nuovi fatti emergano dal confronto in contraddittorio tra le parti e, dunque, nel rispetto delle garanzie difensive e non se, come nel caso di specie, la nuova condotta di reato sia stata denunciata ex novo dalle persone offese al di fuori dell’ambito processuale in corso.

Inoltre, si evidenziava l’assenza di rischi di incorrere nel futuro nella violazione del principio del ne bis in idem qualora si procedesse ad una nuova contestazione estranea al dibattimento in atto poiché non vi sarebbe identità tra il fatto oggetto del giudicato e la nuova contestazione.

Infine, si censurava la motivazione sotto il profilo della valutazione di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza relativi alla nuova condotta contestata all’imputato e della verifica delle esigenze cautelari.
Quanto al primo aspetto, si era tra l’altro ignorato, secondo la difesa, che la vicenda doveva essere letta in una chiave logica di rapporti di vicinato conflittuali con reciproche denunce e che non vi era stato riscontro del denunciato utilizzo di una pistola ad aria compressa per compiere le nuove minacce poiché l’arma era stata ritrovata dai carabinieri intervenuti soltanto all’interno dell’abitazione non rilevando tracce di sparo all’esterno dove era stato denunciato essere avvenuto il fatto.

Sul punto delle esigenze cautelari, sempre secondo il legale, impropriamente si sarebbe richiamato il comportamento di mancata presentazione dell’imputato in seguito all’invito ex art. 375 c.p.p. mentre nulla si era detto sulla possibilità di contenere la cautela con la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari, plausibile nonostante il vicinato, dal momento che le persone offese e l’imputato vivevano in due fabbricati comunque distinti sebbene confinanti.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il ricorso veniva ritenuto infondato e, quindi, rigettato per le seguenti ragioni.

Per quello che rileva in questo commento, la Cassazione osservava prima di tutto come dovesse essere affrontata la questione relativa alla possibilità di configurare e contestare come un’unica ipotesi di reato l’ulteriore condotta criminosa commessa dal ricorrente nell’ambito dell’unico contesto delittuoso individuato negli atti persecutori che avevano avuto inizio, ai danni delle persone offese, dall’anno 2017, ed erano andati avanti continuativamente e abitualmente sino al momento della richiesta di rinvio a giudizio attraverso numerosi ed allarmanti atti di molestie e minacce sia fisiche (getto di rifiuti, intralcio al passaggio delle autovetture delle vittime, pedinamenti, aggressioni, esplosione di colpi con armi ad aria compressa al loro indirizzo) che verbali (minacce ripetute anche di morte) atti resi ancora più preoccupanti per le circostanze di luogo (le abitazioni confinanti si trovano in una zona isolata) fermo restando che il reato era stato contestato con condotta “in atto.

Ciò posto, quanto alla sussistenza della gravità indiziaria, l’ennesima azione di minaccia grave da parte del ricorrente, portata avanti con esplosione di colpi d’armi ad aria compressa, poi effettivamente trovate in casa e sequestrate dalla polizia giudiziaria, era stata in parte commessa anche in presenza dei carabinieri intervenuti (che avevano assistito ad alcune minacce ed ingiurie verbali rivolte alle persone offese) sicché, ad avviso del Supremo Consesso, la denuncia delle vittime risultava essere del tutto confortata da tali elementi di fatto mentre al contrario le osservazioni del ricorrente al riguardo venivano ritenuto prive di pregio poiché, sempre secondo la Corte di legittimità, ribaltavano la piana valenza di un riscontro alle dichiarazioni delle persone offese (il ritrovamento delle armi in casa dell’imputato) ritenendolo immotivatamente una smentita mentre, invece, non vi era dubbio per la Corte come la prima parte della condotta si fosse potuta svolgere con la minaccia armata e, successivamente, messe da parte le armi, si fosse protratta l’azione in presenza dei carabinieri senza l’utilizzo delle armi ad aria compressa riposte in casa.

Risolta la censura relativa all’assenza di gravi indizi di colpevolezza della nuova condotta espressiva del reato, veniva trattata la questione circa la possibilità formale di procedere alla contestazione nella fattispecie in esame.

Ebbene, per la Suprema Corte, correttamente il Riesame aveva richiamato la giurisprudenza secondo cui, nel delitto previsto dall’art. 612-bis c.p., che è reato abituale e si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione, in mancanza di una specifica contestazione, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale cosicché, nell’ipotesi di contestazione aperta, è possibile estendere il giudizio di penale responsabilità dell’imputato anche a fatti non espressamente indicati nel capo di imputazione e, tuttavia, accertati nel corso del giudizio sino alla sentenza di primo grado (Sez. 5, n. 6742 del 13/12/2018).

Tale impostazione – sebbene di recente apparentemente contraddetta da una pronuncia difforme (Sez. 5, n. 54376 del 2/10/2019, S., Rv. 277255) – appare, per gli Ermellini, la logica conseguenza della pacifica opzione interpretativa secondo cui, nel delitto previsto dell’art. 612-bis c.p., che ha natura abituale di evento, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014; Sez. 5, n. 54920 del 8/6/2016) sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria causalmente orientata alla produzione dell’evento (Sez. 5, n. 7899 del 14/1/2019).

Detto questo, si notava tra l’altro come la possibilità formale di procedere alla contestazione di una nuova manifestazione della condotta del reato di atti persecutori sino alla pronuncia della sentenza di primo grado sia stata espressamente enunciata anche da Sez. 5, n. 22210 del 3/4/2017, che ha affermato come, nel delitto previsto dall’art. 612-bis c.p., che è reato abitualee si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione, in mancanza di una specifica contestazione, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale cosicché non si configura violazione del principio del “ne bis in idem” in caso di nuova condanna per fatti successivi alla data della prima pronuncia.

Orbene, anche sotto il profilo della prospettiva di un futuro, possibile, rilievo del criterio preclusivo volto ad evitare un doppio giudizio, le censure del ricorrente si rivelavano, secondo i giudici di piazza Cavour, quanto meno insufficienti alla luce della giurisprudenza citata.

A fronte di ciò, la Suprema Corte intendeva aderire al principio enunciato da Sez. 5, n. 6742 del 2019, cit. ribadendolo con alcune precisazioni mentre non si riteneva come non potesse essere seguita, nel caso di specie, la logica da cui muoveva l’arresto successivo della Quinta Sezione sebbene ispirato dall’attenzione e dal rigore interpretativo dinanzi ad una fattispecie tipica complessa.

Invero, dal momento che la sentenza n. 54376 del 2019 aveva escluso l’applicabilità al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., che ha natura di reato abituale, e cioè a condotta plurima, del principio, proprio dei reati permanenti, secondo il quale, nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi, senza necessità di modifica dell’imputazione originaria, agli sviluppi della fattispecie emersi dall’istruttoria dibattimentale, da ciò deriva la conseguenza che le condotte persecutorie, diverse e ulteriori rispetto a quelle descritte nell’imputazione, devono formare oggetto di specifica contestazione, sia quando servono a perfezionare o ad integrare l’imputazione originaria, sia – e a maggior ragione – quando costituiscono una serie autonoma, unificabile alla precedente con il vincolo della continuazione e, nel caso deciso, è stato escluso come la contestazione in sede cautelare di determinate condotte persecutorie, commesse dall’indagato nell’anno 2018, fosse preclusa dalla condanna di primo grado, riportata dal medesimo, nel 2019, per il delitto omogeneo in danno della stessa vittima, contestato con la formula “dal 2016 ad oggi“.

Pur tuttavia, nella pronuncia in commento, veniva evidenziato come l’impostazione della pronuncia appena citata fosse influenzata, in parte, dal raffronto paradigmatico e astratto tra reato abituale e reato permanente, per altra parte, dalla funzionalizzazione dell’affermazione di principio a sciogliere i dubbi di una fattispecie complessa quale quella in concreta decisa, opposta esaminata nel caso di specie (poiché le contestazioni ulteriori, in quel caso, pur ricomprese nell’alveo temporale chiuso dalla condanna di primo grado, non erano state contestate nel corso del dibattimento ma in fase cautelare ed in un separato e diverso procedimento) mentre, viceversa, per la Cassazione, deve essere valorizzato il dato peculiare della tipicità normativa che caratterizza il reato di atti persecutori: il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. che ha natura, sì, di reato abituale, ma anche di reato di evento (o di danno), come è stato più volte pacificamente ribadito (cfr. Sez. 5, n. 7899 del 2019; Sez. 3, n. 23485 del 7/3/2014; Sez. 3, n. 9222 del 16/1/2015) sicché è a tale struttura complessa che bisogna guardare per poter esplorare la possibilità di ampliare i confini della contestazione di un reato già consumato e in relazione al quale è iniziata la fase dibattimentale dopo l’esercizio dell’azione penale.

A tal riguardo, veniva notato che l’evento o meglio gli eventi alternativi (ciascuno dei quali è idoneo a realizzare il reato (cfr. Sez. 5, n. 29782 del 19/5/2011; Sez. 5, n. 34015 del 22/6/2010), che disegnano la tipicità oggettiva della fattispecie di stalking, si realizzano “per accumulo” di condotte reiterate le quali integrano minacce e molestie verso taluno tanto da provocargli un grave stato d’ansia o di paura ovvero da ingenerare fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero ancora da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.

Orbene, per la Corte, tale evento “per accumulo” rimane unico, ed unico si configura anche il reato, pur se, come nel caso di specie, di seguito al suo perfezionamento, la condotta prosegua e arrivi ad ulteriore, definitiva consumazione, aggravandone le conseguenze, e cioè amplificando la dimensione dell’evento dannoso generato e già (nella gran parte) realizzatosi e ciò perché, in un caso come quello di specie, in cui evidentemente la condotta del ricorrente si inscrive nella medesima logica persecutoria e nel medesimo contesto di reato già delineato dall’imputazione in relazione alla quale è in corso il processo, non può dirsi che essa sia manifestazione di una nuova e diversa “campagna persecutoria” contro le vittime, bensì piuttosto costituisce l’apoteosi di quella già in atto (e come tale contestata dal pubblico ministero).

Il reato, pertanto, contestato come condotta “aperta” e in atto, ingloba in sé gli ulteriori frammenti di condotta che contribuiscono alla sua definitiva consumazione nelle forme finali unitariamente offensive frutto della reiterazione criminosa.

La Cassazione, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, enunciava il seguente principio di diritto: “il delitto previsto dall’art. 612-bis c.p. è reato abituale di evento “per accumulo”, che si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, pur potendosi essere già perfezionato nel momento in cui uno degli eventi previsti dalla norma si sia realizzato, sicché il termine finale di consumazione, in presenza di una contestazione “aperta”, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale, consentendo l’ampliamento dell’ambito dell’imputazione alle ulteriori condotte eventualmente realizzate successivamente all’esercizio dell’azione penale”.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa si spiega quando si consuma il delitto di stalking nel caso di “contestazione aperta”.

Difatti, in tale provvedimento, viene affermato che, in presenza di una contestazione di questo tipo, il termine finale di consumazione del reato di cui all’art. 612-bis c.p.p. coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado.

Orbene, pur condividendosi tale orientamento nomofilattico in linea con quanto già enunciato dalla Cassazione (in riferimento ai reati associativi), pur tuttavia, essendo stata emessa dagli stessi Ermellini recentemente una pronuncia difforme (come evidenziato nella pronuncia qui in commento), sarebbe comunque opportuno che su tale questione intervenissero le Sezioni Unite.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, per la ragione appena enunciata, comunque, non può che essere positivo.

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