Come ampiamente documentato dalla stampa, i risultati che la riforma sull’istituto premiale di cui all’art. 54 citato si propone di conseguire sono molteplici.
Il primo dei quali ed il più immediato è costituito dall’obiettivo di ridurre l’ attuale carico dei tribunali di sorveglianza, che, allo stato, non consente di rispondere in tempi accettabili alle istanze di misure alternative alla detenzione, formulate tanto da soggetti detenuti quanto dai condannati in stato di libertà ( i c.d. “liberi sospesi”, per i quali la norma dell’art. 656 comma 5 c.p.p. prevede la sospensione dell’ordine di carcerazione da parte del PM in attesa dell’istanza del condannato per l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione)
L’attuale stato delle cose, connotato da notevoli ritardi nella trattazione dei procedimenti di competenza dei tribunali di sorveglianza, confligge con l’elementare principio di buona amministrazione della giustizia, che vorrebbe la trattazione in tempi ragionevoli, da parte dei competenti organi di giustizia, delle domande ad essi formulate da parte degli interessati.
Appare inoltre evidente il presente insanabile contrasto sia con il principio sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione – il quale stabilisce che la pena deve avere finalità rieducativa – quanto con il corollario enunciato della Corte Costituzionale (sent. 74/204), secondo cui sussiste, in capo ai soggetti condannati, il diritto a che un giudice verifichi se “la quantità della pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo”poiché, se la rieducazione del reo è completa, la potestà punitiva dello Stato non ha più ragione di essere ulteriormente protratta.
E’ evidente infatti che, se tale vaglio del giudice di sorveglianza avviene in prossimità del termine di espiazione della condanna ovvero viene addirittura pretermesso, come attualmente accade sovente a causa del rilevantissimo numero di procedimenti incardinati, è, di fatto, vanificato il contenuto sostanziale del precetto costituzionale sopra ricordato, o almeno della parte più coraggiosa e importante dello stesso, che presuppone la porgressiva attuazione del principio rieducativo del reo anche attraverso l’accesso dei condannati alle articolate forme di esecuzione penale esterna.
L’attuale sovraccarico dei tribunali di sorveglianza, comporta invece che, in molti casi la concessione della liberazione anticipata nella stessa udienza fissata per la trattazione dell’istanza di misura alternativa, porta il condannato al fine-pena ovvero avvicina a tal punto il termine dell’esecuzione che le eventuali misure alternative concesse non hanno, all’atto pratico, modo di esplicarsi per un periodo di tempo congruo alle finalità risocializzanti che l’ordinamento penitenziaro ad esse assegna.
L’ambizioso traguardo che la riforma si propone di realizzare, una volta a regime, è dunque, primariamente ,quello di una maggiore tendenziale correntenzza nelle procedure volte al riconoscimento dei benefici penitenziari ai detenuti, contribuendo, almeno nelle intenzioni, ad una migliore applicazione del principio di rieducazione della pena, sancito dall’art. 27, comma 3 della Carta costituzionale.
La seconda, importante, novità recata dalla legge n. 277/02 è senz’altro rappresentata dalla consacrazione normativa della massima estensione possibile del beneficio della liberazione anticipata.
La nuova legge estende infatti la concedibilità della riduzione di pena attinge ora esecuzioni penali relative a soggetti la cui vicenda esecutiva gravita completamente nell’area penale esterna (affidati in prova al servizio sociale), così esaltando la valenza rieducativa dell’istituto,che fa in tal modo premio sul mero scopo di mantenimento della disciplina interna agli istituti di pena per il quale la riduzione di pena era stata in origine concepita.
Lo strumento precisamente individuato dal legislatore a tal fine è il riconoscimento del beneficio della liberazione anticipata anche a soggetti liberi, quali precisamente gli affidati in prova al servizio sociale, in relazione alla pena espiata in tale regime alternativo alla detenzione (artt. 3 e 4 della legge 277/02 ).
La riforma della liberazione anticipata ha inciso dunque sul quadro della disciplina preesistente in modo profondo e articolato.
Gli aspetti caratterizzanti la trama normativa che compone la nuova disciplina della liberazione anticipata possono essere sintetizzati nei termini seguenti:
1)Anzitutto, l’art.1 della legge 277/02 sostituisce il comma 8 dell’art.69 L. 354/75, con il seguente testo :” [il magistrato di sorveglianza] provvede con ordinanza sulla riduzione di pena per la liberazione anticipata e sulla remissione del debito, nonché sui ricoveri previsti dall’art. 148 del codice penale”.
L’art.69 citato, rappresenta com’è noto, la “carta d’identità del magistrato di sorveglianza”, dal momento che contiene l’elenco delle materie attribuite alla competenza del citato organo giurisdizionale monocratico.
La competenza a decidere sulla concessione del beneficio viene, dunque, trasferita dall’assise collegiale ( il tribunale di sorveglianza, secondo il precedente quadro delle competenze stabilito dall’art. 70 O.P., ora modificato dall’art.2 della riforma) alla competenza dell’organo giurisdizionale.
Si vuole così perseguire la ricordata finalità di alleggerire l’attuale carico dei tribunali di sorveglianza (rappresentato, per circa il 40% del totale dei procedimenti iscritti, proprio da procedimenti per la concessione della liberazione anticipata), trasferendo detto oneroso carico sugli uffici di sorveglianza distrettuali.
La legge in rassegna consegue indubbiamente un apprezzabile risultato sul piano della conguenza interna dell’istitituto liberatorio (esteso all’unica misura alternativa che ne era finora esclusa: appunto, l’affidamento in prova al servizio sociale).
Essa paga, tuttavia, un significativo tributo sul versante delle garanzie processuali delle parti, in rapporto ad un istituto che può portare – in caso di esito favorevole al condannato – alla concessione di una riduzione di pena tale da incidere in modo determinante sull’aspetto quantitativo della potestà punitiva dello Stato: basti, infatti, riflettere come la riduzione di pena attualmente prospettata (45 giorni di “sconto” per ogni semestre di pena espiata) è suscettibile di elidere fino a un quarto della pena definitiva complessivamente irrogata al condannato, equivalendo pertanto, in termini di beneficio, alla concessione di un’attenuante da parte del giudice della cognizione.
Quanto al primo aspetto evidenziato, quello cioè della consonanza della liberazione anticipata “riformata” rispetto ai principi ricavabili dal tessuto normativo preesistente su cui si è innestata, va osservato – come già accennato – che il legislatore della legge n. 277/02 ha dilatato la concedibilità della riduzione premiale fino al punto di massima estensione possibile, compatibile con il mantenimento dei principi fondamentali in tema di certezza della pena e di tendenziale intangibilità del giudicato penale, consentendone l’applicabilità anche a soggetti non sottoposti a detenzione ordinaria in carcere.
In effetti, che il beneficio della riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata fosse concedibile soltanto a soggetti in stato di detenzione ed in rapporto a semestri espiati in regime di detenzione ordinaria è stato un principio ritenuto per lungo tempo intangibile tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Quest’ultima aveva infatti compiuto limitate aperture soltanto in rapporto alla misura alternativa della semilibertà (Cass.,I, 7.4.94, n.1299), mentre per ciò che concerne la detenzione domiciliare aveva provveduto lo stesso legislatore della legge n. 663/86 (c.d. “legge Gozzini”).
In particolare, era escluso il riconoscimento della riduzione di pena di cui all’art. 54 O.P. a soggetti sottoposti alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, sulla base della considerazione che , svolgendosi tale misura al di fuori del contesto carcerario istituzionale, non fosse possibile formulare alcuna valutazione in ordine alla partecipazione del condannato al trattamento, così come richiesto dall’art. 54 O.P. (Cass.,I, 7.4.94; Cass.,I, 7.9.94).
La dottrina che si è occupata dell’istituto in esame ha però affrontato la questione sotto il profilo della ratio che pervade il beneficio, collocato dal legislatore nel capo VI della legge 354/75, in seno alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, giungendo così – già nella vigenza del precedente quadro normativo – a conclusioni opposte a quelle cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità.
E’ stato rilevato, infatti, come l’evoluzione dell’originario istituto, concepito dal legislatore del 1975 soprattutto quale strumento di pacificazione carceraria, abbia portato la liberazione anticipata – soprattutto a partire dalle modifiche intervenute per effetto della ” legge Gozzini” – ad acquisire caratteristiche maggiormente pervase dal finalismo rieducativo, connotate cioé dalla sempre più evidente proiezione verso l’esterno del carcere, quale prodromo alla concessione delle più ampie misure alternative alla detenzione.
Sintomatiche di questa evoluzione/trasformazione della liberazione anticipata possono considerarsi – in primo luogo – l’estensione quantitativa del beneficio concedibile (dagli originari 20 agli attuali 45 giorni per semestre di pena espiata); quindi l’accentuazione della formula prescrittiva del dettato normativo (la riduzione di pena,ricorrendone i presupposti, attualmente “è concessa” in luogo dell’originario “può essere concessa”); da ultimo, l’indicazione normativa introdotta nell’art. 54 O.P. secondo cui la concessione del beneficio al condannato è riconosciuta “ai fini del suo più efficace reinserimento nella società”.
La giurisprudenza, pur prendendo atto, in rapporto alla questione della concessione della riduzione di pena ex art. 54 O.P. relativa a semestri espiati in detenzione domiciliare, dell’accentuata finalità di reinserimento sociale acquisita dall’istituto ( di tal che doveva essere valutato, nel caso del detenuto domiciliare, non più l’adesione al trattamento penitenziario – ovviamente non praticato nei riguardi dei detenuti domiciliari – bensì il quadro delle manifestazioni sintomatiche della volontà di reinserimento sociale del condannato, quali l’espletamento di attività lavorativa ovvero il puntuale rispetto delle prescrizioni: Cass.,I, 22.2.94, n. 89), non ha mai compiuto il passo logico successivo: l’ammettere, cioè, l’estensione dell’istituto premiale ai casi di affidamento in prova al servizio sociale o alla libertà vigilata applicata in seguito alla concessione della liberazione condizionale (art. 176 c.p.).
La giurisprudenza di legittimità , anzi, ha sempre concordemente escluso detta possibilità (Cass.,I, 20.1.93, n. 5000; Cass.,I, 22.2.95, n. 828) fondandosi sulla considerazione che in relazione alle suddette ipotesi difetterebbe qualsivoglia attività trattamentale e, conseguentemente, la possibilità di valutare l’attività partecipativa del condannato.
Il legislatore, con la legge 277/02 ha, invece, preso una decisa posizione in favore della tesi minoritaria di quanti ritenevano che il percorso evolutivo dell’istituto della liberazione anticipata verso l’accentuazione della finalità di reinserimento sociale e l’estensione dell’applicabilità del beneficio, ammessa ex lege per i soggetti in detenzione domiciliare, consentisse già nella previgente disciplina la possibilità di estendere il beneficio alla fascia dei condannati in espiazione della pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale.
Quanto al secondo profilo considerato, il ravvisato vulnus alle garanzie defensionali del condannato, esso pare trovare fondamento alla luce del nuovo art. 69 bis che il legislatore ha introdotto nel corpo della L. 354/75 (cfr. art. 1, comma 2, legge 277/02).
Il testo della norma citata, infatti, così recita:”1. Sull’istanza di concessione della liberazione anticipata, il magistrato di sorveglianza provvede con ordinanza adottata in camera di consiglio senza la presenza delle parti, che è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale.2.Il magistrato di sorveglianza decide non prima di quindici giorni dalla richiesta del parere al pubblico ministero, e anche in assenza di esso.3.Avverso l’ordinanza di cui al comma 1 il difensore, l’interessato e il pubblico ministero possono, entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione, proporre reclamo al tribunale di sorveglianza competente per territorio.4.Il tribunale di sorveglianza decide ai sensi dell’art. 678 del codice di procedura penale.Si applicano le disposizioni del quinto e del sesto comma dell’articolo 30 bis.” .
Con tale ultima previsione, la nuova legge prevede opportunamente che del collegio giudicante non faccia parte il magistrato di sorveglianza che ha emesso l’oridinanza impugnata (art. 30 bis commi 5 e 6 O.P.).
Emerge chiaramente dall’esame della disposizione sopra riportata come il legislatore abbia modellato un procedimento camerale dalla peculiare disciplina, caratterizzato com’é dall’assenza di effettivo contraddittorio tra le parti e dalla pronuncia del magistrato di sorveglianza attraverso un provvedimento (che viene qualificato sotto il nomen iuris di ordinanza) che è “comunicato o notificato senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale” ai fini dell’eventuale successiva impugnazione (nelle forme del reclamo) all’istanza sovraordinata (tribunale di sorveglianza).
Il contraddittorio nella procedura descritta dall’art. 69 bis O.P. é dunque sostanzialmente assente di fronte al magistrato di sorveglianza: la norma si premura infatti di inserire il richiamo alle norme sul procedimento di sorveglianza soltanto con riferimento al procedimento di reclamo celebrato davanti al tribunale di sorveglianza.
E’ pur vero che la disposizione di nuova introduzione non vieta comunque alle parti la produzione di memorie, di tal che si realizzerebbe una possibilità di interloquire – quantomeno a livello documentale – con l’organo giudiziario deputato alla decisione.
Peraltro, una lettura sistematica della normativa induce seri dubbi su tale possibilità.
Infatti, la facoltà per le parti del procedimento camerale di produrre memorie è prevista dall’art. 666, comma 3, c.p.p.
Tale norma procedurale è richiamata dal testo vigente dell’art. 678, che estende l’applicazione della procedura camerale sopra indicata ai procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza e ad una serie di materie attribuite alla cognizione del magistrato di sorveglianza, tra le quali non figura però la liberazione anticipata.
Dunque, può legittimamente revocarsi in dubbio che le parti possano depositare presso la cancelleria del magistrato di sorveglianza memorie o note difensive, non essendovi alcuna norma che lo consenta ed essendo difficilmente praticabile la strada dell’estensione in via interpretativa della disciplina dell’art. 666 c.p.p. al procedimento introdotto dall’art. 69 bis O.P.: infatti, dove il legislatore della riforma ha voluto mantenere la procedura di cui alle norme del codice di procedura penale, lo ha espressamente indicato (cfr. art. 69 bis comma 4), e pertanto l’omissione di analoga previsione con riferimento al giudizio di fronte al magistrato di sorveglianza non può essere integrata in via interpretativa, anche perché una tale operazione sembra contraria alla ratio legis di conferire la massima speditezza possibile al procedimento di concessione della liberazione anticipata quantomeno in prime cure.
Il mancato raccordo della riforma della liberazione anticipata con le norme del rito processuale penale non consente peraltro alle parti di avere conoscenza dei tempi della procedura.
Infatti, una volta che l’interessato abbia formulato l’istanza al magistrato di sorveglianza, questi non è tenuto a dare notizia alle parti dell’inizio del procedimento, incombendogli l’unico, limitato, onere di formulare la richiesta al PM per il parere sull’istanza.
E’ difficile comprendere, del resto, come il PM potrà rendere il citato parere, non avendo disponibilità del fascicolo e non essendovi più la tradizionale illustrazione del giudice relatore in camera di consiglio.
In ogni caso, il legislatore mostra di non tenere in grande conto la valenza del predetto parere, poiché consente ed anzi sembra implicitamente imporre al magistrato di sorveglianza, decorsi quindici giorni dallla richiesta, di decidere prescindendone.
E’ facile, allora, prevedere che , nella prassi, anche la parte pubblica, già tradizionalmente marginalizzata nella fase dell’esecuzione penitenziaria ed oberata da altre incombenze, si ritirerà di fatto dal procedimento monocratico, omettendo di formulare il parere facoltativo richiestogli.
In definitiva, ne consegue che, anche a ritenere ammissible che le parti abbiano la facoltà di presentare al giudice memorie o scritti difensivi, in realtà esse non saranno mai messe nelle condizioni di interloquire efficacemente, nemmeno con il mezzo scritto, per il motivo che non avranno contezza del procedimento se non nel momento in cui questo sarà definito con la pronuncia dell’ordinanza magistratuale.
La lacuna, in termini di garanzie difensive, sotto il duplice profilo sopra rilevato, è grave ed evidente.
Con specifico riferimento alla rilevata assenza di contraddittorio nella sequenza procedimentale che esita nella decisione del magistrato di sorveglianza, non è, infatti, possibile nemmeno sostenere la tesi del mero differimento della garanzia del contraddittorio pieno alla fase succesiva al procedimento incardinato presso il magistrato monocratco: che verrebbe – quest’ultima – a costituire, in altri termini, una sorta di “fase cautelare” o sub-procedimentale rispetto al procedimento di sorveglianza celebrato avanti al tribunale di sorveglianza successivamente all’impugnazione dell’interessato o del PM.
Tale impostazione non può, invero, ritenersi corretta per il motivo che il momento processuale, imperniato sull’udienza avanti al tribunale di sorveglianza, è prefigurato dalla legge quale scansione meramente eventuale rispetto al primo procedimento: essa viene attivata, appunto, soltanto in seguito a reclamo contro l’ordinanza del magistrato di sorveglianza.
Non vi è, peraltro, nemmeno alcun rapporto di necessaria interdipendenza tra le due fasi procedimentali, bensì una semplice – e soltanto possibile – propedeuticità.
Il procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. non può, in altri termini, essere giuridicamente inquadrato quale fattispecie a formazione progressiva, dove il pronunciamento del magistrato si colloca quale dato presupposto in relazione al successivo completamento della sequenza procedimentale da parte dell’organo collegiale, come avviene, ad esempio, nelle fattispecie previste in tema di concessione della sospensione della pena da parte del magistrato di sorveglianza (art.47 comma 4 L.354/75) ovvero dell’applicazione del differimento dell’esecuzione della pena (art. 684 c.p.p.).
Ad ogni effetto, infatti, la decisione del magistrato di sorveglianza si perfeziona scaduti i termini per la proposizione dell’impugnazione, senza che sia necessaro alcun intervento ulteriore a perfezionare la validità ed efficacia dell’atto decisorio in esame.
Neppure pare possa fondatamente sostenersi la natura amministrativa del procedimento camerale presso il magistrato di sorveglianza, ciò che giustificherebbe – forse – la compressione delle garanzie in termini di contraddittorio processuale (a somiglianza, ad esempio, di quanto avviene nel caso dei procedimenti per la concessione dei permessi ai detenuti, in rapporto ai quali la garanzia del procedimento di sorveglianza ai sensi dell’art. 678 c.p.p. è assicurata soltanto nella fase – eventuale – del reclamo avanti al tribunale di sorveglianza ai sensi degli artt. 30 bis e ter O.P.) .
Infatti, la concessione della liberazione anticipata non soltanto è estranea alla gestione del detenuto sotto l’aspetto amministrativo o meramente trattamentale (peraltro, la previsione della concedibilità del beneficio agli affidati al servizio sociale ne è la più evidente conferma), ma incide direttamente sulla vicenda del rapporto esecutivo penale, e dunque, sulla libertà personale.
La natura giurisidzionale del procedimento di concessione del beneficio è dunque conseguenziale a quanto sopra rilevato, oltre che avvalorato dall’argomento storico, costituito dal previgente tenore della norma di cui all’art. 70 O.P., che attribuiva i procedimenti ex art. 54 O.P. alla cognizione del tribunale di sorveglianza che decideva seguendo le regole del rito processuale (art.678 c.p.p.).
Secondo l’orientamento dottrinale maggiormente accreditato, inoltre, la concessione della liberazione anticipata, una volta accertata la sussistenza dei presupposti di legge, costituisce un vero e proprio diritto per il condannato (v. infra).
Se ne deve forzatamente concludere l’incompatibilità del procedimento, così come disegnato dall’art. 69 bis O.P., rispetto al principio della garanzia del contraddittorio pieno e paritario sancita dalla formulazione dell’art. 111, comma 2, Cost. e del diritto difesa (art.24, comma 2 , Cost.) .
Peraltro, sia pure ovviamente in rapporto a tutt’altra fattispecie e incidenter, la Corte costituzionale ha di recente richiamato il principio secondo il quale “la regola del contraddittorio, nella sua accezione di previa audizione del soggetto interessato,…nel nostro Stato democratico si eleva a principio di tendenziale osservanza in tutti i casi in cui il provvedimento sia suscettibile di incidere su situazioni soggettive”(Corte cost. , sent. n. 457 del 15.11.02).
Tale ravvisata dissonanza con i principi costituzionali emerge in tutta la sua evidenza qualora si ponga attenzione alla ravvisata natura giurisdizionale dell’attività del magistrato di sorveglianza nel momento in cui conosce dei procedimenti di cui all’art. 69 bis O.P., ed alla natura, altresì, del beneficio penitenziario nella specie concesso o rifiutato: si tratta, quest’ultimo, di un vero e proprio diritto del condannato una volta accertati i presupposti di legge e tale, se concesso, da incidere immediatamente sulla pena in espiazione e, dunque, sulla libertà personale del soggetto.
Sotto quest’ultima prospettiva il vulnus defensionale appare – se possibile – ancor più grave poiché la legge non prevede l’assistenza tecnica del difensore .
Quest’ultimo è dunque una figura meramente eventuale del procedimento monocratico, poiché l’art.69 bis O.P. prevede la necessità della difesa tecnica soltanto in rapporto alla fase dell’impugnazione avanti al tribunale di sorveglianza.
Dallo stesso tenore della formulazione letterale dell’art. 69 O.P. pare comunque escludersi la possibilità – come già osservato – di interpretare la norma nel senso dell’applicabilità, ai procedimenti di cui all’art. 69 bis, della procedura camerale di cui agli artt. 666,678 c.p.p. ovvero di quello disciplinato dall’art. 14 ter O.P. , così da salvare – sotto il rilevato profilo – la conformità costituzionale della norma in esame.
La seconda possibilità è, infatti, esclusa in radice dallo stesso legislatore che ubi voluit, dixit, e che, al comma 6, dell’art. 69 O.P. elenca i procedimenti in relazione ai quali il magistrato di sorveglianza decide osservando la procedura di cui all’art. 14 ter (si tratta, com’è noto, dei procedimenti conseguenti a reclamo nei confronti delle decisioni della direzione dell’istituto penitenziario concernenti il lavoro intramurario e alcuni aspetti dell’esercizio del potere disciplinare).
Ma anche la prima possibilità è preclusa dalla volontà del legislatore, che ha omesso di modificare nel senso indicato gli artt. 666 e 678 c.p.p., inserendo tra le materie oggetto di decisione con il rito processuale camerale anche i procedimenti di cui all’art. 69 bis O.P. .
Sotto altro profilo, è poi evidente la perdita di garanzie causata dal passaggio della competenza in tema di liberazione anticipata dall’organo collegiale a quello monocratico.
E’ovvia, a tal proposito, la considerazione del maggior tasso di ponderatezza verosimilmente raggiungibile in esito alla discussione collegiale in camera di consiglio rispetto al portato della decisione – per quanto equilibrata e serena – del giudice monocratico; senza contare che quest’ ultimo procede, come già osservato, in totale assenza di contraddittorio, che viene differito – quasi rappresentasse un dato trascurabile della dinamica processuale – alla successiva ed eventuale fase dell’impugnazione davanti al tribunale di sorveglianza.
Ciò priva il giudicante del prezioso apporto sia istruttorio che argomentativo che solitamente perviene dall’esperimento delle dinamiche processuali tipiche del contradditorio (anche se semplificato dal rito camerale ordinario ).
Accrescono le rilevate perplessità sulla compatibilità costituzionale e sistematica di tale ravvista caduta verticale di garanzie difensive due ulteriori elementi di novità rispetto alla disciplina previgente, introdotti dalla nuova legge e riscontrabili dal raffronto, rispettivamente, tra il testo dell’art. 678 c.p.p. e quello dell’art. 69 bis O.P; nonché dall’esame comparato dell’art.54 O.P. con la nuova norma introdotta di cui all’art. 47 comma 12 bis, O.P. (art. 3 legge 277/02).
Sotto il primo aspetto considerato, la norma del codice processuale penale ammetteva che il procedimento di concessione della liberazione anticipata potesse essere avviato per iniziativa ufficiosa ( in omaggio alla visione del giudice di sorveglianza quale figura giurisdizionale di mediazione e filtro tra realtà penitenziaria e prospettive risocializzanti offerte ai detenuti, dei quali il magistrato di sorveglianza è altresì il “ombudsman”:cfr. art. 69, commi 2 e 5 O.P.).
La nuova disciplina pare escludere tale possibilità , laddove, al suo primo comma, lascia chiaramente intendere che il magistrato di sorveglianza procede “sull’istanza” di parte.
Appare, premessa tale considerazione, illogico aver sottratto la concessione della liberazione anticipata all’autonomo impulso del giudice di sorveglianza (che avrebbe forse meglio giustificato, in quanto verosimilmente attivato pro reo, la carenza di garanzie defensionali) ed avere, al contempo, sottratto alla parte cui si attribuisce l’iniziativa esclusiva ogni possiblità di interloquire efficacemente con l’organo decidente.
Ulteriore elemento distonico con il drastico ridimensionamento delle garanzie defensionali determinato dalla nuova normativa è rappresentato dalla considerazione, già sopra svolta, che il beneficio della liberazione anticipata, così come disciplinato dall’art. 54 O.P., è concepito nei termini di un vero e proprio diritto dell’interessato alla concessione della riduzione di pena prevista dalla legge, una volta che il giudice accerti l’effettiva sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti dalla stessa previsti.
In altri termini, deve ritenersi che il tribunale di sorveglianza non disponga di apprezzamento discrezionale nella fase di concessione del beneficio, successivamente all’esaurimento, in senso favorevole al richiedente, della fase dell’accertamento dei presupposti normativi.
Tale ricostruzione dell’istituto è confortata dalla rammentata ratio della modifica dell’art. 54 citato, intervenuta per effetto dell’art.18 della legge 10 ottobre 1986, n.663 (c.d. legge Gozzini), che ha sostituito la dizione dell’art.54 “[la liberazione anticipata] può essere concessa” con quella “è concessa”, così accentuando, in piena conformità alla ratio del legislatore del 1986, la portata premiale del beneficio e lo spessore dei “diritti dei detenuti” di cui fa menzione il già ricordato art. 69 O.P. .
Peraltro, l’art.47, comma 12 bis, O.P., introdotto dalla riforma, prefigura invece il ritorno, sia pure con riferimento limitato alla concessione della liberazione anticipata ai soggetti in affidamento in prova al servizio sociale, alla discrezionalità del giudice estesa anche al momento della decisione del “se” concedere il beneficio richiesto.
La norma citata dispone infatti:”all’affidato in prova al servizio sociale…può essere concessa la detrazione di pena di cui all’art. 54. Si applicano gli articoli 69, comma 8 e 69 bis nonché l’articolo 54, comma 3” .
Anche sotto detta prospettiva, il ritorno ad una discrezionalità piena del giudice nella concessione della liberazione anticipata, non pare bilanciato con la correlata previsione dell’applicazione del procedimento “semplificato” di cui all’art.69 bis O.P., che priva il sistema – come sopra detto – dell’opportuno coinvolgimento delle parti nella fase istruttoria del procedimento.
Va infine aggiunto che la norma dell’art. 69 bis O.P. produce in realtà riverberi negativi in tema di garanzia defensionale anche nella fase – eventuale e successiva rispetto alla decisione del magistrato di sorveglianza – del reclamo davanti al tribunale, che pure si svolge con il rito camerale di cui all’art. 678 c.p.p. (art. 69 bis, comma 4, O.P.).
Infatti, l’omessa possibilità di interloquire nel procedimento camerale di competenza monocratica priva evidentemente le parti di opportuni e spesso essenziali elementi di valutazione sull’operato del giudice di primo grado e sul percorso logico- giuridico effettuato da quest’ultimo per giungere alla decisione che si intende fare oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza.
Tale decisione non è, oltretutto, il portato della ponderata valutazione del giudicante all’esito delle argomentazioni svolte dalle parti nel contraddittorio, né delle sollecitazioni di queste ultime nei confronti del giudice in rapporto a questioni di diritto o di fatto rilevanti nella fattispecie; ma rappresenta invece il frutto di una valutazione dei dati istruttori acquisiti deprivata dall’esame dei sopra detti elementi .
Ciò non può che tradursi in un correlativo indebolimento delle posssibilità di esercitare un’efficace difesa in sede di procedimento collegiale, presso la cui sede le parti si troveranno – per la prima volta – nell’occasione di svolgere le proprie istanze processuali.
2) Fermando ora l’attenzione all’obiettivo pratico immediato che il legislatore intende perseguire ( finalità deflattiva del carico dei tribunali di sorveglianza) va osservato che esso rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang, poiché realizza una sorta di seisachteia o “spostamento dei pesi” di serviana memoria, trasferendo il carico dei procedimenti per la concessione della liberazione anticipata dal tribunale al magistrato di sorveglianza, senza ridurne il numero o il peso complessivo.
Tuttavia, il legislatore non pare aver tenuto conto che detta operazione interviene tra organi giurisdizionali sì formalmemte distinti, ma nella realtà composti dalle stesse persone fisiche: che agiscono tanto quali organi giurisdizionali incardinati presso gli uffici di sorveglianza del distretto, quanto in qualità di componenti togati del tribunale di sorveglianza distrettuale (art. 70 comma 3, O.P.) .
L’applicazione della riforma nel concreto della dinamica del rapporto tra competenze monocratiche e collegiali dei magistrati di sorveglianza dirà in quali termini lo spostamento di competenza potrà positivamente influenzare la speditezza complessiva dei procedimenti attribuiti alla cognizione della magistratura di sorveglianza.
E’ tuttavia fin d’ora lecito osservare che la riforma non è stata accompagnata da alcuna previsione di un’adeguata e proporzionale revisione degli organici del personale amministrativo degli uffici di sorveglianza, e ciò è destinato inevitabilmente a ripercuotersi negativamente sulla capacità delle cancellerie di far fronte agli adempimenti istruttori, quantitativamente gravosi, connessi alle sopravvenutre competenze.
Non appare, inoltre, chiaro il senso della norma introdotta dall’art. 69 bis, comma 5, laddove stabilisce che “il tribunale di sorveglianza, ove nel corso dei procedimenti previsti dall’art. 70, comma 1, sia stata presentata istanza per la concessione della liberazione anticipata, può trasmetterla al magistrato di sorveglianza. Le istanze per la liberazione anticipata, pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge presso il tribunale di sorveglianza, sono di competenza del magistrato di sorveglianza”.
La norma sulla disciplina transitoria della competenza pare escludere la facoltatività dell’adempimento del tribunale di sorveglianza di trasmissione dell’istanza di liberazione anticipata irritualmente presentata al collegio in sede di trattazione di un procedimento di competenza di quest’ultima assise.
Che la regola della trasmissione facoltativa e quella sulla competenza transitoria si applichino a momenti diversi (la prima destinata cioè a regolare il trapasso di istanze irrituali una volta che la riforma sia entrata a regime; l’altra a gestire la fase transitoria) non convince del tutto poiché il legislatore utilizza la forma “sia stata [e non già “sia”] presentata istanza per la concessione della liberazione anticipata”, presupponendo – almeno così pare di capire – un rapporto di anteriorità dell’incardinamento dell’istanza rispetto all’entrata in vigore della nuova legge.
Una lettura sistematica dei due commi in esame potrebbe suggerire che entrambi si riferiscano alla fase transitoria, e che il loro combinato disposto introduca propriamente il potere discrezionale del presidente del tribunale di sorveglianza di disporre, o meno, alla luce della valutazione del carico di lavori degli uffici di sorveglianza distrettuali, la trasmissione dei fascicoli processuali “per competenza” ai suddetti, in presenza di situazioni di scopertura o di difficoltà oggettive che rendano non opportuna detta operazione.
3)Una norma di mero raccordo è quella dettata dall’art. 2 della nuova legge, laddove inserisce nel corpo dell’art. 70, comma 1, dell’O.P. l’attribuzione al tribunale di sorveglianza della competenza in materia di “revoca della riduzione di pena per la liberazione anticipata”.
L’operazione di lifting è resa opportuna, anche perché la L. 277/02 non introduce alcuna previsione innovativa in tema di revoca della liberazione anticipata -l’unica ipotesi di revoca della stessa essendo quella prevista dall’art. 54 comma 3 O.P.- dalla nuova formulazione dell’art. 70 O.P. (che non annovera più la competenza del tribunale in relazione alla concessione della liberaizone anticipata).
4)Previsione del tutto innovativa è – come anticipato – quella introdotta dall’art. 3 della nuova legge .
La norma citata introduce nell’art. 47 O.P. che disciplina la materia dell’ affidamento in prova al servizio sociale, il comma 12 bis, che si esprime nei termini seguenti :”all’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità, può essere concessa la detrazione di pena di cui all’art. 54. “
La norma stabilisce inoltre l’applicazione, alla nuova fattispecie, delle modalità applicative e procedimentali ordinarie (art. 69.69 bis e 54 comma 3 O.P.) previste in tema di liberazione anticipata attinenti a soggetti detenuti.
Con tale previsione, il legislatore – come già detto – ha disposto l’estensione del beneficio della liberazione anticipata ad un ambito – quale la messa alla prova del condannato nella società libera – che é totalmente disancorato dalla realtà penitenziaria, dove l’istituto della riduzione di pena premiale trova, invece, la sua tradizionale e consona collocazione.
La novità merita qualche ulteriore approfondimento.
Riassumendo le considerazioni già in parte sopra svolte, con riferimento alla concedibilità della liberazione anticipata a condannati in regime di affidamento in prova al servizio sociale (beninteso: in rapporto alla pena eventualmente espiata in regime detentivo ) , la giurisprudenza della Cassazione aveva già tentato qualche timida apertura (Cass.,I, 18.1.99, Vasta; Cass. ,I, 6.7.01,Rossi),sul presupposto che ai fini dell’art. 54 O.P., fosse sufficiente l’attualità della pendenza del rapporto esecutivo e non, necessariamente, l’attualità dello stato detentivo (Cass., I, 19.12.00, Latri).
Tale orientamento giurisprudenziale – come sopra ricordato – era tuttavia largamente minoritario a fronte della tesi prevalente – fatta propria anche dalle SS.UU. della Cassazione – che postulava, ai fini della concedibilità della riduzione di pena, l’attualità dello stato detentivo (Cass.,SS.UU. 18.6.91, Argento).
Tuttavia, nemmeno la giurisprudenza più innovativa si era mai spinta a ritenere concedibile la liberazione anticipata in relazione ai semestri trascorsi in affidamento in prova al servizio sociale,.
Tale possibilità era, anzi, esclusa in re ipsa (Cass.,I,7.4.94; Cass.,I,7.9.94) , dal momento che la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale non presuppone alcuna attività trattamentale rieducativa (Cass., I, 14.3.97, Sciortino) .
La previsione introdotta con la nuova legge si colloca, insomma, su una direttrice del tutto eccentrica tanto rispetto alla previgente disciplina della liberazione anticipata, saldamente inserita nel quadro dei benefici correlati allo status detentionis del soggetto, quanto in rapporto all’attività di ricostruzione dell’istituto operata dalle tesi giurisprudenziali sopra esposte.
Si è sopra accennato alla diversa lettura sistematica data alla riduzione di pena da una parte della dottrina, che riteneva già alla luce della previgente normativa consentita, ed anzi inevitabile, la conclusione che la liberazione anticipata – quale istituto a spiccata e prevalente funzione di reinserimento sociale dei soggetti condannati- dovesse applicarsi in rapporto ad ogni rapporto esecutivo, ivi compreso il caso in cui quest’ultimo prescindesse da un collegamento con la struttura penitenziaria (come accade, appunto, nel caso dell’affidamento in prova al servizio sociale).
La dimensione dello scarto tra il vecchio e il nuovo della riforma suscita allora notevoli perplessità, al punto da indurre la motivata convinzione che non sia affatto scontato che la liberazione anticipata prevista dall’art. 3 della nuova legge sia da considerarsi in rapporto di omogeneità con l’istituto omonimo disciplinato dall’art. 54 dell’O.P..
Pare, in altri termini, che sussistano argomenti favorevoli alla tesi della diversità di species tra gli istituti in esame, pur nella identità di genus, essendo, l’una e l’altra “liberazione anticipata” definibili quali benefici penitenziari a carattere modificativo/estintivo della fattispecie esecutiva penale.
Accomunati dal nomen iuris e dall’effetto finale sul rapporto di esecuzione penale (in termini di riduzione o estinzione del medesimo, in caso di reiterate concessioni del beneficio) i due istituti divergono invece sotto importanti e – a parere di chi scrive- fondamentali presupposti sostanziali.
Questi appaiono infatti connotati da eterogeneità sotto profili non trascurabili.
Anzitutto, l’art. 54 O.P. subordina la concessione del beneficio al duplice presupposto della regolarità della condotta intramuraria ed alla partecipazione del detenuto al trattamento penitenziario; l’art. 3 della nuova legge ammette, diversamente, la concessione della liberazione anticipata con riferimento ad un unico presupposto, peraltro formulato in termini del tutto generici: l’accertata sussistenza di “comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità” del condannato affidato in prova al servizio sociale.
Inoltre, secondo quanto già osservato, la liberazione anticipata ordinaria (art.54 O.P.) postula l’espiazione della pena in stato di restrizione in carcere (SS.UU. 18.6.91;Cass.,I, 14.4.93; Cass.,I, 8.6.94) o in regime di detenzione domiciliare, presuponendo uno stretto ed indissolubile collegamento tra osservazione, offerte trattamentali e positiva adesione del recluso alla proposta rieducativa; la liberazione anticipata di cui alla legge 277/02, come detto, ne prescinde completamente.
Ed ancora: il primo istituto(art.54 O.P.) è finalizzato per un verso al mantenimento della pax carceraria attraverso la prospettiva concreta e ravvicinata di un premio tangibile per il detenuto (la riduzione della pena da espiare in rapporto ad ogni singolo semestre di pena espiata) sinallagmatico alla “buona condotta” da questi tenuta in carcere ed al rispetto delle norme interne; la riduzione di pena introdotta dalla legge 277/02 mira, invece, esclusivamente a favorire il reinserimento sociale del soggetto, stimolando il processo di modificazione della personalità del condannato per effetto del proficuo contatto con le offerte trattamentali messegli a disposizione dagli educatori.
La liberazione anticipata di cui all’art.3 della legge 277/02 si caratterizza per l’indeterminatezza del presupposto fondante la concessione del beneficio della riduzione di pena, la cui definizione normativa finisce così per costituire una tautologica riproposizione confermativa della finalità propria della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale: rappresentata dalla sua idoneità a favorire il reinserimento sociale del condannato (art. 47 comma 1, O.P.).
In buona sostanza, la riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata in caso di affidamento in prova al servizio sociale e la delcaratoria di estinzione della pena e di ogni effetto penale in esito alla prova medesima simul stant, simul cadent, essendo il presupposto dell’una il medesimo che sorregge l’altra.
Pare oltretutto difficilmente sostenibile la tesi che la ratio della nuova norma sia stata quella di incrementare – con la prospettiva dell’ulteriore premio (rispetto al già non trascurabile vantaggio di espiare la pena in regime di sostanziale libertà personale) consistente nella riduzione del periodo da trascorrere in affidamento – la convenienza, per i soggetti sottoposti alla misura alternativa ex art. 47 O.P., di rispettare scrupolosamente le prescrizioni della misura e di impegnarsi nello sforzo di risocializzazione.
L’art. 4 della nuova legge estende, infatti, la concedibilità del beneficio anche agli affidamenti in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in relazione ai semestri successivi al 31.12.99 o in svolgimento a tale data.
Pare evidente, allora, che tale concessione non potrebbe costituire una premialità con effetto incentivante alla risocializzazione poiché si riferisce a periodi già decorsi , gestiti dai soggetti in regime di affidamento in prova a prescindere dalla prospettiva di un premio – quello previsto dall’art. 3 della legge 277/02 – che non era all’epoca in cui vennero tenute le condotte valutabili, né previsto né ipotizzabile.
La ratio della previsione di cui all’art 4 della nuova legge pare invece contenere maggiormente plausibili finalità deflattive e di decongestione del carico di lavoro per gli uffici di sorveglianza e i CSSA, oberati di un numero di esecuzioni di misure alternative alla detenzione non gestibile con le attuali risorse di strutture e personale.
Ulteriore marcata differenza tra l’istituto della liberazione anticipata ordinaria prevista dall’art. 54 O.P. e la liberazione anticipata “speciale” di cui all’art. 3 della nuova legge è rappresentata dai poteri attribuiti al giudice , con particolare riferimento ai margini di apprezzamento discrezionale consentiti.
Mentre infatti –come sopra ricordato – l’art. 54 O.P. stabilisce che in presenza dei presupposti di legge, la riduzione della pena “è concessa”, ciò essendo chiaramente indicativo della sussitenza, in capo al detenuto, di un vero e proprio diritto ad ottenere il beneficio una volta che il giudice abbia accertato la ricorrenza dei presupposti di legge; la liberazione anticipata “speciale” di cui all’art.3 della nuova legge, diversamente, ha carattere di assoluta discrezionalità nella concessione.
Infatti, pur accertata da parte dell’organo giudicante la sussistenza dell’indeterminato presupposto indicato dalla norma, il giudice comunque legittimamente “può” concedere l’invocata riduzione della pena, la libertà decisionale di quest’ultimo non essendo normativamente vincolata dall’accertamento sui requisiti da effettuarsi preliminarmente.
A siffatto ampliamento del margine di discrezionalità attribuito al giudice fa rimando speculare l’ulteriore elemento differenziale che è dato cogliere tra i due istituti omonimi in esame: il primo beneficio è rigidamente regolato tanto sotto il profilo dei presuposti, chiaramente indicati dalla norma dell’art. 54 O.P. ed ulteriormente specificati in dettaglio dal regolamento di esecuzione (art. 94 del D.P.R. 230/00); il secondo appare assolutamente vago e indeterminato sotto il profilo del presupposto sostanziale.
E’ in proposito evidente che la giurisprudenza, in primis quella di merito, dovrà assumersi il non facile compito di elaborare dei criteri-guida relativamente alla casistica in cui poter ritenere integrato il “concreto recupero sociale” dell’affidato, e quali condotte del medesimo possano considerarsi “comportamenti rivelatori del positivo evolversi della sua personalità”, così come vuole la nuova legge.
5) L’estensione della liberazione anticipata alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale pone, peraltro, un ulteriore problema, concernente la questione, attualmente risolta in dottrina e gurisprudenza nel senso negativo, della concedibilità della liberazione anticipata ai soggetti sottoposti alla sanzione sostitutiva della libertà controllata.
La giurisprudenza, anche recentissima, della Corte di cassazione ha sempre radicalmente escluso tale possibilità.
E’ tuttavia evidente che la riferita tesi giurisprudenziale incontrerà in futuro fondate obiezioni alla luce dell’estensione del beneficio al periodo trascorso in affidamento in prova al servizio sociale, poiché il dictum normativo, fa venir meno ogni motivazione plausibile per negare l’applicazione della riduzione di pena ex art. 54 O.P. ( o meglio: ex art. 47 comma 12 bis, O.P.) anche alla pena espiata in forma sostitutiva.
Siffatta conclusione pare sostenibile tanto alla luce della sopravvenuta inconsistenza dell’argomento portato in contrario, fondato sulla necessità – sostenuta in passato dalla giurisprudenza – della ricorrenza dello stato detentivo del soggetto in relazione ai periodi di pena per i quali il beneficio in esame viene richiesto.
A non dissimili conclusioni conduce il rinnovato vigore che acquista, per lo stesso motivo, la tesi che il requisito fondamentale della liberazione anticipata sia la sua finalizzazione rieducativa, quale stimolo cioè al reinserimento sociale del condannato, di tal che essa sia concedibile – a prescindere dal riferimento alla detenzione – in tutti i casi di espiazione di pena , ivi compresa dunque la sanzione sostitutiva della libertà controllata.
6) Rimane, infine, da riflettere sull’ulteriore snodo problematico concernente il profilo relativo alla definitività delle decisioni adottate dal magistrato di sorveglianza in ordine alle istanze di liberazione anticipata.
La giurisprudenza assolutamente prevalente della Cassazione ritiene infatti applicabile nel procedimento di sorveglianza, per espressa disposizione dell’art. 666 c.p.p. , il principio del “ne bis in idem”, che impone – com’è noto – al giudice, per motivi di economia processuale, di non decidere due volte sulla stessa istanza o questione sottoposta alla sua cognizione.
Ne consegue che la decisione del giudice di sorveglianza, adottata con provvedimento divenuto definitivobile per decorso del termine utile per l’impugnazione ovvero per l’infruttuoso esperimento di tutti i rimedi giurisdizionali contemplati dall’ordinamento, porta con sé il limite negativo della preclusione in rapporto alla riproposizione di istanza analoga a quella già coperta dalla pronuncia giudiziale (Cass.,I, n. 6112 del 11.2.95; con specifica attinenza alle decisioni sui procedimenti in materia di liberazione anticipata, Cass.,I, n. 2877 del 19.7.93, Esposito)
Con riferimento alla precedente disciplina della concessione della liberazione anticipata, imperniata sul procedimento camerale ai sensi dell’art. 678 c.p.p. celebrato avanti al tribunale di sorveglianza, la giurisprudenza maggioritaria della Cassazione aveva, in particolare, ritenuto sussistente la preclusione di cui all’art. 666 c.p.p., allorché una nuova istanza dell’interessato, priva di elementi di novità rispetto ad altra in precedenza valutata, e divenuta definitiva per carenza di impugnazione, fosse ripresentata (Cass. , I, 22.4.97, Fasoli).
Eccezione a tale principio è rappresentato dal caso di ricorrenza di fatti nuovi (quali, a es., l’interventua assoluzione del detenuto per un fatto ascrittogli :Cass.,I, 12.12.96, Laganaro), alla luce del carattere di decisione assunta “allo stato degli atti” propria dei provvedimenti adottati in seguito a procedimento di sorveglianza, secondo il principio desumibile, con riferimento ai procedimenti sottoposti alle regole dell’esecuzione penale, dal disposto dell’art. 666, comma 2, c.p.p. .
V’è da chiedersi in quali termini sia consentita l’estensione della regola del “ne bis in idem”, così come formulata nell’art. 666 c.p.p., al procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. dal momento che, come sopra meglio precisato, la peculiare disciplina introdotta dalla legge 277/02 non appartiene al genus dei procedimenti disciplinati dagli artt.666 e 678 c.p.p. citati.
Tuttavia, la regola codificata dall’art. 666, comma 2, c.p.p., pare in realtà costituire l’espressione normativizzata di un principio di economia processuale di carattere generale, e, sotto tale aspetto, non v’è ragione di negarne l’applicabilità anche nel peculiare procedimento di cui all’art. 69 bis O.P. .
Il principio generale che connota i provvedimenti del giudice di sorveglianza quali decisioni assunte rebus sic stantibus consente poi, senza troppe acrobazie ermeneutiche, di ritenere applicabile anche al procedimento di cui all’art. 69 bis O.P., la possibilità di rivalutare eventuali istanze riproposte in rapporto a semestri di pena già valutati qualora siano allegati elementi di novità non presenti nelle risultanze istruttorie poste alla base della precedente decisione.
L’evenienza, atteso il carattere peculiare del procedimento – deprivato di contraddittorio – sarà probabilmente tutt’altro che infrequente.
Fabio Fiorentin
Spett.le
LA GIUSTIZIA PENALE
Via Giovanni Nicotera 10
00195-R O M A
Oggetto: articolo “Appunti in tema di riforma della liberaizone anticipata”.
Compiego all’attenzione di codesta Spettabile Rivista il mio lavoro come indicato in oggetto.
Nel ringraziare per l’attenzione riservata alla precedente pubblicazione, mi è gradito porgere i migliori saluti.
dott.Fabio Fiorentin
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