(Ricorsi rigettati)
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 52)
Il fatto
La Corte di appello di Bologna confermava la sentenza con cui il Tribunale di Modena aveva dichiarato l’imputato responsabile del tentato omicidio nei confronti di una persona al cui indirizzo aveva esploso diversi colpi di arma da fuoco, attingendolo al viso, al torace, all’avambraccio destro, al secondo dito della mano sinistra e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la provocazione, lo aveva condannato alla pena di 3 anni 1 mese e 10 giorni di reclusione; con le pene accessorie di legge e condanna, altresì, al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita.
I fatti all’origine della vicenda venivano ricostruiti dai giudici di legittimità ordinaria nel seguente modo: “Poco dopo la mezzanotte del (omissis) il cittadino montenegrino, agendo in concorso con un complice, dopo aver aperto un varco nella saracinesca di circa 75 cm. di altezza x 67 cm. di larghezza, era penetrato all’interno del negozio di abbigliamento di proprietà del B., sito in (omissis) e posto sotto l’abitazione del titolare, ubicata al primo piano del medesimo stabile, con accesso dal civico n. (omissis) e non collegata in alcun modo al sottostante esercizio commerciale; il B., che si trovava nella sua abitazione, allertato dallo scatto del primo allarme e acquisita certezza dell’avvenuta intrusione con lo scatto del secondo allarme, si era munito della pistola legittimamente detenuta, scendendo le scale aveva chiesto alla vicina di chiamare le forze dell’ordine, era uscito dal cancello delimitante l’area privata di ingresso allo stabile, era entrato su quella pubblica ed aveva ripetutamente sparato, esplodendo i primi colpi in aria o comunque non a bersaglio stabilito, ulteriori colpi all’indirizzo dell’autovettura dei ladri, attingendola sul montante posteriore sinistro e forando la ruota anteriore sinistra, con possibilità di fuga compromessa, quindi aveva indirizzato i colpi verso la vetrata del negozio a solo scopo intimidatorio e, infine, all’indirizzo del soggetto che ne era uscito”.
Orbene, una volta richiamata la vicenda in questione, gli Ermellini osservavano come entrambi i giudici di merito avessero ritenuto priva di pregio la tesi secondo cui doveva ravvisarsi, nella specie, la legittima difesa così come configurata a seguito della L. n. 59 del 2006 posto che era pacifico che l’imputato, al momento dell’accertata intrusione, si fosse trovato nella propria abitazione non raggiungibile dal locale sottostante e che, pertanto, nessun pericolo per l’incolumità propria o della moglie fosse neppure astrattamente ipotizzabile; nemmeno sussistevano i requisiti della legittima difesa di cui all’art. 52, comma 1 per l’assoluta assenza di necessità per l’imputato di agire come aveva fatto non essendo revocabile in dubbio, per i giudici di merito, che egli avesse la possibilità di determinarsi diversamente e tanto bastava ad escludere la cogenza assoluta di un comportamento scriminabile; la situazione dell’imputato era quella di accettazione di un pericolo che era evitabile e comunque arginabile in altri modi così che non si poteva invocare l’autotutela legittima, nè reale nè putativa e neppure l’eccesso colposo giacchè l’eventuale alternativa conflittuale era stata deliberatamente e consapevolmente accettata.
Ciò posto, la sentenza impugnata, inoltre, si faceva carico di confutare anche l’assunto secondo il quale l’ultimo segmento della condotta posta in essere dall’imputato, al momento dell’incontro con la vittima, doveva considerarsi scriminato.
La Corte territoriale, come già il giudice di primo grado, invero, non dava credito alla versione ddell’imputato il quale aveva sostenuto che l’uomo che aveva visto uscire aveva fatto un salto ed egli aveva notato che aveva in mano qualcosa di nero che gli era parsa un’arma e, per tale ragione, gli aveva sparato cercando di colpire la mano con l’intenzione di disarmarlo ed era tornato a sparare quando lo aveva visto avanzare verso di lui con la mano protesa.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Per la cassazione della sentenza di appello ricorreva l’imputato a mezzo dei suoi difensori.
Ebbene, uno di questi legali denunziava: – violazione di legge in relazione all’art. 52 c.p. con riferimento al mancato riconoscimento della legittima difesa, reale o putativa osservando:
– quanto alla ritenuta volontaria e consapevole accettazione della situazione di pericolo, la sentenza impugnata aveva erroneamente anticipato il momento della valutazione valorizzando il fatto che l’imputato aveva avuto contezza dell’illecita intrusione nel suo esercizio commerciale mentre era nella propria abitazione e certamente non versava in una situazione di pericolo così come, nondimeno, una volta percepita un’aggressione all’interno della sua proprietà, era sua facoltà intervenire al fine di far desistere gli aggressori dal portare avanti un’azione delittuosa ai danni del proprio negozio e tale condotta non poteva essere interpretata come volontaria determinazione di una situazione di pericolo posto che il ricorrente, portando con sè la pistola regolarmente detenuta, si era limitato ad esplodere più colpi a scopo meramente dissuasivo, sparando in aria, poi contro l’autovettura dei malviventi e, infine, contro la vetrata, nella certezza che nessuna deflagrazione vi sarebbe stata per la presenza di vetri antiproiettile; a fronte di ciò, invece, la sentenza impugnata aveva invece erroneamente svalutato il momento dell’incontro tra sparatore e malvivente giacchè quando l’imputato aveva esploso gli ultimi due colpi all’indirizzo dell’intruso, costui versava in una situazione di pericolo non volontariamente creata, ma determinata unicamente dal contegno aggressivo del soggetto passivo del reato;
– quanto alla esistenza del pericolo attuale di un’offesa ingiusta e alla necessità dell’intervento difensivo, la Corte di appello non aveva considerato che l’aggressore era uscito dal negozio con le mani in avanti all’altezza delle spalle dirigendosi frontalmente verso l’imputato, anzichè scappare, sebbene quest’ultimo gli avesse intimato di fermarsi, come dichiarato anche da un testimone; l’assunto del ricorrente, ossia di aver visto nella mano del ladro un oggetto di colore nero, a parere della difesa, era compatibile con il successivo rinvenimento, nei pressi in cui il ferito era caduto, di un telefono cellulare e di un coltello dal momento che lui si era visto affrontare da un malvivente che, per le connotazioni modali della condotta tenuta sino al momento del suo intervento, aveva già dato piena dimostrazione della sua capacità criminale; il tutto, tra l’altro, si era svolto in una frazione di pochi secondi e senza soluzione di continuità e i colpi erano stati sparati frontalmente ossia solo quando l’imputato aveva avuto la percezione di essere in pericolo vedendo l’uomo che gli piombava addosso con qualcosa in mano; che l’aggressore fosse stato colpito in una posizione frontale rispetto al ricorrente e non già nel tentativo di fuggire verso destra, come sostenuto dai giudici di merito, era circostanza compatibile con i riscontri medico legali sui fori di ingresso e di uscita dei proiettili; appena cessata l’aggressione, o la condotta come tale percepita, era cessato volontariamente l’utilizzo dell’arma che conteneva altri sei colpi nel caricatore; tal che si era in presenza, dunque, di plurimi elementi in base ai quali si sarebbe quanto meno dovuto riconoscere, per il legale, la legittima difesa putativa; violazione di legge in relazione all’art. 55 c.p., con riferimento all’esclusione della difesa eccedente, in quanto, data per certa l’intenzione di avvalersi dell’arma solo a fini difensivi, come comprovato da tutti gli elementi obiettivi valorizzati dalla difesa, ben poteva ritenersi l’eccesso colposo sotto il profilo della colposa sopravvalutazione del pericolo, tenuto conto del concreto contesto spazio-temporale dell’azione.
Con il ricorso redatto dall’altro avvocato, il ricorrente invocava l’applicazione della nuova disciplina approvata in tema di legittima difesa osservando che la L. 26 aprile 2019, n. 36 ha esteso i margini di applicabilità della legittima difesa domiciliare, non solo prevedendo che è sempre proporzionato l’uso di un’arma legalmente detenuta per difendere, nell’ipotesi di violazione del domicilio, l’incolumità o i beni propri o altrui quando non vi sia desistenza e sussista un pericolo effettivo di aggressione, ma ha introdotto, con l’art. 52, comma 4, cod. pen., una presunzione iuris et de iure di tutti gli elementi costitutivi dell’esimente nei casi di violazione di domicilio aggravata.
Le innovazioni normative, difatti, per il difensore, garantiscono “appieno chi si difende nel proprio sacrosanto domicilio” e consentono di delegittimare tutti gli argomenti che la sentenza impugnata ha posto a sostegno del diniego della scriminate giacché l’imputato, constatata la violazione violenta del proprio domicilio commerciale, ha utilizzato l’arma legalmente detenuta al fine di difendere la propria incolumità e comunque i propri beni nella sussistenza di un pericolo di aggressione da parte dell’intruso che, con il contegno tenuto, aveva dato prova di essere intenzionato a fronteggiare il proprietario del negozio, anzichè darsi alla fuga.
Detto questo, per altro verso, veniva rilevato che la condotta tenuta dal ricorrente sarebbe rientrata comunque nel novellato art. 55 cod. pen. che, nei casi di cui all’art. 52, commi 2, 3 e 4, cod. pen. esclude la punibilità se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o dell’altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61 c.p., n. 5, cod. pen. ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto.
In particolare, l’imputato versava in una situazione di minorata difesa, scaturita dall’introduzione di violenti intrusori nel proprio domicilio commerciale e temeva fortemente per la sua incolumità, il ritrovamento del coltello all’interno di una fioriera adiacente al luogo di commissione del reato avrebbe deposto in tal senso ai fini del riscontro della riferita percezione sensoriale dell’imputato.
Si osservava infine che la nuova disciplina involgesse anche le statuizioni civili della sentenza impugnata in forza dell’art. 2044 cod. civ., nuovo comma 2, che prevede l’esenzione dalla responsabilità civile nei casi dell’art. 52, commi 2, 3 e 4, cod. pen..
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Osservava prima di tutto la Cassazione che le censure prospettate nell’atto di ricorso a firma di uno di questi legali (cioè il primo esaminato prima), pur evocando solamente violazioni della legge sostanziale, e cioè delle norme che configurano la legittima difesa, reale o putativa, e l’eccesso colposo, attenevano nella sostanza alla congruità della motivazione in quanto non sono i principi in astratto evocati dalla sentenza impugnata ad essere oggetto di censura, quanto la ricostruzione operata e la valutazione del caso concreto.
Mentre nell’atto di ricorso a firma dell’altro avvocato, si assumeva che le modifiche di recente apportate alla legittima difesa domiciliare non avrebbero potuto non inficiare la tenuta della decisione.
Al contrario, in punto di esclusione dell’esimente così come della difesa eccedente, la concorde ricostruzione della dinamica dei fatti accolta dai giudici di merito avrebbe reso pienamente ragione, in diritto, delle conclusioni raggiunte e appariva, in fatto, saldamente ancorata ai dati probatori illustrati, plausibilmente e correttamente interpretati e valutati.
Premesso ciò, gli Ermellini ritenevano come fosse necessario anzitutto sgomberare il campo dalle osservazioni svolte a proposito della rifluenza sul caso in disamina delle innovazioni normative in tema di difesa domiciliare.
Orbene, si faceva presente a tal proposito che le modifiche, che hanno interessato la definizione della scriminante in esame, hanno riguardato – ad opera della L. 13 febbraio 2006, n. 59 – le reazioni difensive poste in essere contro chi commetta fatti di violazione di domicilio ai sensi dell’art. 614 c.p., commi 1 e 2, situazione a cui è stata parificata la commissione di fatti avvenuti “all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.
La L. n. 36 del 2019, difatti, ha: modificato dell’art. 52 c.p., il comma 2 inserendovi l’avverbio “sempre” (“Nei casi previsti dall’art. 614, commi 1 e 2, sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al comma 1 del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza o vi è pericolo di aggressione.”); inserito nella norma un nuovo comma – il quarto – in forza del quale “Nei casi di cui al secondo e al comma 3 agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”; aggiunto, all’art. 55 c.p., un comma 2 che, delimitando l’ambito di punibilità dell’eccesso colposo, recita “Nei casi di cui all’art. 52, commi 2, 3 e 4 la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, comma 1, n. 5 ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”.
La nuova riforma, dunque, non ha sostituito quella del 2006 perchè, al pari della prima, riguarda esclusivamente le reazioni difensive all’offesa ingiusta arrecata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati: dunque, pur sempre di difesa “nel domicilio” si tratta e non, come sembra adombrare il ricorrente, di difesa “del domicilio” tout court.
L’interpolazione del comma 2 con l’inserimento dell’avverbio “sempre“, volto a presidiare ulteriormente, nell’intenzione del legislatore, la presunzione di proporzionalità della reazione difensiva a tutela della sicurezza individuale nel domicilio, quindi, non modifica l’impianto normativo dell’istituto: la fattispecie scriminante postula una serie di requisiti aggiuntivi rispetto a quelli, diversi dalla proporzione, richiesti dall’art. 52 c.p., comma 1: la commissione di una violazione di domicilio da parte dell’aggressore; la presenza legittima dell’agente nei luoghi dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento; uno specifico animus defendendi che si aggiunge e non si sostituisce ai requisiti posti dal comma 1, nel senso che alla finalità difensiva deve necessariamente corrispondere, sul piano oggettivo, il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata, la necessità ed inevitabilità dell’offesa restando ineludibili precondizioni.
Sicchè l’aggiunta dell’avverbio “sempre” appare pleonastica, in quanto l’operatività della presunzione, già posta dalla norma, resta comunque subordinata all’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie scriminante, che non consente una indiscriminata reazione nei confronti dell’autore dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico o nei luoghi ad esso assimilati, alla propria o altrui incolumità o quanto meno un pericolo di aggressione (Sez. 1, n. 12466 del 21/02/2007; Sez. 4, n. 691 del 14/11/2013; Sez. 5, n. 35709 del 02/07/2014; Sez. 1, n. 50909 del 07/10/2014).
La reazione può dirsi, pertanto, proporzionata, nonostante l’asimmetria dei mezzi a disposizione, sempre che il pericolo di offesa all’incolumità propria o di terzi sia attuale e tale da rendere inevitabile l’uso dell’arma come mezzo di difesa, mentre la reazione a difesa dei beni è legittima quando l’offesa è in atto (non vi è desistenza) e vi sia il pericolo, ossia la probabilità ovvero la rilevante possibilità, di aggressione all’incolumità fisica dell’aggredito o di altri.
A fronte di ciò, veniva notato che nemmeno il comma 4, di nuovo conio, dell’art. 52 c.p., sembra consentire un’indiscriminata reazione contro chi si introduca o si intrattenga, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, nella dimora altrui o nei luoghi ad essa equiparati atteso che l’incipit della disposizione (“Nei casi di cui ai commi 2 e 3…”) ne delimita l’ambito di applicazione, per espressa previsione normativa, alle situazioni di fatto già riconducibili ai commi richiamati nel senso che l’elemento di specialità è costituito dalle modalità intrusive connotate dalla violenza o dalla minaccia di uso di armi, tali da essere percepite dall’agente come un’aggressione, anche solo potenziale, alla propria o altrui incolumità e, solo quando l’azione sia connotata da siffatte modalità, può presumersi il rapporto di proporzione della reazione sempre che però sussista la necessità e l’inevitabilità della condotta reattiva posto che il requisito della necessità appartiene, difatti, all’essenza stessa della legittima difesa dato che l’eccezionale facoltà di autotutela è ammessa proprio perchè necessaria ossia nei casi in cui non sia possibile difendersi in modo lecito o in modo meno lesivo mentre una diversa opzione ermeneutica, tale da estendere il regime di presunzione a tutti gli elementi costitutivi della causa di giustificazione, secondo la Suprema Corte, oltre che eccentrica rispetto al sistema, introdurrebbe un’area di esclusione dell’antigiuridicità avulsa dal connotato della necessità che, viceversa, costituisce il fondamento dell’esimente e consente il ragionevole bilanciamento dei valori in conflitto.
Del resto, veniva osservato a tal riguardo come il giudice delle leggi non avesse mai messo in discussione che l’istituto della legittima difesa postuli la necessità della reazione ad un’offesa in atto e la necessità e inevitabilità della reazione era stata rimarcata anche nella lettera, inviata dal Presidente della Repubblica ai Presidenti della Camera e del Senato ed al Presidente del Consiglio, che aveva accompagnato la promulgazione della novella: la legittima difesa, anche nel domicilio, è e resta una facoltà eccezionale di autodifesa riconosciuta dall’ordinamento quando la difesa da parte delle forze dell’ordine non è in concreto possibile dal momento che in questo comunicato si legge che “la nuova normativa non indebolisce nè attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela dell’incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata attraverso l’azione generosa delle Forze di Polizia” e che “il fondamento costituzionale” dell’esclusione della responsabilità penale “a favore di chi reagisce legittimamente a un’offesa ingiusta, realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati…è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità” che, come tale, resta rimessa all’apprezzamento del giudice e non può essere presuntivamente ritenuta.
D’altronde lo stesso legislatore, nel restringere l’area dell’eccesso colposo, prevedendo, anche nei casi di cui all’art. 52 c.p., comma 4, l’esclusione della punibilità di chi abbia agito, per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, versando in situazione di minorata difesa o di grave turbamento, ha ritenuto, nella sostanza, configurabile il superamento colposo dei limiti della scriminante nei casi diversi da quelli previsti e tanto consente, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, di escludere che l’art. 52, comma 4, abbia introdotto una presunzione che involge tutti i requisiti della scriminante giacchè se l’esimente fosse senza limiti, a ragione della presunzione di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi in caso di intrusioni realizzate con determinate modalità, non ne sarebbe giammai possibile il superamento ed, essendo il fatto sempre lecito, non sarebbe nemmeno concepibile l’ipotesi di una difesa colposamente eccedente.
Tanto posto, le osservazioni svolte nella sentenza impugnata offrono per la Corte di legittimità una motivazione, corretta in diritto, puntuale, esaustiva, logicamente coerente nel senso dell’insussistenza delle condizioni legittimanti il riconoscimento dell’invocata esimente.
Alle prospettazioni difensive sulla configurabilità della legittima difesa domiciliare, riconducibili alla violazione del “domicilio commerciale” e alla facoltà dell’imputato di intervenire per difendere i suoi beni e la sua proprietà dall’azione predatoria in atto, i giudici di merito, difatti, hanno concordemente obiettato che l’esercizio commerciale preso di mira dai malintenzionati era chiuso al pubblico per l’orario notturno; l’imputato non era stato sorpreso all’interno del negozio nè vi aveva fatto ingresso senza essere a conoscenza della presenza di terzi mentre egli, invece, si trovava al riparo nella sua abitazione, irraggiungibile dai malviventi sicchè non solo non v’era l’attualità, ma neanche l’astratta prospettabilità di un pericolo di offesa alla persona.
Siffatto approdo, basato su premesse fattuali incontestate, per la Suprema Corte, è ineccepibile in diritto bastando qui ricordare che la fattispecie scriminante di cui al secondo dell’art. 52 c.p. richiede che la condotta difensiva sia compiuta da persona “legittimamente presente” nei luoghi oggetto dell’illecita intrusione o dell’illecito trattenimento, così come il comma 3 richiede che il fatto “sia avvenuto all’interno” di uno dei luoghi indicati dalla norma e tale precisazione vale ad escludere che la scriminante possa coprire, la condotta di chi, all’esterno di tali luoghi, usi un’arma, benchè legittimamente detenuta, o altro mezzo idoneo con il solo scopo di mettere in fuga gli intrusi o di interrompere l’azione predatoria.
Orbene, a fronte di ciò, per il Supremo Consesso, la conclusione non muta a seguito della riforma attuata con la novella del 2019, diretta a circoscrivere ulteriormente, nell’ambito dello statuto della difesa domiciliare, la responsabilità penale, ma che implica pur sempre che il respingimento dell’intruso, autore della fattispecie aggravata di cui all’art. 614 c.p., sia realizzato dalla persona legittimamente presente nel domicilio aggredito o nei luoghi ad esso assimilati, ferma restando la necessità della condotta reattiva, funzionale alla difesa della propria o altrui incolumità o dei beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione sicchè correttamente la concreta fattispecie è stata esaminata alla luce della previsione di cui all’art. 52 c.p., comma 1, che presuppone un’aggressione ingiusta, ossia il pericolo attuale di un’offesa, che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocerebbe nella lesione di un diritto proprio o altrui; una reazione legittima, ossia una reazione necessaria e inevitabile; la proporzione tra difesa e offesa.
L’esistenza e la praticabilità di un commodus discessus basta, quindi, per la Cassazione, ad escludere la possibilità di ritenere praticabile la difesa attiva.
Orbene, nel caso in esame, non solo la ricostruzione fattuale accolta dai giudici di merito, ma persino l’asserzione difensiva con cui si afferma che era nella facoltà dell’imputato armarsi e uscire di casa per mettere in fuga gli intrusi e tutelare i propri beni, consentivano per il Supremo Consesso di escludere l’esimente invocata.
La Corte di appello, invero, aveva correttamente annotato l’assenza della necessità e inevitabilità dell’iniziativa dell’imputato osservando come egli volontariamente si fosse posto in una situazione aggressiva, pur in presenza dell’alternativa di fermarsi in sicurezza all’interno dell’abitazione, inaccessibile agli intrusi, e di richiedere l’immediato intervento delle forze dell’ordine visto che, secondo la stessa ricostruzione prospettata dall’imputato, avuta contezza dell’incursione appena iniziata, senza alcun indugio, egli aveva prelevato la pistola legittimamente detenuta, era uscito di casa, aveva chiesto alla vicina, nella quale si era casualmente imbattuto, di avvisare le forze dell’ordine, aveva visto la macchina dei malintenzionati parcheggiata in prossimità dell’ingresso del negozio con il bagagliaio aperto e, in avvicinamento, aveva esploso due colpi in aria, tre colpi all’indirizzo dell’autovettura mettendola fuori uso, alcuni colpi contro l’ingresso del negozio e, infine, all’indirizzo del soggetto che ne era uscito e, dunque, l’iniziativa di armarsi, uscire dall’abitazione, raggiungere la pubblica via ed esplodere una serie di colpi in rapida sequenza esprimeva la volontaria esposizione al pericolo e la deliberazione di un’azione difensiva evitabile, in considerazione delle plurime opzioni che gli si offrivano in quei frangenti; e proprio la possibilità di determinarsi diversamente era di per sè incompatibile con la cogenza assoluta di un comportamento scriminabile;
La Corte territoriale, quindi, aveva pure negato anche la rilevanza in termini putativi dell’esimente, in presenza di un errore non scusabile riguardo all’inevitabilità dell’offesa, dovendo escludersi che l’imputato potesse ragionevolmente essere indotto a temere, come sostenuto, lesioni all’incolumità personale propria e dei familiari, a ragione della conformazione oggettiva dei luoghi che assicurava adeguate condizioni di sicurezza e della possibilità di richiedere l’intervento della forza pubblica, mentre la pur addotta condizione di frustrazione, accumulata per i pregressi furti subiti ad opera di ignoti e riattualizzata dall’azione predatoria in atto, non era tale da indurre in incolpevole errore sulla necessità della condotta reattiva e sull’inevitabilità difensiva, potendo semmai determinare uno stato d’ira, rilevante solo nei termini della concessa attenuante della provocazione.
Ineccepibilmente, ad avviso del Supremo Consesso, la decisione aveva, pertanto, osservato che il ricorrente aveva agito senza nessun altro ragionevole motivo se non quello di interrompere, ad ogni costo, l’azione di coloro che erano penetrati all’interno del suo esercizio commerciale, consapevole dell’incontro con i malviventi e con l’intento di contrastarli con l’arma di cui si era munito, quale ne fosse il numero, così ponendosi volontariamente in una situazione di pericolo per la propria incolumità, fronteggiabile con l’aggressione altrui e, d’altro canto, anche se l’imputato fosse convinto di dovere difendere il suo diritto patrimoniale dall’aggressione in corso, anche siffatta persuasione era fondata su un errore inescusabile tenuto conto della concreta praticabilità di altre soluzioni alternative, della sproporzione tra i diversi beni in conflitto e della irragionevolezza di una reazione, anche potenzialmente letale, a difesa dei beni, in un contesto in cui non erano in gioco beni superiori da tutelare.
La decisione impugnata non prestava, pertanto, per gli Ermellini, il fianco a censure laddove aveva negato la configurabilità di necessitata reazione difensiva sottolineando anzi la consapevole scelta di affrontare i malintenzionati e di fronteggiarli con l’arma per interromperne l’azione predatoria sicchè quando, come nella specie, il pericolo poteva essere evitato adottando altre soluzioni e l’aggredito, deliberatamente accettando l’alternativa conflittuale, si era trasformato in aggressore, anche la putatività non assume più alcun rilievo come pure l’assenza di un qualificato profilo di necessità dell’azione asseritamente difensiva preclude ogni valutazione in termini di eccesso che presuppone l’esistenza di tutti i requisiti della scriminante, anche solo putativa, e il colposo superamento dei suoi limiti per errore di valutazione sull’adeguatezza e sulla proporzione della reazione all’altrui azione.
Le superiori considerazioni (id est: l’assenza, a monte, della necessità e inevitabilità difensiva) a loro volta era state ritenute dai giudici di appello decisive e assorbenti le ulteriori questioni sull’incontro/scontro tra i due su cui si era meticolosamente intrattenuta la difesa e sulle quali aveva costruito l’invocata esimente, al più putativa, da riconoscersi all’imputato che si era visto affrontare (o aveva ragionevolmente creduto di esserlo) dal soggetto che, uscito dal locale, si era portato nella sua direzione, stringendo nella mano un oggetto simile a un’arma.
Ebbene, a fronte delle articolate giustificazioni che sorreggevano le conclusioni delle due decisioni, le deduzioni difensive, meramente replicate nel ricorso, apparivano essere, per la Corte di legittimità, largamente inammissibili, non solo perchè scollegate dalle ragioni della decisione e prive di specifica pertinenza censoria, ma anche perchè ripetono ricostruzioni alternative, nemmeno dirimenti, già esaminate dai giudici di merito e da essi concordemente smentite anche negli aspetti dotati di una qualche astratta rilevanza.
In piena aderenza alle emergenze probatorie, di fatto contestate solo dai consulenti della difesa, le cui conclusioni erano state motivatamente disattese, i giudici di merito avevano, infatti, negato qualsivoglia verosimiglianza all’assunto difensivo consistito nella paventata aggressione evidenziando che, per uscire dallo stretto pertugio praticato nella saracinesca, la vittima era stata costretta a flettere in avanti il capo e il busto e in tale anomala posizione era stato colpito per la prima volta, probabilmente al dito della mano sinistra e, subito dopo, una seconda volta, al ment, con conseguente frattura pluriframmentaria del corpo mandibolare interessante la regione mediana-paramediana destra; lo stesso colpo aveva interessato la regione toracica destra, senza penetrare il polmone, tanto perchè il corpo era ancora in posizione inclinata in avanti; il terzo colpo aveva attinto l’avambraccio destro; tutti erano stati esplosi in rapida successione, da distanza superiore ai 50 cm, ma sicuramente ravvicinata; le tracce ematiche erano state rilevate in zona prospiciente il buco mentre non era stata repertata nessuna scia di sangue indicativa di un avvicinamento allo sparatore senza sottacere poi che se la vittima, come riferito dall’imputato, gli fosse andata incontro, la caduta del ferito si sarebbe verificata in una posizione finale diversa da quella in concreto apprezzata.
Nemmeno sarebbe stato logico, poi, che l’aggressore, già colpito, impugnando un cellulare o anche un coltello si fosse fatto avanti con intenzioni aggressive e, una volta caduto, si fosse disfatto dell’arma, gettandola in una vicina fioriera, così liberandosi dell’unico strumento difensivo; in disparte poi la considerazione che gli unici profili genotipici riconducibili alla vittima erano stati rinvenuti nelle tracce biologiche repertate su un biglietto e sul telefono cellulare.
Ineccepibili apparivano essere, quindi, per il Supremo Consesso, le conclusioni concordemente raggiunte anche in ordine alla inconsistenza delle prospettazioni difensive relative al timore dell’imputato, nell’ultimo segmento della condotta, di un pericolo per la propria incolumità determinato dall’asserito contegno aggressivo della vittima, assunto contraddetto da una ricca messe di elementi obiettivi di segno opposto.
La Suprema Corte, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, riteneva come i ricorsi proposti, quanto meno infondati, dovessero essere rigettati e a tale esito conseguiva la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si afferma in sostanza che sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui all’art. 52, c. 1, c.p. nei casi previsti dall’art. 52, c. 2, c.p..
Difatti – dopo essersi fatto presente che la nuova riforma, cioè quella introdotta dalla legge n. 36/2019, non ha sostituito quella del 2006 perchè, al pari della prima, riguarda esclusivamente le reazioni difensive all’offesa ingiusta arrecata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati: dunque, pur sempre di difesa “nel domicilio” si tratta e non, come sembra adombrare il ricorrente, di difesa “del domicilio” tout court – viene affermato che l’interpolazione del comma 2 con l’inserimento dell’avverbio “sempre“, volto a presidiare ulteriormente, nell’intenzione del legislatore, la presunzione di proporzionalità della reazione difensiva a tutela della sicurezza individuale nel domicilio, non modifica l’impianto normativo dell’istituto dal momento che la fattispecie scriminante postula una serie di requisiti aggiuntivi rispetto a quelli, diversi dalla proporzione, richiesti dall’art. 52 c.p., comma 1, quali: la commissione di una violazione di domicilio da parte dell’aggressore; la presenza legittima dell’agente nei luoghi dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento; uno specifico animus defendendi che si aggiunge e non si sostituisce ai requisiti posti dal comma 1, nel senso che alla finalità difensiva deve necessariamente corrispondere, sul piano oggettivo, il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata, la necessità ed inevitabilità dell’offesa restando ineludibili precondizioni.
Tal che ne discende, come del resto già affermato dalla Cassazione in precedenti pronunce, che l’aggiunta dell’avverbio “sempre” non implica che la legittima difesa ricorre comunque in quanto l’operatività della presunzione, già posta dalla norma, resta comunque subordinata all’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie scriminante che non consente una indiscriminata reazione nei confronti dell’autore dell’illecita intrusione o dell’illecito intrattenimento ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico o nei luoghi ad esso assimilati, alla propria o altrui incolumità o quanto meno un pericolo di aggressione.
In altri termini, la reazione può dirsi, pertanto, proporzionata, nonostante l’asimmetria dei mezzi a disposizione, sempre che il pericolo di offesa all’incolumità propria o di terzi sia attuale e tale da rendere inevitabile l’uso dell’arma come mezzo di difesa mentre la reazione a difesa dei beni è legittima quando l’offesa è in atto (non vi è desistenza) e vi sia il pericolo, ossia la probabilità ovvero la rilevante possibilità, di aggressione all’incolumità fisica dell’aggredito o di altri.
Tali parametri ermeneutici, di conseguenza, devono essere presi nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza o meno di questa causa di liceità.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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