La conciliazione giudiziale (art. 185, 185-bis e 420 c.p.c)

 

Sommario: 1.1. Il tentativo di conciliazione: cenni generali (art. 185 c.p.c.). – 1.2. La proposta di conciliazione del giudice (art. 185-bis c.p.c.). – 1.3. Ambito di applicazione delle figure in esame. – 1.4. L’art. 185-bis ante e post conversione del D.l. 69/2013. – 2.1. La natura giuridica della conciliazione giudiziale. – 3.1. Lo stato della giurisprudenza sul tentativo di conciliazione del giudice. – 3.1.1. Limiti temporali all’attività del giudice. – 3.1.2. I caratteri dell’accordo. – 3.1.3. I rapporti tra conciliazione e mediazione obbligatoria. – 3.1.4. La responsabilità aggravata della parte che rifiuta la proposta conciliativa. – 4.1. La conciliazione nel rito del lavoro (art. 420 c.p.c.).

 

Il tentativo di conciliazione: cenni generali (art. 185 c.p.c)­.

La conciliazione giudiziale è un istituto previsto dall’art. 185 c.p.c che consente alle parti, grazie all’intervento del giudice, di comporre la lite addivenendo ad una convenzione.

La norma suddetta stabilisce che il giudice è tenuto a disporre la comparizione personale delle parti e alla fissazione di un’udienza ad hoc qualora le parti congiuntamente lo richiedano al fine di interrogarle e di provocarne la conciliazione. Altresì tale facoltà appartiene al giudice d’ufficio che può disporre la comparizione delle parti ai sensi dell’art. 117 c.p.c.

Dunque, come sostiene la dottrina maggioritaria, tale strumento può essere utilizzato dal giudice d’ufficio e in ogni momento; ma diviene obbligatorio in seguito alla richiesta congiunta proveniente dalle parti in causa (Balena, Costantino).

Il tentativo di conciliazione, dispone la norma in esame, può essere rinnovato in qualsiasi momento dell’istruzione.

Dal punto di vista operativo, se le parti addivengono alla conciliazione, questa è contenuta nel verbale d’udienza il quale costituisce titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.

 

La proposta di conciliazione del giudice (art. 185-bisp.c.).

L’art. 185-bis c.p.c. è stato introdotto con D.L. 21 giugno 2013, n. 69, poi convertito, con rilevanti modificazioni, in L. 9 agosto 2013, n. 98, il quale dispone: «Il giudice, alla prima udienza, ovvero fino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti, ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

Dunque, tale strumento di più recente introduzione, consente al giudice di formulare e rivolgere formalmente alle parti una propria proposta conciliativa della lite, a partire dalla prima udienza e fin quando non sia terminata la fase istruttoria, nell’ottica della deflazione immediata del processo.

La locuzione «ove possibile» è ben delimitata poi dalla stessa citata disposizione, ove stabilisce che il giudice dovrà aver riguardo, nell’assumere tale provvedimento, «alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto».

Tale proposta viene poi inserita nella parte dispositiva del verbale d’udienza.

 

Ambito di applicazione delle figure in esame.

Giudizi di cognizione ordinaria in cui si controverta di diritti disponibili e come si vedrà nei giudizi che si svolgono nelle forme del rito del lavoro (art. 420 c.p.c). Inoltre, dottrina e giurisprudenza sono nel senso di ammettere la formulazione di proposte conciliative, sempre a discrezione del giudice, anche in altri giudizi come nel procedimento camerale o nel giudizio sommario di cognizione o in quello cautelare, che possa concludersi con una condanna alle spese (art. 669 septies, comma 2 e art. 669 octies, terz’ultimo comma c.p.c.).

 

L’art. 185-bis ante e post conversione del D.l. 69/2013

Il testo della norma in esame ha subito una variazione in seguito alla conversione in legge, invero, la versione originaria recitava: «Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando non è esaurita l’istruzione, DEVE formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».

Se prima la norma prevedeva un obbligo per il giudice di procedere alla formulazione di una proposta di conciliazione, attualmente vi è la semplice possibilità per quest’ultimo di procedere ai sensi dell’art. 185-bis c.p.c..

Inoltre, il testo originario non richiedeva la valutazione preventiva delle caratteristiche della causa (natura e valore del giudizio, esistenza di questioni di diritto di facile e pronta soluzione), che invece la norma attuale prevede.

La modifica apportata alla norma in esame in sede di conversione che appare più incisiva, risulta essere l’eliminazione delle conseguenze sanzionatorie in caso di rifiuto senza giustificato motivo della proposta giudiziale.

Nella prassi giudiziaria, tuttavia, nel caso di mancata adesione senza giustificato motivo di una parte alla proposta formulata dal giudice, viene applicato, in modo si può dire anche sanzionatorio, l’art. 91 c.p.c, il quale prevede che l’accoglimento della domanda in misura non superiore alla proposta formulata dal giudice, consente a quest’ultimo di condannare al pagamento delle spese processuali la parte che non si è conformata alla proposta.

La natura giuridica della conciliazione giudiziale

Essendo la proposta conciliativa un istituto di diritto processuale, secondo la maggior parte degli interpreti, la conciliazione è un atto negoziale trilaterale in quanto l’accordo tra le parti viene raggiunto grazie all’intervento di un terzo, il giudice, e viene consacrato in un atto avente valenza di atto pubblico.

Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, dunque, la conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 c.p.c., pur richiedendo sempre una convenzione, non è assimilabile però ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi strutturalmente per il necessario intervento del giudice e funzionalmente, da un lato, per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, con l’ordinanza di cancellazione dal ruolo e l’estinzione “sui generis” del processo, e, dall’altro, per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, il quale resta integralmente soggetto alla disciplina che gli è propria (Cass. Civ., n. 11677/1995, Trib. Roma 20/3/2018).

Lo stato della giurisprudenza sul tentativo di conciliazione del giudice.

Limiti temporali all’attività del giudice

Secondo il Tribunale di Milano il giudice ha come limite al suo potere di formulare la proposta transattiva e conciliativa la fase dell’istruzione, «L’art. 185-bis c.p.c. deve essere inteso nel senso che l’ufficio è tenuto alla proposta conciliativa/transattiva nella fase della trattazione (prima udienza) o nella fase dell’istruzione, ma, esaurita e chiusa l’istruttoria, non sussiste più per il giudice il potere dovere di formulare una ipotesi conciliativa o transattiva ai sensi e con gli effetti di cui all’art. 185-bis c.p.c.. Questo significato della norma è imposto: dalla sua interpretazione letterale, in quanto l’espressione “sino a quando è esaurita l’istruzione” indica esplicitamente come limite dell’attività del giudice di formulare i termini della transazione o della conciliazione quello della fase istruttoria; dall’interpretazione logico sistematica, in quanto stabilire il potere dovere del giudice di formulare, non potendo ciò avvenire se non in termini sufficientemente specifici e dettagliati, alle parti una ipotesi conciliativa o transattiva della controversia, in una fase in cui è già chiusa l’attività istruttoria e non resta che rimettere le parti alla decisione, significherebbe imporre al giudice di anticipare esplicitando il contenuto della ipotesi transattiva/conciliativa la sua probabile decisione finale, senza che agli atti possa sopravvenire alcun nuovo elemento istruttorio utilizzabile per la decisione» (Trib. Milano 3/7/2013).

I caratteri dell’accordo.

 

Ove le parti del processo aderiscano alla proposta conciliativa del giudice, formulata ex art. 185-bis c.p.c., il Tribunale può dichiarare estinto il giudizio, ratificando l’accordo conciliativo intervenuto che, se raccolto nel verbale di udienza, costituisce titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c (Trib. Nocera inferiore 7/11/2013)

Inoltre, in un successivo arresto, è stato affermato dalle coorti che la proposta del giudice deve avvicinarsi quanto più possibile a quella che sarebbe una sentenza allo stato degli atti, variandone però l’esito con sapienti prudenti integrazioni e correttivi, ispirati all’equità e all’obiettività dell’accordo conseguibile solo attraverso la prospettazione, ad ognuna delle parti, di un possibile vantaggio ricavabile dall’accordo rispetto alla sentenza (Trib. Roma 1/2/2016).

I rapporti tra Conciliazione e Mediazione obbligatoria

In attuazione dell’art. 185-bis c.p.c., il giudice adito può proporre alle parti di definire amichevolmente la lite e nel contempo ordinando alle parti, in caso di mancato accordo entro il termine indicato sulla proposta giudiziale formulata, l’esperimento del procedimento di mediazione, ponendo l’onere dell’avvio della procedura a carico della parte più diligente e avvisando entrambe le parti che, per l’effetto, il tempestivo esperimento del tentativo di mediazione sarà condizione di procedibilità della domanda giudiziale unitamente alla circostanza che – stante il giudizio sulla mediabilità della controversia già dato dal giudice – la mediazione non potrà considerarsi esperita con un semplice incontro preliminare tra i soli legali delle parti (Trib. Pavia 9/3/2015).

La responsabilità aggravata della parte che rifiuta la proposta conciliativa

Una recentissima pronuncia del giudice di merito chiarisce una volta per tutte le linee fondamentali dell’istituto, la ratio sottesa alla base di quest’ultimo e precisa quali sono gli eventuali strumenti “sanzionatori” a disposizione del giudice: «La previsione di cui all’art. 185 bis c.p.c., attribuendo al giudice un importante strumento che, dopo un attento studio del fascicolo, degli atti e delle prove assunte fino a quel momento, consente di formulare una proposta ragionata che mira ad anticipare criteri di giudizio e quantificazioni verosimilmente utilizzabili al momento della decisione, assolve ad un importante compito deflattivo mirato ad evitare che tutte le controversie debbano necessariamente concludersi con sentenza. In tal senso, sebbene le parti non sono tenute ad accettare la proposta giudiziale, qualora i criteri delineati con il provvedimento del giudice sono sostanzialmente confermati in sentenza, deve ritenersi che la parte che ha rifiutato la proposta ha di fatto causato il prolungamento dei tempi del giudizio con l’inutile protrazione della controversia e lo svolgimento di attività istruttoria che si sarebbe potuta evitare. Quanto innanzi comporta che la mancata accettazione della proposta giudiziale può configurare un’ipotesi di responsabilità processuale ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.» (Trib. Pistoia 30/01/2018).

La conciliazione nel rito del lavoro (art. 420 c.p.c.)

 

Nel rito del lavoro, l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. costituisce il fulcro dell’intero procedimento, rappresentando il momento in cui si svolge e si definisce la causa. Tuttavia, va osservato che nella prassi difficilmente il giudizio si esaurisce in un’unica udienza, sia perché la norma consente di fissare altre udienze in prosieguo, sia perché la giurisprudenza, a causa dell’elevato numero di cause in ciascuna udienza, ha interpretato in modo non rigoroso l’ultimo comma che vieta udienze di mero rinvio.

L’udienza di discussione è comunque tendenzialmente unica e in essa la dottrina distingue tre fasi: quella preliminare, quella istruttoria e quella decisoria (Montesano, Vaccarella).

Proprio nella fase preliminare, l’art. 420 c.p.c. prevede che il giudice «tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa» e che «La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».

Tale ultimo disposto ricalca perfettamente quanto era previsto dall’art. 185-bis c.p.c. nella sua versione originaria e poi eliminato in sede di conversione in legge.

In altre parole, a differenza del rito ordinario, nel rito del lavoro si esplicita chiaramente l’applicabilità della sanzione processuale prevista dall’art. 91 c.p.c.

Infatti, è agibile comprendere come, in caso di rifiuto della proposta conciliativa, nella valutazione del comportamento delle parti compiuta dal giudice “ai fini del giudizio”, la ripartizione delle spese processuali sia sicuramente uno dei parametri di riferimento.

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