(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 512-bis)
Il fatto
Il Tribunale di Catanzaro, in riforma dell’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere del giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, annullava il titolo cautelare in relazione al reato associativo (art. 416 bis cod. pen., capo a) ascritto a M. J. P. e confermato la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui agli artt. 512 bis e 416 bis.1 cod. pen. (capo Q), sostituendo la misura inflitta con quella degli arresti domiciliari.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Il difensore dell’indagato impugnava il provvedimento summenzionato adducendo i seguenti motivi: 1) violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. poiché l’ordinanza del Tribunale si era discostata dalla contestazione ascritta con la provvisoria imputazione; 2) violazione di legge in relazione all’art. 512 bis cod. pen. poiché nessuna indagine era stata compiuta onde accertare, in funzione della necessaria tipizzazione dell’illecito, la provenienza delle risorse economiche impiegate nelle operazioni economiche e patrimoniali della società e della finalità di eludere l’applicazione di misure patrimoniali; 3) violazione di legge in relazione all’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. e vizio di motivazione sul dolo specifico di favorire l’associazione richiesto dall’aggravante de qua; 4) violazione di legge, in relazione all’art. 274 cod. proc. pen. e vizio di motivazione per la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari; 5) violazione di legge in relazione all’art. 512 bis cod. pen., 25, comma 2 e 13 Cost., 14 preleggi e art. 7 CEDU per effetto della estensione, attraverso l’istituto del concorso esterno, della punibilità dell’intestatario che non è prevista dalla fattispecie incriminatrice.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
L’ordinanza impugnata, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, veniva annullata con rinvio e tale esito assorbiva l’esame dei motivi di ricorso relativi alla sussistenza della contestata aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. e delle esigenze cautelari mentre, invece, erano reputati manifestamente infondati il primo e l’ultimo motivo di ricorso.
Si osservava a tal riguardo come lo stesso ricorrente, con il primo motivo di ricorso, avesse richiamato, senza indicare elementi significativi per discostarsene, l’orientamento della Cassazione, dettato in materia di misure cautelari reali ma applicabile anche alle misure personali, a stregua del quale la funzione di controllo attribuita al giudice del riesame, se pure consente di confermare il provvedimento impositivo anche per ragioni diverse da quelle indicate nel provvedimento stesso, trova un limite nella correlazione ai fatti posti a fondamento della misura cautelare che non possono essere sostituiti o integrati da ipotesi accusatorie autonomamente formulate dal tribunale in base a dati di fatto del tutto diversi, spettando tale potere di impulso esclusivamente al pubblico ministero (Sez. 2, n. 47443 del 17/10/2014 – dep. 18/11/2014).
Oltre a ciò, veniva fatto presente come non fossero state spiegate, a fronte della compiuta e complessiva analisi condotta dal Tribunale sulle modalità e conclusione dell’operazione economica, le ragioni per le quali la ricostruzione del Tribunale si sarebbe risolta nella formulazione di un’autonoma ipotesi investigativa.
Ciò posto, veniva parimenti stimato privo di fondamento l’ultimo motivo di ricorso rilevandosi a tal proposito – una volta osservato come la giurisprudenza di legittimità avesse esaminato, nella vigenza dell’art. 12-quinquies d.l. 306 del 1992, oggi codificato nell’art. 512 bis cod. pen., il tema della punibilità del soggetto che si renda fittiziamente titolare di beni precisando che questi risponde a titolo di concorso nella stessa figura criminosa posta in essere da chi operato la fittizia attribuzione (Sez. 2, n. 2243 del 11/12/2013 – dep. 2014) e che il reato in esame si connota, ontologicamente, come reato a concorso necessario nel quale alla figura dell’agente che realizza la fittizia intestazione corrisponde quella dell’agente che tale fittizia intestazione realizza – che il delitto di trasferimento fraudolento di valori già previsto d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 quinquies, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, integra un’ipotesi di reato a forma libera la cui caratteristica fondamentale è la consapevole determinazione di una situazione di difformità tra titolarità formale dei beni, soltanto apparente, e titolarità di fatto, qualificata dalla specifica finalizzazione, la cui consumazione, istantanea con effetti permanenti, si verifica allorché venga realizzata l’attribuzione fittizia (ex multis, Sez. 1, n. 14373 del 28/02/2013) fermo restando che imprescindibile caratteristica del reato in esame, è, sotto il profilo soggettivo, la finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniale il che la distingue da una altrimenti consentita e lecita situazione di simulazione di rilievo civilistico e si realizza all’atto dell’attribuzione ad altri di denaro, beni o altre utilità essendo quindi richiesta una vicenda negoziale con effetti traslativi che soltanto all’apparenza faccia acquisire a terzi la titolarità o la disponibilità del bene, in realtà rimasto nel patrimonio e sotto il controllo del soggetto apparente cedente tenuto conto altresì del fatto che la giurisprudenza della Cassazione ammette, peraltro, che il trasferimento di valori o di denaro possa avvenire in relazione ad un’attività economica già in essere posto che è stato ritenuto che il delitto de quo, quando è riferito ad una attività imprenditoriale, si può configurare, non solo con riferimento al momento iniziale dell’impresa, ma anche in una fase successiva, allorquando in un’impresa o società sorta in modo lecito si inserisca un terzo quale socio occulto, che avvalendosi dell’interposizione fittizia persegua le finalità illecite previste dall’art. 12 quinquies cit. (Sez. 2, n. 5647 del 15/01/2014) specificando ulteriormente che l’interposizione fittizia ricorre anche quando sia riferibile solo ad una quota del bene in oggetto (Sez. 2, n. 23131 del 08/03/2011) sempreché però si tratti pur sempre di operazione volta ad attribuire fittiziamente nuove utilità e diretta ad uno scopo elusivo.
Orbene, in relazione a quanto previsto da tali criteri ermeneutici, gli Ermellini notavano come, nel caso di specie, la fattispecie in contestazione si sarebbe consumata attraverso l’uso di capitali ed apporti dell’indagato e, secondo l’ordinanza impugnata, tale conclusione sarebbe stata rafforzata dalla circostanza che costui non avrebbe mancato di concorrere alla gestione dell’azienda in occasione di vicende che la coinvolgevano, con il rischio di perdite connesse ai sequestri ovvero addirittura presidiandone la sicurezza.
Precisato ciò, gli Ermellini rilevavano, sempre sotto il versante nomofilattico, come fosse stato altresì precisato che, per integrare il delitto in questione, è necessario che la condotta sia idonea a conseguire effetti di sottrazione del denaro o dei valori alla normativa sulle misure di prevenzione ed alla possibilità della sua applicazione: al giudice che ne affermi la sussistenza compete indicare gli elementi di fatto dimostrativi della capacità elusiva dell’operazione e dunque si è ritenuto, per un verso, imprescindibile, in relazione alle contestazioni di intestazione fittizia, che riguardavano il reale beneficiario dell’operazione, di individuare la rintracciabilità nel caso concreto dei presupposti applicativi di misure quali il sequestro e la confisca di prevenzione che può essere disposta quando la persona indiziata del reato di appartenenza ad associazione mafiosa non possa giustificare la legittima provenienza dei beni di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, per altro verso, che la configurabilità del delitto di fittizia intestazione di beni postula necessariamente che l’operazione negoziale attenga a soggetti ed a beni suscettibili di confisca a titolo di misura di prevenzione patrimoniale: in assenza di tale presupposto oggettivo difetta l’elusione delle disposizioni normative e la finalità perseguita resta sul piano dell’irrilevanza. In altre parole, l’art. 12 quinquies cit. deve essere interpretato nel senso che la fittizia intestazione deve essere oggettivamente idonea ad eludere la normativa in misura di prevenzione e deve essere, inoltre, sorretta dal dolo specifico descritto dalla fattispecie (cfr. Sez. 1, n. 29526 del 27/06/2013).
Tal che se ne faceva conseguire come la disamina giudiziale in oggetto non potesse arrestarsi alla mera constatazione dell’avvenuta interposizione ma dovesse estendersi all’apprezzamento di ulteriori elementi di fatto, indicativi della capacità elusiva dell’operazione patrimoniale e tale presupposto, ad avviso del Collegio, concerneva non solo la individuazione della condotta, in capo al soggetto che realizza, per proprie finalità elusive, la fittizia intestazione ma, come nella fattispecie in esame, anche il soggetto che, secondo la ricostruzione accusatoria, tale fittizia intestazione realizza attraverso la intestazione del bene: oggetto di ricostruzione è, dunque, l’operazione economica a monte e la sua fittizietà, anche nel caso in cui la contestazione sia ascritta al necessario concorrente dell’intestatario reale.
Ebbene, in relazione a quanto appena esposto, si osservava che, come correttamente rilevato dal ricorrente, la motivazione dell’ordinanza non chiariva adeguatamente i presupposti di applicazione della norma dal momento che, in presenza dell’allegazione di elementi documentali attinenti alle vicende societarie ed alla gestione economica prodotti dalla difesa dinanzi al Tribunale del riesame, l’ordinanza era, ad avviso della Suprema Corte, del tutto silente.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui viene spiegato cosa è necessario per integrare il delitto di trasferimento fraudolento di valori attualmente preveduto dall’art. 512-bis cod. pen. (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter, è punito con la reclusione da due a sei anni”).
Difatti, in tale pronuncia, viene chiarito tale aspetto giuridico attraverso la formulazione, citandosi precedenti conformi, del principio di diritto secondo il quale il delitto di trasferimento fraudolento di valori integra un’ipotesi di reato a forma libera la cui caratteristica fondamentale è la consapevole determinazione di una situazione di difformità tra titolarità formale dei beni, soltanto apparente, e titolarità di fatto, qualificata dalla specifica finalizzazione, la cui consumazione, istantanea con effetti permanenti, si verifica allorché venga realizzata l’attribuzione fittizia fermo restando che imprescindibile caratteristica del reato in esame, è, sotto il profilo soggettivo, la finalità di elusione delle misure di prevenzione patrimoniale essendo quindi richiesta una vicenda negoziale con effetti traslativi che soltanto all’apparenza faccia acquisire a terzi la titolarità o la disponibilità del bene, in realtà rimasto nel patrimonio e sotto il controllo del soggetto apparente cedente tenuto conto altresì del fatto che il trasferimento di valori o di denaro possa avvenire in relazione ad un’attività economica già in essere.
Ciò posto, a sua volta al giudice che ne affermi la sussistenza compete indicare gli elementi di fatto dimostrativi della capacità elusiva dell’operazione nel senso che, per un verso, è imprescindibile, in relazione alle contestazioni di intestazione fittizia, che riguardavano il reale beneficiario dell’operazione, di individuare la rintracciabilità nel caso concreto dei presupposti applicativi di misure quali il sequestro e la confisca di prevenzione che può essere disposta quando la persona indiziata del reato di appartenenza ad associazione mafiosa non possa giustificare la legittima provenienza dei beni di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, per altro verso, la configurabilità del delitto di fittizia intestazione di beni postula necessariamente che l’operazione negoziale attenga a soggetti ed a beni suscettibili di confisca a titolo di misura di prevenzione patrimoniale posto che, in assenza di tale presupposto oggettivo, difetta l’elusione delle disposizioni normative e la finalità perseguita resta sul piano dell’irrilevanza.
Tale decisione, quindi, può essere presa nella dovuta considerazione al fine di accertare la sussistenza o meno di questo illecito penale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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