di Alessia D’Addazio*
* Dottoranda in diritto processuale civile presso l’università Sapienza di Roma
Sommario
1. Lo svolgimento del giudizio di merito tra processo dichiarativo e processo esecutivo
2. La prima questione esaminata dalla Terza Sezione
3. La seconda questione sollevata dalla Terza Sezione
4. L’ordinanza interlocutoria tra Progetto Esecuzioni e intervento nomofilattico
1. Lo svolgimento del giudizio di merito tra processo dichiarativo e processo esecutivo
Con l’ordinanza interlocutoria 6 marzo 2020, n. 6422, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione, tabellarmente competente in materia di esecuzioni, ha rimesso gli atti al Primo Presidente onde valutare l’opportunità di rimettere alle Sezioni Unite due questioni, in quanto l’una soggetta a contrasto giurisprudenziale e l’altra qualificabile come questione di massima di particolare importanza, attinenti alle ricadute che il venir meno del titolo esecutivo giudiziale provvisorio, «a caducità intrinseca e necessariamente instabile», comporta nelle vicende processuali collegate e scaturite dalla instaurazione della procedura esecutiva.
Per cogliere la genesi e la portata delle questioni giunte all’esame della Suprema Corte, occorre ripercorrere brevemente le vicende relative alle fasi di merito ed esecutiva che hanno interessato la controversia oggetto di esame, vertente in materia di sfratto per morosità. I ricorrenti, nel lontano 1984, ricorrevano dinanzi al Tribunale di Lucca per ottenere lo sfratto per morosità del conduttore e ne ottenevano la convalida per mancata comparizione dell’intimato; questi poi proponeva opposizione tardiva, giudicata ammissibile ma rigettata nel merito. Sulla base della decisione di rigetto, gli originari ricorrenti intraprendevano l’esecuzione nei confronti del conduttore, il quale, a sua volta, impugnava la decisione di rigetto della sua opposizione allo sfratto e si opponeva all’esecuzione che era stata medio tempore intrapresa. L’opposizione all’esecuzione veniva rigettata nel 2009 dal Tribunale di Lucca, mentre nel 2011 la Corte d’Appello di Firenze accoglieva l’impugnazione proposta nel giudizio di merito, dichiarando la nullità dell’ordinanza di convalida di sfratto emessa dal Tribunale di Lucca. Il conduttore esecutato, che aveva proposto appello avverso la sentenza di rigetto emessa nel giudizio di opposizione all’esecuzione, faceva quindi valere in questo giudizio la sopravvenuta caducazione del titolo (per opera dell’intervento riformatore della medesima Corte d’Appello) ma la sua impugnazione veniva rigettata, atteso che il giudice dell’impugnazione qualificava il fatto estintivo successivo come irrilevante «potendo riconoscersi rilevanza, in un giudizio di opposizione all’esecuzione, solo ai fatti sopravvenuti idonei a determinare l’inesistenza del titolo esecutivo» e si riteneva incompetente rispetto alla domanda di risarcimento dei danni proposta dall’appellante sia ai sensi dell’art. 96 c.p.c., sia come domanda di condanna generica al risarcimento del danno, ritenendo che la competenza spettasse al giudice cui era demandato l’accertamento circa l’inesistenza del diritto per il quale si era proceduto con l’esecuzione forzata (che, a ben vedere, era la medesima Corte d’Appello di Firenze). Avverso tale decisione viene proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi, per ciascuno dei profili appena evidenziati.
2. La prima questione esaminata dalla Terza Sezione
La Corte, anticipando in maniera quasi implicita la valutazione in merito all’infondatezza del motivo di ricorso incidentale prospettato dai controricorrenti (vittoriosi nel merito), avente carattere pregiudiziale in quanto relativo alla tardività dell’appello proposto dal ricorrente, scandisce l’analisi delle due questioni con estrema chiarezza e sintesi.
Quanto alla prima questione relativa al riflesso della caducazione del titolo esecutivo rispetto all’esito del giudizio di opposizione all’esecuzione pendente e della relativa regolazione delle spese, la Terza Sezione ribadisce l’insegnamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio di opposizione all’esecuzione l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per l’esame del merito, anche se i motivi di opposizione non riguardano direttamente tale questione[1].
Se tale accertamento attenga ad una questione (in ogni caso rilevabile d‘ufficio) preliminare in senso tecnico, in quanto nel giudizio di esecuzione il merito può essere costituito dalla insussistenza del diritto sostanziale riconosciuto nel titolo esecutivo (oltre che dall’inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo o dalla impignorabilità dei beni) o, piuttosto, costituisca una questione pregiudiziale (di rito), in quanto relativa ad un presupposto processuale necessario per l’instaurazione e la conduzione del processo esecutivo, i.e. la sussistenza di un valido titolo esecutivo per l’intera durata della procedura, è dubbio di natura meramente tecnica, atteso che esso non determina, a parere di chi scrive, conseguenze dirette sull’esito del rilievo della questione da parte del giudice. E ciò in quanto, laddove la questione fosse configurata come pregiudiziale di rito (poiché relativa alla sussistenza del presupposto processuale necessario per l’instaurazione e la conduzione della procedura esecutiva) esso verrebbe giustamente valutato seguendo l’ordine rito-merito scandito dall’art. 276 c.p.c.; laddove, invece, la questione venisse configurata come preliminare di merito poiché nel giudizio di opposizione il merito del giudizio corrisponde ad una delle ipotesi sopra menzionate, essa potrebbe anche rispondere al criterio della ragione più liquida rispetto ai motivi di opposizione formulati in quella sede[2]. Il tema, peraltro, rimane fuori dalle osservazioni formulate dall’ordinanza interlocutoria, la quale, invece, sottolinea come dall’uniforme enunciazione del principio sopra richiamato siano discese difformi interpretazioni con riferimento alle conseguenze del rilievo nel giudizio di opposizione dell’intervenuta caducazione del titolo esecutivo in merito alla liquidazione delle spese.
Menzionando l’attività del Progetto Esecuzioni inaugurata dal 2018, la Terza Sezione richiama la soluzione cui essa stesa è approdata con riferimento al tema in analisi, ossia l’enunciazione del principio secondo cui la sopravvenuta caducazione del titolo durante lo svolgimento del giudizio di opposizione non determina ex se la fondatezza dell’opposizione con conseguente automatico suo accoglimento, ma configura una ipotesi di cessazione della materia del contendere per sopravvenuto difetto di interesse (ad agire), sicché il giudice, nel regolare le spese dell’intero giudizio di opposizione, non potrà porle automaticamente a favore dell’opponente, dovendo piuttosto seguire il criterio della soccombenza virtuale e valutare, secondo il principio di causalità, l’intera vicenda processuale[3] ed in particolare i motivi di opposizione effettivamente formulati.
La soluzione discende da un plurimo ordine di ragioni: innanzitutto, il rispetto del generale principio della domanda, che nelle opposizioni esecutive è rafforzato dall’individuazione della tipologia dei motivi legittimanti la proposizione di ciascuna forma di opposizione con conseguente delimitazione dell’oggetto del giudizio di opposizione all’esame dei motivi concretamente proposti. Si consideri poi che anche in queste tipologie di giudizio l’onere delle spese è sorretto dal principio di causalità rispetto alla domanda svolta, di talché il rilievo d’ufficio della caducazione sopravvenuta del titolo costituisce una circostanza esterna ai motivi dedotti, che nelle opposizioni esecutive sono vincolanti. Per tale ragione, quindi, determinando la caducazione del titolo il venir meno dell’interesse a coltivare l’opposizione, si configura una ipotesi di cessazione della correlativa materia del contendere e non di accoglimento del merito. Ratificate queste premesse, basterà applicare il principio generale della soccombenza virtuale, che attiene alle ipotesi di cessazione della materia del contendere, costituendo declinazione di quello di causalità; diversamente opinando, la liquidazione delle spese della lite sarebbe assoggettata al principio della casualità, determinata dalla tempistica della caducazione del titolo e si tradurrebbe nell’incentivazione dell’utilizzo strumentale dell’opposizione anche ove non necessario[4].
In effetti la posizione cui la Terza Sezione è giunta si è posta in controtendenza rispetto ai precedenti registrati sul punto, nei quali, invece, era stato affermato, sempre partendo dal comune assunto per cui l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva si pone come preliminare dal punto di vista logico per la decisione sui motivi di opposizione, una volta «dichiarata cessata la materia del contendere per effetto del preliminare rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo esecutivo nelle more del giudizio di opposizione, per qualunque motivo sia stata proposta, l’opposizione deve ritenersi fondata, di talché il giudice dell’opposizione non può, in violazione del principio di soccombenza, condannare l’opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti, risultando detti motivi assorbiti dal rilievo dell’avvenuta caducazione del titolo con conseguente illegittimità ex tunc dell’esecuzione[5]».
La stabilità della soluzione offerta dalla Terza Sezione nell’ambito del Progetto Esecuzioni è stata incrinata da una recente sentenza della Seconda Sezione[6] che ha ripreso questo precedente orientamento (ed enunciato il medesimo principio di diritto) e sconfessato quanto affermato dalle successive pronunce.
Sarebbe quindi questa unica dissonante pronuncia ad aver generato il rilevato contrasto.
Sembra quindi che la rimessione alle Sezioni Unite per superare il delineato contrasto giurisprudenziale configuri più un tentativo di stigmatizzare quanto stabilito all’interno del Progetto Esecuzioni in presenza di un solo precedente difforme, che un rimedio contingente e necessario per risolvere la controversia giunta all’esame della Terza Sezione (che avrebbe potuto fornire al motivo di ricorso la soluzione ormai accolta in seno al Progetto Esecuzioni, soprattutto in ragione della tanto ostentata competenza tabellare in materia esecutiva esclusiva della medesima Sezione).
Per quanto concerne il merito della questione sollevata, a parere di chi scrive la soluzione accolta in seno al Progetto Esecuzioni è più rispettosa della ratio che governa l’istituto della condanna alle spese. È sulla base della soccombenza che il legislatore impone al giudice di regolare le spese del giudizio (lasciando da parte la questione oggetto di attuale dibattito relativa all’istituto della compensazione, rinvigorito dal recente intervento della Consulta).
Orbene, quando la parte, vittoriosa in giudizio, intraprende la procedura esecutiva sulla base del titolo esecutivo giudiziale provvisorio sì, ma avente comunque efficacia esecutiva, versa in una condizione di tutela da parte dell’ordinamento, che ha riconosciuto la pretesa e ne promuove la tutela ed attuazione, per mezzo del passaggio dalla fase dichiarativa a quella operativa e concreta, i.e. la fase esecutiva. In questo passaggio, la sussistenza di un titolo legittimante e valido configura una condizione di affidamento da parte del titolare del diritto (creditore procedente), per il fatto che la sua domanda di tutela ha trovato pieno accoglimento e riconoscimento di fronte all’ordinamento in conseguenza dell’intervento giurisdizionale, pur non potendosi prescindere dall’adozione della “normale prudenza”. Si tratta, però, di una fase instabile e soggetta alla possibilità di un successivo mutamento di prospettiva con sconvolgimento del risultato raggiunto; questo piano diacronico, che costituisce la linea del tempo nel quale si svolge il processo di cognizione, è regolato dal codice di rito in maniera progressiva sia sotto il profilo dichiarativo, sia sotto il profilo esecutivo. Quanto al primo, questa progressività si sostanzia nel riconoscimento dell’effetto sostitutivo della decisione resa in grado di appello, la quale, a prescindere dal segno, si sostituisce alla decisione di primo grado; quanto al profilo esecutivo, accanto all’effetto sostitutivo si apprezza l’espressa previsione della provvisoria esecutività delle sentenze (rectius, pronunce) rese in primo grado (art. 282 c.p.c.). Ne discende che, quando la decisione resa in primo grado viene ribaltata, si avranno effetti su entrambi i piani (dichiarativo ed esecutivo), con conseguente caducazione del titolo che ha fondato e legittimato l’instaurazione della procedura esecutiva. Il che, però, non può tradursi in una valutazione automatica di responsabilità e colpa del creditore che ha instaurato un processo esecutivo, in quanto quel creditore, al momento dell’avvio della fase esecutiva, disponeva di un valido titolo giudiziale che riconosceva l’esistenza del diritto vantato. Questo elementare assunto costituisce un consueto argomento che il giudice di legittimità deve utilizzare per ribadire che, ai fini del riconoscimento del risarcimento ex art. 96, comma 2, c.p.c. (su cui si dirà nel prossimo paragrafo), «all’accertamento della mancanza del diritto di procedere ad esecuzione forzata si aggiunge, a seguito dell’istanza di parte, l’accertamento, da parte dello stesso giudice, dell’avere il creditore procedente agito senza la normale prudenza». L’”affidamento” nella pronuncia giurisdizionale resa in sede dichiarativa, ancorché non passata in giudicato e soggetta a impugnazione ordinaria, non potrebbe costituire, automaticamente e senza valutazione specifica condotta caso per caso, la fonte della responsabilità sul piano esecutivo, consegnando al debitore la vittoria sulle spese nel procedimento di opposizione a prescindere dall’esame delle sue ragioni. Nel procedimento di opposizione all’esecuzione a dover essere valutate sono infatti imotivi di opposizione formulati dal debitore e non le ragioni vantate dal creditore, che costituiscono invece oggetto di cognizione nel processo principale in cui si è formato (o riformato) il titolo esecutivo. La sovrapposizione dei due piani alla stregua del risultato finale – caducazione del titolo esecutivo – appiattisce le norme che regolano i rapporti tra processo di cognizione, processo esecutivo e fase di merito dell’opposizione all’esecuzione, cagionando la perdita di effetti e risultati che il legislatore, invece, ha espressamente contemplato e promosso. L’efficacia provvisoria del titolo esecutivo verrebbe infatti inevitabilmente umiliata o quanto meno degradata a “strumento” da azionare “a rischio e pericolo” del creditore senza la dovuta valorizzazione delle ragioni in gioco e della natura delle doglianze mosse dal debitore nell’opposizione all’esecuzione, imponendo al giudice di quest’ultima di duplicare una valutazione di soccombenza senza poterla invece adeguare al tessuto cognitivo a lui spettante. Il giudice dell’opposizione deve sì recepire l’esito del giudizio che ha ad oggetto la formazione, la sussistenza o la caducazione del titolo esecutivo giudiziale come fattore legittimante la procedura esecutiva, ma non può, né dovrebbe, scavalcare e omettere di valutare, in sede di liquidazione delle spese, la bontà delle ragioni mosse dall’opponente[7]. Appare pleonastico osservare che il debitore esecutato, nell’ipotesi considerata, ha intrapreso un procedimento – l’opposizione all’esecuzione – oggettivamente diverso e estraneo a quello nel quale la caducazione si è verificata e che tale circostanza non è in alcun modo influenzabile e determinabile dalle difese svolte in sede di opposizione.
[1] Ex multis v. Cass. civ., Sez. III, 19 maggio 2011, n. 11021; Cass. civ., Sez. Lavoro, 28 luglio 2011, n. 16610; Cass. civ., Sez. III, 13 marzo 2012, n. 3977; Cass. civ., Sez. III, 26 agosto 2014, n. 18251, tutte richiamate nell’ordinanza interlocutoria; in termini anche Cass. civ., Sez. VI, 3 febbraio 2015, n. 1925; Cass. civ., Sez. Lavoro, 29 novembre 2004, n. 22430.
[2] Sul punto, con preferenza per la seconda ricostruzione, v. M. Barafani, la quale sostiene che «l’esistenza del titolo, unitamente alla domanda, è una condizione dell’azione esecutiva e, dunque, un presupposto processuale all’interno del processo esecutivo. L’opposizione, invece, è un giudizio esterno, ancorché strumentale, all’esecuzione e quindi, rispetto ad essa, il titolo non ha una simile valenza. Essa è tradizionalmente configurata come un giudizio di merito, di conseguenza, è comprensibile che la giurisprudenza parli di preliminarità , anche se la censura riguarda la sussistenza del titolo, in quanto tale situazione, pur essendo di natura processuale, rappresenta il merito del processo (…) l’esistenza del titolo esecutivo si atteggia in tale contesto come una questione di merito che costituisce una ragione più liquida per addivenire alla decisione rispetto agli altri motivi di opposizione», La caducazione del titolo esecutivo in sede di opposizione all’esecuzione, nota a Cass. civ., Sez. II, 9 agosto 2019, n. 21240, in Giur. It., 2020, 331. L’A. precisa altresì che l’espressione “questione preliminare in senso logico” che si è diffusa nei principi di diritto replicati nella giurisprudenza non deve confondere suggerendo la rischiosa idea che la sussistenza del titolo esecutivo costituisca un antecedente logico necessario rispetto agli altri motivi di opposizione idoneo a configurare una relazione di pregiudizialità-dipendenza in senso logico, e ciò in quanto è impensabile predicare la sussistenza di un tale rapporto tra titolo esecutivo e diritto sostanziale in esso incorporato.
[3] Cass. civ., Sez. III, 29 novembre 2018, n. 30857; Cass. civ., Sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31955; così già Cass. civ., Sez. III, 9 marzo 2017, n. 6016 ma con riferimento al caso dell’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. e Cass. civ., Sez. III, 14 luglio 2015, n. 14653, con riferimento al caso di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., richiamata nell’ordinanza con riguardo al secondo profilo esaminato; da ultimo Cass. civ., Sez. VI – 3, 17 gennaio 2020, n. 1005. Nella giurisprudenza di merito v. Tribunale Milano, Sez. III, 23 aprile 2019, n. 4045.
[4] Cass. civ., Sez. VI – 3, 17 gennaio 2020, n. 1005.
[5] Il primo precedente sul punto richiamato dalla III Sezione è Cass. civ. Sez. III, 7 gennaio 1970, n. 28. In termini Cass. civ., Sez. III, 13 marzo 2012, n. 3977; Cass. civ., Sez. VI-3, 6 settembre 2017, n. 20868 e da ultimo Cass. civ., Sez. II, 9 agosto 2019, n. 21240.
[6] La testé richiamata Cass. civ., Sez. II, 9 agosto 2019, n. 21240.
[7] Conclude in maniera opposta M. Barafani: «colui che aziona in via esecutiva un titolo provvisoriamente esecutivo, lo fa a proprio rischio e pericolo, siccome è naturale che il provvedimento giurisdizionale possa essere riformato, tanto che il suo comportamento potrebbe essere sanzionato ai sensi dell’art. 96, 2º comma, c.p.c. a titolo di responsabilità processuale aggravata. Pare sensato allora che egli debba sopportare il peso economico dell’eventuale soccombenza nel giudizio di opposizione», cit., 333. A parere di chi scrive però questa visione non valorizza a sufficienza l’imprescindibile valutazione di colposità che l’art. 96, comma 2, c.p.c. richiede e stigmatizza nell’espressione “senza la normale prudenza”.
3. La seconda questione sollevata dalla Terza Sezione
Il secondo motivo di ricorso, che costituisce altresì l’ulteriore questione sollevata dalla Sezione rimettente, in quanto configurata di massima di particolare importanza, attiene alla sede nella quale deve essere proposta la domanda di risarcimento danni exart. 96, comma 2, c.p.c. per aver agito esecutivamente senza la normale prudenza, quindi – più precisamente – a quale giudice spetti di conoscere tale domanda risarcitoria conseguente all’esercizio di azione esecutiva illegittima, se a quello del processo in cui si è formato il titolo esecutivo o al giudice dell’opposizione e se tale scelta sia influenzata dalla circostanza che l’azione esecutiva sia intrapresa sulla base di un titolo esecutivo giudiziale provvisorio.
Nel caso di specie, il ricorrente aveva proposto in sede di opposizione all’esecuzione sia domanda di risarcimento generica, sia domanda di risarcimento per responsabilità aggravata exart. 96, comma 2, c.p.c. (nulla è specificato in merito alla gradazione di tali domande, né rileva ai fini della rimessione alle Sezioni Unite). La Corte d’Appello di Firenze, adìta in sede di opposizione all’esecuzione, aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta, che avrebbe dovuto essere formulata davanti al giudice competente ad accertare l’inesistenza del diritto per il quale si è proceduto ad esecuzione forzata, «competente per materia ex art. 96 secondo comma c.p.c.». Il ricorrente, censurando la statuizione, insiste per la sussistenza di competenza funzionale in capo al giudice dell’esecuzione. Salvo il richiamo a due precedenti sul tema[8], la Terza Sezione non fornisce alcun significativo apporto per una compiuta critica della questione, limitandosi a rilevare l’opportunità di individuare la «sede naturale» per proporre la domanda di risarcimento di cui all’art. 96, comma 2, c.p.c.
Anche per via della laconica ricostruzione del profilo, non è dato comprendere se l’incompetenza invocata dal giudice di appello a sostegno del rigetto della domanda sia intesa in senso tecnico o meno. Da un lato, la circostanza che la domanda risarcitoria sia stata ritenuta inammissibile induce a ritenere che non di competenza in senso tecnico si tratti, giacché, come già supra rilevato, il giudice dell’opposizione all’esecuzione appartiene al medesimo ufficio giudiziario dinanzi al quale si è formato il titolo esecutivo poi travolto, con conseguente non praticabilità di una nozione pura di competenza; dall’altro, però, non sfugge l’utilizzo dell’espressione “competenza per materia” che, a detta del giudice dell’esecuzione, comporta che la sede naturale per conoscere della domanda risarcitoria per esecuzione illegittima sia quella del giudizio in cui si accerta l’inesistenza del titolo, cui specularmente si contrappone il richiamo alla “competenza funzionale” operato dal ricorrente per supportare le proprie ragioni di censura.
Lo stato dell’arte nella giurisprudenza di legittimità espressasi sulla questione pone un problema di raccordo, che è stato puntualmente (sebbene acriticamente) colto dall’ordinanza interlocutoria, in quanto convivono due principi consolidati, l’uno per cui «la domanda di condanna al risarcimento dei danni exart. 96 c.p.c., comma 2, del creditore procedente va rivolta al giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stata iniziata o compiuta l’esecuzione forzata»[9] e dunque «il giudice cui è demandato l’accertamento dell’esistenza del diritto di iniziare o compiere l’esecuzione forzata può essere il giudice del processo nell’ambito del quale il titolo esecutivo si è formato, quando trattasi di titolo esecutivo giudiziale», l’altro per cui chi intende chiedere il risarcimento dei danno per l’esecuzione forzata intrapresa «senza la normale prudenza» e rivelatasi ingiusta può agire ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c. dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione, funzionalmente competente sia sull’an che sul quantum[10], sia nell’ipotesi in cui il titolo esecutivo fosse mancante sin dall’inizio del processo esecutivo, sia nel caso in cui sia stato medio tempore caducato. Sembrerebbe quindi che nell’ipotesi in cui l’esecutato abbia sia coltivato il giudizio di merito al fine di vedere dichiarata l’inesistenza del diritto ex adverso vantato e posto in esecuzione, sia proposto opposizione all’esecuzione, tanto il giudice del processo principale quanto il giudice dell’opposizione all’esecuzione, incaricato pur sempre di verificare preliminarmente la sussistenza del titolo esecutivo, siano competenti a conoscere dell’istanza risarcitoria avanzata exart. 96, comma 2, c.p.c.
Certo è che la natura sui generis della domanda (rectius, istanza[11]) risarcitoria exart. 96 c.p.c. influenza la conclusione da raggiungere sul punto, atteso che l’origine processuale del diritto che essa si pone di salvaguardare ne comporta una necessaria dipendenza e contestualità al processo (di merito) in cui si accerta l’inesistenza del diritto per cui è stata iniziata e compiuta l’esecuzione forzata “senza la normale prudenza” e a discapito della parte che ha conclusivamente vinto in giudizio. Questo processo, a parere di chi scrive, non necessariamente corrisponde, ove trattasi di titolo esecutivo giudiziale, con quello principale di merito, ossia quello di impugnazione, in quanto non è affatto scontato che l’esecuzione venga intrapresa in un momento utile perché tale circostanza possa essere dedotta in tale giudizio, vale a dire entro l’udienza di precisazione delle conclusioni.
Potrebbe invece verificarsi il caso in cui un soggetto, soccombente in primo grado, coltivi il giudizio dichiarativo di impugnazione (ipotizziamo senza ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo) e nel frattempo venga instaurata nei suoi confronti procedura esecutiva sulla base del titolo giudiziale, senza che questi instauri alcuna opposizione all’esecuzione, con successiva vittoria nel giudizio di impugnazione. Orbene, in questo caso la caducazione del titolo esecutivo verrà recepita nella procedura esecutiva con estinzione della medesima. In tale ipotesi, pare che solo il giudice del processo (dichiarativo) innanzi al quale si è accertata l’inesistenza del titolo esecutivo possa conoscere della domanda risarcitoria proposta (senza preclusioni temporali e comunque entro l’udienza di precisazione delle conclusioni) exart. 96, comma 2, c.p.c.
Peraltro, l’applicazione rigida del principio per cui l’unico giudice competente a decidere la domanda ex art. 96 c.p.c. sia quello investito, nel merito, dell’accertamento dell’inesistenza del titolo, giudiziale o stragiudiziale, su cui si fonda l’esecuzione[12], potrebbe comportare il rischio di un appesantimento del giudizio di merito e, soprattutto, un’incombenza eccessiva per il soggetto danneggiato[13]. Nel caso specifico esaminato dalla Corte di Cassazione il ricorrente ha formulato la propria istanza risarcitoria in sede di opposizione all’esecuzione e quindi dinanzi ad un giudice investito di un merito che concerne pur sempre e necessariamente le vicende relative al titolo esecutivo (giudiziale e provvisorio), ma il giudice ha ritenuto che tale istanza potesse essere formulata solo nell’apposita sede di impugnazione del titolo; questa soluzione, però, rischia di privare il soggetto della garanzia della tutela giurisdizionale, con macroscopica violazione del diritto all’azione di cui all’art. 24 della Costituzione.
Ancora, potrebbe verificarsi che l’esecutato proponga la domanda exart. 96 c.p.c. sia nel giudizio innanzi al quale contesta l’esistenza del titolo esecutivo che in sede di opposizione all’esecuzione successivamente instaurata.
In questi casi risulta assai difficile immaginare una forma di automatico raccordo tra l’oggetto del processo principale dichiarativo e quello del successivo giudizio di opposizione all’esecuzione eventualmente instaurato. Ma questo rischio non è sufficiente per escludere o ridurre l’esigenza di garantire tutela, semmai induce a chiedersi come evitare ogni sovrapposizione senza affidarsi all’operare dell’istituto della litispendenza (dovendo esso piuttosto ritenersi uno strumento correttivo di situazioni patologiche che è bene evitare con una razionale enunciazione di regole).
Si potrebbe immaginare, come sembra suggerire l’ordinanza interlocutoria, di fornire una soluzione diversificata a seconda che l’esecuzione sia stata instaurata sulla base di un titolo esecutivo giudiziale provvisorio e modificabile per mezzo dei relativi mezzi di impugnazione o meno: nel primo caso, la domanda andrà proposta dinanzi al giudice cui è demandato l’accertamento dell’inesistenza del titolo esecutivo (e dunque in sede dichiarativa di merito), purché l’azione sia stata instaurata entro l’udienza di precisazione delle conclusioni del processo di impugnazione e salve le ipotesi in cui la possibilità di proporre la predetta domanda nell’ambito del giudizio principale sia rimasta preclusa per ragioni non dipendenti dall’inerzia della parte[14], mentre nel secondo caso (e dunque sia per i titoli esecutivi stragiudiziali che per quelli giudiziali azionati solo una volta passati in giudicato), la domanda andrà proposta in sede di opposizione all’esecuzione.
[8] Cass. civ., Sez. III, 14 luglio 2015, n. 14653 e Cass. civ., Sez. III, 23 gennaio 2013, n. 1590 ove si è affermato che «il giudice cui è demandato l’accertamento dell’esistenza del diritto di iniziare o compiere l’esecuzione forzata può essere il giudice del processo nell’ambito del quale il titolo esecutivo si è formato, quando trattasi di titolo esecutivo giudiziale. Cosi (…) in ipotesi di esecuzione della sentenza di primo grado, iniziata e compiuta senza normale prudenza, l’istanza risarcitoria può e deve essere proposta nel corso del giudizio di appello senza che sia opponibile alcuna preclusione», ma si è anche specificato che «può darsi che, in ragione della minaccia o dell’avvio dell’azione esecutiva, vi sia un giudice chiamato a pronunciarsi sull’esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata perché sia stata proposta un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. » senza specificare espressamente la differenza di margini a seconda che l’esecuzione sia stata intrapresa in forza di titolo esecutivi giudiziali o stragiudiziali.
[9] V. nota che precede.
[10] V. Cass. civ., Sez. III, 23 aprile 1997, n. 3534; Cass. civ., Sez. III, 24 maggio 2003, n. 8239; Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2010, n. 10960.
[11] V. Cass. civ., Sez. III, 18 aprile 2007, n. 9297, ove si specifica che l’art. 96 c.p.c. riconosce il potere di formulare un’istanza e non quello di avanzare un’azione, disciplinando così un fenomeno che si colloca all’interno di un processo già pendente.
[12] Ex multis Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2010, n. 10960.
[13] Come osservato da G. Geraci, in Espropriazione forzata e responsabilità processuale aggravata ex art. 96 cod. proc. civ ., www.eclegal.it, 6 marzo 2018.
[14] Cass. civ., Sez. I, 20 maggio 2016, n. 10518, in cui si è affermato che «se è vero che l’azione di risarcimento dei danni ex articolo 96 c.p.c. non può, di regola, essere fatta valere in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello dal quale la responsabilità aggravata ha origine, è anche vero che tale azione è ammessa quando la possibilità di proporla sia rimasta preclusa per l’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte (v. Cass. n. 18344/2010, n. 1861/2000)».
4. L’ordinanza interlocutoria tra Progetto Esecuzioni e intervento nomofilattico
Come già anticipato, la rimessione alle Sezioni Unite della prima questione relativa alla regolazione delle spese del giudizio di opposizione in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo appare a chi scrive una soluzione “sovrabbondante” rispetto al caso di specie. Pur essendo innegabile la sussistenza del contrasto evidenziato, è vero anche che esso si sostanzia nella presenza di una sola pronuncia difforme rispetto all’interpretazione condivisa all’interno del Progetto Esecuzioni, per di più registrata in seno ad altra Sezione rispetto a quella cui è demandata la competenza esecutiva, con conseguente riduzione del rischio di una perdurante presenza di orientamenti divergenti.
L’intento programmatico del Progetto Esecuzioni risulta encomiabile nella sua mission di promozione del compito nomofilattico della Suprema Corte partendo da una più efficiente organizzazione del lavoro, dalla trattazione delle questioni in pubblica udienza (modalità procedimentale ormai “mortificata” dalla recente riforma), dalla distribuzione e selezione delle tematiche sottese alle controversie demandate alla Terza Sezione volta a ricavare congiuntamente soluzioni e orientamenti da promuovere anche presso le corti di merito, a favore di una uniforme interpretazione della legge e a tutto vantaggio della certezza del diritto. Esso, però, nella declinazione assunta nell’ordinanza interlocutoria qui esaminata, sembra stridere con l’esigenza di garantire la giustizia del caso singolo in un tempo ragionevole e manifesta una tendenza che fa strada nell’operato della Corte, figlia della mistificazione ormai consolidata relativa alla summa divisio tra ius constitutionis e ius litigatoris; quella per cui il giudice di legittimità sembra prediligere l’enunciazione di “pubblici proclami” piuttosto che la soluzione del caso singolo, affiancandosi sempre più spesso al legislatore (seppur nella legittima veste di lex loquens) e sempre più di rado al giudice di terza istanza nella controversia ad esso rimessa[15].
[15] Sul punto di rinvia agli scritti recenti di G. Scarselli, Ius constitutionis e ius litigatoris alla luce della nuova riforma del giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 2017, 355 ss., in particolare l’A., precisando l’origine storico-giuridica degli istituti e l’evoluzione sino al basso medioevo, sottolinea che: « Solo ai nostri giorni, per combinazioni difficilmente ricostruibili, queste espressioni diventano moda (…) perdono il loro autentico significato, e ne acquistano un altro (…) contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris (…) sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia. La distinzione ius constitutionis – ius litigatoris diventa così ancella della nomofilachia, e ad essa si attribuisce una contrapposizione pubblico- privato inesistente», p. 360 e C. Natalini, Ius constitutionis e ius litigatoris: aspetti storici, in Riv. dir. proc., 2018, 1147 ss.
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