Premessa
La Corte di Cassazione con ordinanza n. 18518 del 3 giugno 2020 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata con riferimento agli artt.3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt.4 bis comma 2, e 58 ter della legge n.354/75 e dell’art.2 d.l. n.152/1991 convertito nella legge 203/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste (c.d. ergastolo ostativo), che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
Orbene per comprendere la reale portata di tale decisione e definirne con chiarezza tutti gli aspetti, occorre preliminarmente precisare cosa si intenda per ergastolo ostativo, anche con riferimento al problema della conciliabilità della pena perpetua con i principi di cui all’art.27 comma 3 Costituzione, e quale l’orientamento giurisprudenziale nazionale ed europeo, tenendo presente che l’ergastolo non è una pena come le altre, solamente più lunga delle altre, perché il “fine pena mai” si traduce in una vita senza obiettivi né speranza ed il tempo carcerario riempito da nulla che non sia il suo mero trascorrere.
”Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà che, divenuto bestia di servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato”. Con tali parole Cesare Beccaria nelle sue argomentazioni contro la pena di morte poneva in risalto la forza dell’efficacia intimidativa della pena perpetua, una pena usque ad mortem che esprime un assolutismo retributivo.
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L’art.4 bis O.P. e l’introduzione del c.d. ergastolo ostativo
L’art.4bis, introdotto nell’ordinamento penitenziario con il d.l. 152/91, riformulato con il d.l. 306/92, modificato e ritoccato nel 1993 e sostituito dalla legge n.279/2002[1], è norma particolarmente complessa che disegna una disciplina speciale e differenziata per la concessione dei benefici penitenziari, misure alternative e liberazione condizionale, a detenuti per i quali, in considerazione del tipo di reato, viene introdotta una presunzione assoluta di pericolosità sociale. Lo scopo originario, cioè quello di prevedere un regime penitenziario differenziato al fine di contrastare il fenomeno della criminalità organizzata tornata in auge con tutta la sua recrudescenza, ed incentivare la collaborazione quale strategia di lotta, si amplia rendendo la norma una disposizione estremamente variegata che si applica ad una serie di categorie di condannati eterogenei accomunati da un presunzione di pericolosità, per diventare un meccanismo di creazione di percorsi penitenziari intramurari alternativi scevri da una logica rieducativa ed ispirati alla mera retribuzione di condotte percepite dall’opinione pubblica allarmanti[2].
Tale disposizione apre una nuova stagione per la struttura, per la funzione, per le stesse logiche ispiratrici della normativa penitenziaria e costituisce il punto di arrivo di quell’orientamento favorevole a ritenere che la linea di difesa dell’ordinamento penitenziario nei confronti della criminalità organizzata dovesse essere costruita differenziando il regime probatorio afferente alla concessione delle varie misure rieducative[3].
Per la parte che interessa la presente trattazione, si distinguono i delitti cc.dd. di prima fascia, tra i quali spiccano il delitto di cui all’art.416bis c.p., 416 ter, delitti commessi avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo mafioso e della condizione di assoggettamento che ne deriva, delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa[4], per i quali i condannati possono essere ammessi ai benefici penitenziari, misure alternative e liberazione condizionale solo se collaborino con la giustizia a norma dell’art.58ter o.p., la collaborazione quindi assume un peso decisivo divenendo comportamento produttivo di vantaggi non altrimenti conseguibili.
E’ previsto, inoltre, un meccanismo di attenuazione dell’ostatività preclusiva, infatti i benefici possono essere concessi ai detenuti per uno dei delitti di prima fascia purché siano acquisiti elementi tali da far escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un utile collaborazione con la giustizia[5], nonché nei casi in cui la collaborazione, pur se resa, può risultare oggettivamente irrilevante[6] allorché al condannato sia stata riconosciuta una delle seguenti circostanze attenuanti: riparazione del danno o eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (art.62 co.6 c.p.); contributo di minima importanza nel concorso di persone nel reato (art.114 c.p.); concorso in un reato più grave di quello voluto (art.116 co.2 c.p.).
Prende forma quello che la dottrina designerà come ergastolo ostativo: un ergastolo che esclude qualsiasi possibilità di ritorno, sia temporaneo sia definitivo, alla società libera, sulla base di una doppia presunzione: i soggetti condannati a tali crimini, oggettivamente odiosi e gravi, vengono considerati ex lege in stato di perdurante pericolosità sociale, la quale si fonda sull’equiparazione legale assoluta tra non cooperazione ex art.58 ter o.p. e permanenza nel sodalizio mafioso.
La Corte di Cassazione[7], con la sentenza n.18206 del 2014, nega l’esistenza nell’ordinamento giuridico di un autonomo tipo di pena qualificabile come ergastolo ostativo, chiudendo ogni spiraglio per il riconoscimento della figura nell’ordinamento giuridico. In tale sentenza la Corte rigetta la questione di illegittimità costituzionale dell’art.4bis 1^ co. o.p. per violazione dell’art.27 comma 3 Cost., sollevata nei confronti dell’ordinanza di rigetto del reclamo proposto da un ergastolano avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di permesso premio, motivando il provvedimento per relationem con rinvio alla sentenza della Corte Costituzionale n.135/2003.
Nonostante tale pronuncia, nella sostanza, da un lato vi è la perpetuità della pena dell’ergastolo comune, attenuata a seguito di talune pronunce giurisprudenziali, dall’altro quello ostativo che pospone le istanze della rieducazione all’intento di incentivare la dissociazione da organizzazione criminali[8].
L’inconciliabilità del carattere di perpetuità della pena con i principi di cui all’art.27 comma 3 della Costituzione si attenua quando con riferimento all’ergastolo comune la legge n.1634 del 1962 estende la possibilità di accedere alla liberazione condizionale anche agli ergastolani, scontati 28 anni di pena. Il carattere perpetuo dell’ergastolo viene, pertanto, per la prima volta significativamente eroso: il condannato ha la possibilità di un ritorno nella società libera, oltre che in caso di grazia o di amnistia, anche per effetto di prove costanti di buona condotta. Nel 1974 con la sentenza n.264 la Corte Costituzionale respinge la questione di legittimità affermando la compatibilità dell’art.22 c.p. con il dettato dell’art.27 comma 3 Cost., considerata proprio la possibilità data all’ergastolano di accedere alla libertà condizionale nonché il concetto di polifunzionalità della pena.
Ma la legge n.354 del 1975, c.d. riforma dell’ordinamento penitenziario, non aveva ammesso gli ergastolani al beneficio della liberazione anticipata, non potevano quindi beneficiare degli sconti di pena utili per poter accedere alla liberazione condizionale, così come erano esclusi dal beneficio della semilibertà. La Corte nel 1983 con la sentenza n.274 rileva che la partecipazione alla rieducazione che serve per la liberazione anticipata, è propedeutica al sicuro ravvedimento che serve invece per la liberazione condizionale. Se la condizionale rende costituzionalmente compatibile l’ergastolo, allora non è possibile non estendere agli ergastolani la possibilità della liberazione anticipata poiché entrambi rendono concreta la rieducazione delle pene. Sarà, poi, la legge n.886 del 1986 che ribalterà la scelta del legislatore del 1975 di escludere l’applicabilità della liberazione anticipata al condannato all’ergastolo, ridurrà a 26 gli anni per l’ammissione alla libertà condizionale, ammetterà la semilibertà dopo aver scontato 20 anni di pena ed il beneficio dei permessi premio dopo aver scontato 10 anni di pena, dimostrato ovviamente la regolare condotta, la non pericolosità sociale e la necessità di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.
Seguiranno altre pronunce della Corte Costituzionale, di particolare rilievo la sentenza n.168 del 1994 in tema di ergastolo e minore età del condannato dove si ravvisa l’illegittimità della pena rispetto agli artt.27 comma 3 collegato all’art. 31 comma 2, in tema di protezione dell’infanzia e della gioventù, e la sentenza n.161 del 1997 nella quale la Corte dichiara l’illegittimità del divieto di riammettere alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo che abbia subito la revoca del beneficio.
In sintesi la Corte Costituzionale non ha mai contrastato frontalmente l’ergastolo, anzi ha sempre premesso la sua legittimità, ma ha sistematicamente ampliato gli spazi degli istituti penitenziari che possono coinvolgere l’ergastolano in un percorso di reinserimento sociale, un percorso che deve anche ad esso essere aperto.
Il superamento del carattere di perpetuità della pena dell’ergastolo nella direzione indicata dall’art.27 comma 3 Cost. all’indomani della nota legge Gozzini, la cui ratio è appunto ispirata all’ideale rieducativo ed al principio di flessibilità della pena, subisce una battuta d’arresto con la legislazione di emergenza degli anni novanta, e l’introduzione dell’ergastolo ostativo.
Indubbiamente la scelta del legislatore di porre nei confronti degli autori di alcuni crimini efferati e di particolare allarme sociale previsioni più stringenti per l’accesso ai benefici rispetto alla generalità dei casi non può non essere comprensibile, né si vuole sminuire, ignorare o soprassedere alla gravità dei fatti, ma ragionando in termini costituzionali non possono non sollevarsi dubbi sulla compatibilità dell’ergastolo ostativo con il principio di rieducazione della pena, nonostante l’orientamento della Corte Costituzionale volto al superamento delle perplessità.
Infatti la Corte costituzionale, nella sentenza n.306 del 1993, seguendo in verità iter argomentativi non sempre del tutto convincenti, ritornando al concetto di polifunzionalità della pena, e precisando che non possa stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta tra le diverse funzioni che valga una volta per tutte ed in ogni condizione, riconosce che il legislatore possa, nei limiti della ragionevolezza, far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata.
Proseguendo nelle argomentazioni, riconosce la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi solo ai detenuti che collaborano con la giustizia, rispondente all’effettiva necessità che lo Stato apprestasse una risposta sanzionatoria efficace ed efficiente capace di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa, tuttavia constata che la scelta concretamente attuata abbia comportato una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena: definisce preoccupante la configurazione ex lege di tipi di autore individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Ciononostante evidenzia che l’operato del legislatore abbia escluso che il perseguimento della finalità rieducativa potesse considerarsi vanificato per i detenuti che volessero realmente fruire delle misure risocializzanti previste; in definitiva si ritiene lecita la scelta di ancorare la possibilità di accesso ai benefici menzionati all’art.4 bis alla collaborazione con la giustizia ex art.58ter: quest’ultima viene considerata indicatore affidabile dell’assenza di pericolosità sociale, in quanto elemento da cui dedurre l’avvenuta dissociazione dal sodalizio criminale.
Ancora con la sentenza n.135 del 2003 la Corte dichiara non fondata la questione di illegittimità costituzionale posta dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, che riteneva l’impedimento all’ammissione alla libertà condizionale posto dalla mancata collaborazione un’esclusione permanente ed assoluta di tali detenuti dal processo di rieducazione e reinserimento sociale. La Corte afferma, al riguardo, che la collaborazione richiesta è solo quella naturalisticamente e giuridicamente possibile, e pertanto la preclusione prevista dall’art.4 bis 1^ co. o.p. non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo: tale disciplina non preclude in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è data la possibilità di cambiare la propria scelta.
Secondo i giudici l’ergastolo ostativo non è de jure una pena perpetua: se nella concreta realtà dei fatti esso si manifesta come tale, ciò dipende dalla scelta del condannato che dimostra di preferire la detenzione senza fine alla collaborazione.
Considerato ciò però occorre interrogarsi circa la logica sottesa all’esclusione del condannato non collaborante dalle misure premiali.
I dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art.4bis 1^ co. o.p.: dalle proposte di riforma alla pronuncia della consulta n.149/2018
La criticità dell’ergastolo ostativo risiede nella rigida condizionalità tra condotta collaborativa e accesso ai benefici (condotta ritenuta equivalente, per fictio iuris, al progresso nella risocializzazione), dalla quale discende l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, non tenendosi conto di altri elementi che permetterebbero di valutare il percorso detentivo del condannato ed i progressi compiuti. Si tratta di una presunzione assoluta poiché prevede un automatismo che priva il giudice, nel singolo caso concreto, di valutare il percorso di rieducazione in assenza della collaborazione. Può dunque accadere che un condannato che abbia pienamente e definitivamente ripudiato le scelte di vita criminale, a seguito di un processo di interiore revisione critica del passato che lo conduca a una nuova coscienza sociale[9], rimanga in carcere in applicazione dell’art.4bis co.1. o.p..
Considerare rieducato il solo condannato che collabora, inoltre, non tiene conto dei diversi e comprensibili motivi per cui non è sempre facile collaborare. Alcune volte l’assenza di collaborazione può essere l’effetto del timore del condannato di subire gravi ritorsioni anche ai danni dei suoi familiari, non sempre i programmi di protezione risultano idonei allo scopo che si prefiggono; altre il detenuto decide di non collaborare in quanto non disponibile a barattare la propria libertà personale con la libertà altrui, altre ancora per rivendicare la propria innocenza.
Inoltre, oggetto di critica è la configurazione del sistema che ricorre alla pena perpetua come strumento per ottenere la collaborazione, uno strumento di pressione per indurre il detenuto a rivelare informazioni utili per smantellare i sodalizi criminali, obiettivi comprensibili ma estranei alla logica di una democrazia costituzionale ove sono i mezzi a prefigurare i fini[10].
Ancora la pena perpetua, secondo la dottrina[11], si risolve in un trattamento contrario al senso di umanità, è la pena crudele per antonomasia inflitta per una situazione successiva al reato, per il comportamento non collaborativo adottato, in presenza del quale è escluso qualsiasi contatto con il mondo esterno.
Così come la fissità della pena, e quindi l’impossibilità di modularne il quantum, fa sì che l’ergastolo, e ancor più quello ostativo, non appaiano in linea con i principi di eguaglianza, rieducazione e personalità della responsabilità penale.
A parere della dottrina[12] il problema è essenzialmente di limiti, non si critica che la condotta ex art.58ter o.p. possa essere rilevante prima o anche dopo la sentenza di condanna, bensì si contesta che il giudice non possa valutare altri elementi e si propone di mutare in relativa l’attuale presunzione assoluta.
A tale orientamento aderisce anche il legislatore, sensibile negli ultimi anni alle critiche mosse all’asperità della disciplina dell’ergastolo ostativo, con alcune proposte di riforma che restano però solo dei tentativi.
La proposta elaborata nel 2014 dalla Commissione ministeriale, istituita con il decreto del 10 giugno 2013 (c.d. Commissione Palazzo), lontana da logiche abolizionistiche della norma, intendeva consentire l’accesso ai benefici penitenziari anche in tutti i casi in cui risultasse che la mancata collaborazione non escluda il sussistere di presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati. Pur salvaguardando la via della collaborazione con la giustizia si attribuiva alla magistratura di sorveglianza il potere di valutare la posizione del detenuto, anche se non collaborante, sulla scorta di tutti gli ulteriori elementi, dal percorso trattamentale intramurario, all’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata (desumibile dalle informative della pubblica autorità), alla presenza di riparazione e/o ravvedimento[13].
Sulla stessa linea, nel 2016 il Tavolo 16 (in tema di Trattamento. Ostacoli normativi sulla individualizzazione del trattamento rieducativo) degli Stati Generali dell’esecuzione penale: anche in tale occasione pur mantenendo fermo il combinato disposto di cui agli artt.4bis e 58ter o.p., si proponeva di incidere direttamente sulla disposizione che delinea la collaborazione utile con la giustizia, inserendo al co.1bis dell’art.58 un ulteriore indice legale (diverso dalla collaborazione) dell’aver prestato attività riparatorie che diano segno tracciabile sia del ravvedimento personale del detenuto sia della sua volontà di esteriorizzare tale percorso, e renderlo fruibile alla società (e alle vittime del reato)[14].
Infine, la c.d. legge Orlando[15] delegava il governo ad intervenire in materia di ordinamento penitenziario, rimuovendo gli automatismi che ostacolano l’individualizzazione del trattamento rieducativo e ripensando al regime d’accesso ai benefici penitenziari. Tuttavia il decreto legislativo di attuazione n.214/2018, complice anche il mutato clima politico, non ha modificato le norme relative all’accesso ai benefici penitenziari da parte degli ergastolani ostativi non incidendo sulla relativa disciplina.
Anche la Corte Costituzionale sembra smussare l’orientamento rigoroso di compatibilità dell’ergastolo ostativo con i principi costituzionali con la sentenza del 21 giugno 2018 n.149 che, pur intervenendo su di un aspetto specifico dell’ergastolo[16] diverso da quello che interessa questa trattazione, può essere letta più in generale quale sintomatica di un atteggiamento di maggiore sensibilità in punto di implicazioni del principio rieducativo[17].
Nella sentenza si afferma che una volta che il condannato all’ergastolo abbia raggiunto nell’espiazione della propria pena soglie temporali ragionevolmente fissate dal legislatore e abbia dato prova di positiva partecipazione al percorso rieducativo, eventuali preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari possano legittimarsi sul piano costituzionale soltanto laddove presuppongono pur sempre valutazioni individuali, da parte dei competenti organi giurisdizionali, relative alla sussistenza di ragioni ostative di ordine specialpreventivo, sub specie di perdurante pericolosità sociale del condannato. Ciò aggiungendo che preclusioni assolute all’accesso anche se dettate dall’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati, se possono essere legittimamente considerate dal legislatore nella fase di comminazione della pena non possono fondare presunzioni assolute nella fase di verifica del grado e dell’adeguatezza delle misure cautelari durante il processo e nemmeno possono nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima.
Per la prima volta la Corte pronuncia una dichiarazione di illegittimità costituzionale che investe frontalmente una forma di ergastolo, spingendosi ad affermare “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” e riconoscendo il principio di progressività trattamentale e flessibilità della pena come diretta attuazione del canone costituzionale della rieducazione del condannato.
La sentenza della CEDU sul caso Viola c/ Italia a sostegno dell’illegittimità dell’art.4bis1^ co. o.p.
Il 13 giugno 2019 la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata per la prima volta sul c.d. ergastolo ostativo, nel caso Viola c/ Italia, ritenendo che l’attuale disciplina della fattispecie violi il principio della dignità umana, desumibile dall’art.3 Cedu che recita “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamento inumano o degradante”. Infatti pur non trovando esplicita previsione nella convenzione, è stata riconosciuta come fondamento e principio guida dell’intero sistema convenzionale di protezione dei diritti umani. Principale scopo dell’art.3 è proteggere l’integrità fisica e psichica della persona. La dignità deve essere garantita in ogni tempo e indipendentemente da situazioni contingenti ed il divieto di violare la dignità umana non deve ammettere alcuna deroga.
L’ergastolo ostativo confrontato con l’articolo 3 pone un triplice problema: non è degradante costringere delle persone, a pena di concludere i propri giorni di vita in un carcere, senza alcuna altra possibilità, a scelte che possono mettere a repentaglio la vita e l’incolumità propria e dei familiari, dei conoscenti o di qualsiasi altra inconsapevole persona? non è inumano strumentalizzare il reo per il raggiungimento di fini pur meritevoli di protezione, dal momento che il rispetto della dignità umana impedisce di degradare l’uomo da fine a mezzo? non è inumano e degradante l’assioma a fondamento dell’ergastolo ostativo, vale a dire l’automatismo legislativo in base al quale chi non collabora è socialmente pericoloso a nulla rilevando ogni altra valutazione riguardante come è trascorso il tempo in carcere e i progressi trattamentali attestati dalle relazioni delle autorità penitenziarie?[18]
Il ricorso era stato promosso da un ergastolano ostativo cui i giudici italiani avevano negato l’accesso alla misura della liberazione condizionale in ragione della sua mancata collaborazione con la giustizia, ritenuta possibile e rilevante nel caso di specie, e nonostante la sua reiterata professione di innocenza. L’8 ottobre la Corte EDU rigettava la richiesta del Governo Italiano, presentata ai sensi dell’art.43 della convenzione EDU, di rinvio alla Grande Camera e la sentenza di condanna diveniva definitiva.
Punto di partenza del ragionamento della Corte EDU è il richiamo ai principi elaborati in materia nelle note sentenze Vinter e Hutchinson c. Regno Unito e Murray c. Paesi Bassi: il sistema di tutela dei diritti creato dalla Convenzione non osta, di per sé, all’applicazione di una pena perpetua là dove siano commessi gravi delitti. Tuttavia, affinché sia rispettato il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art.3 Cedu, è necessario che tale pena sia riducibile de iure e de facto, vale a dire è necessario che l’ordinamento assicuri un meccanismo di revisione della condanna alla pena perpetua che offra al condannato, decorso un certo periodo di detenzione, concrete possibilità di liberazione. Infatti il principio della dignità umana che discende dall’art.3 Cedu impedisce di privare gli individui della propria libertà senza garantire loro, al contempo, la possibilità, la speranza di poter, un giorno, riacquistare la libertà[19].
A tal proposito la Corte ritiene che l’art.4bis 1^ co. o.p. non precluda in maniera assoluta e con effetto automatico la possibilità per l’ergastolano di accedere alla liberazione condizionale, pur subordinando tale possibilità alla scelta di collaborare con la giustizia.
La Corte evidenzia che la collaborazione può essere premiata attribuendo vantaggi, ma sanzionare la condotta non collaborante significa punire il soggetto per l’esercizio di un diritto espressione della proprie libertà morale: il diritto al silenzio riconosciuto nella giurisprudenza della stessa Corte, nella normativa dell’UE -Direttiva UE 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.01.2016. Il diritto al silenzio proiezione della libertà morale e quindi riconducibile alla dignità umana non può prima esistere e dopo scomparire. Se una persona ha diritto al silenzio durante il processo, egli deve mantenerlo a maggior ragione in seguito, nel momento in cui la sua libertà personale è ristretta in un penitenziario, ipotesi che comporta inevitabilmente un livello (che dovrebbe essere minimo) di sofferenza[20]. Inoltre i giudici nutrono perplessità sia in ordine al carattere libero della scelta di non collaborare sia in ordine all’adeguatezza e ragionevolezza dell’equazione della mancata collaborazione con la presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato.
La Corte rileva, infatti, che spesso la scelta di non collaborare non è dettata da una permanente adesione ai valori criminali, ma piuttosto, ad esempio, dalla preoccupazione di mettere in pericolo la propria vita e quella dei famigliari, per questo motivo non può essere intesa come libera e volontaria. Inoltre non deve trascurarsi l’ipotesi che la collaborazione sia determinata da finalità meramente opportunistiche e, pertanto, in tali ipotesi non corrisponde ad una effettiva rivisitazione critica della propria condotta criminale o ad una effettiva interruzione dei contatti con l’associazione mafiosa.
Senza escludere che la collaborazione o la sua assenza siano in realtà significative sul punto della pericolosità attuale del detenuto, ha valutato negativamente il carattere di presunzione assoluta di pericolosità in considerazione della sua possibile equivocità e per altro verso della possibile rilevanza di altri elementi, rilevanti e significativi in concreto per una decisione di concessione dei benefici penitenziari. Infatti la Corte rileva che non si tiene conto dell’eventuale percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti nel corso dell’esecuzione penale, peraltro, limitando il ruolo dell’autorità giudiziaria alla verifica, in positivo o in negativo, dell’avvenuta collaborazione, senza possibilità alcuna di valutare il soggetto ed il suo vissuto. La personalità dell’individuo in realtà non può essere cristallizzata al momento dell’ingresso in carcere perché essa può evolversi e di tali cambiamenti deve tenersi conto.
In sostanza la scelta del legislatore italiano rende non riducibile di fatto la pena dell’ergastolo ostativo. Né depone in senso contrario il fatto che il sistema consenta al detenuto di ottenere la grazia del Presidente della Repubblica o la sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute. La prima non è mai stata concessa ad un ergastolano ostativo, la seconda invece è una sorta di ultima spiaggia destinata a dar voce ad esclusive istanze di carattere umanitario.
Le legittime esigenze di tutela della collettività e di prevenzione generale perseguite dal legislatore italiano, particolarmente pressanti dinanzi alla gravità del fenomeno mafioso, non possono giustificare deroghe all’art.3 Cedu.
Tuttavia la Corte ha cura di precisare che il riconoscimento della violazione dell’art.3 Cedu nel caso di specie non significa che al detenuto debba essere riconosciuta una prospettiva di liberazione immediata.
La violazione dichiarata dalla Corte rileva un problema strutturale che va rimosso modificando la legge secondo quanto impone l’art.46 della Convenzione, lo Stato italiano deve attuare una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento, al punto che nessun motivo legittimo di ordine penologico giustifichi più la detenzione. Inoltre la riforma deve garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. La Corte pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della dissociazione dall’ambiente mafioso, considera che questa rottura possa esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia e dall’automatismo legislativo attualmente in vigore[21].
Il recente orientamento della Corte Costituzionale nella sentenza n.253/2019
In linea con le critiche sollevate e i dubbi espressi da più parti sul c.d. ergastolo ostativo e sulla compatibilità delle previsioni di cui all’art.4bis 1^ co. o.p. rispetto al sistema di valori posti a fondamento del nostro ordinamento e delle convenzioni europee, la Corte di Cassazione penale ed il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, con ordinanze rispettivamente del 20 dicembre 2018 e del 28 maggio 2019, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art.4 bis 1^ co. o.p. in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione. In entrambi i giudizi trattasi di mancata concessione del beneficio del permesso premio ex art.30ter o.p., nel primo caso per mancata collaborazione con la giustizia da parte di un condannato all’ergastolo per concorso esterno in associazione mafiosa, nel secondo da parte di un condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art.416bis c.p. della quale sia stato partecipe.
Entrambi i giudici capitalizzano alcuni più recenti orientamenti della Corte costituzionale[22], a dimostrazione di una sua progressiva presa di coscienza circa le criticità costituzionali del regime ostativo penitenziario e valorizzano l’evoluzione della giurisprudenza della medesima Corte circa la finalità della pena riconosciuta ora nella sua indefettibile funzione rieducativa, da quando nasce nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, coerentemente con il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena.
I giudici rilevano la violazione dell’art.3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’art.4bis 1^ co. o.p. conterrebbe una preclusione assoluta di accesso ai benefici che non consente di operare alcun tipo di differenziazione e che comporta la presunzione assoluta di pericolosità sociale in assenza di collaborazione con la giustizia, elevando quest’ultima a prova legale esclusiva dell’avvenuto ravvedimento, e la violazione dell’art.27 Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe gli obiettivi di risocializzazione, anche in virtù dei principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena. La presunzione assoluta di pericolosità sociale che consegue all’assenza di collaborazione impedisce al giudice di verificare in concreto la ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art.30 ter o.p..
I dubbi, peraltro, aumentano a parere dei giudici se si considerano le peculiarità del permesso premio che possiede una connotazione di contingenza che non ne consente l’assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione, perché non modifica le condizioni restrittive del condannato: soltanto rispetto a queste ultime le ragioni di politica criminale sottese alla preclusione assoluta potrebbero apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata. I permessi premio costituirebbero parte essenziale del trattamento rieducativo, sicché ove non concessi a causa di una presunzione di pericolosità non altrimenti vincibile sarebbero compromesse le stesse finalità costituzionali della pena detentiva. Tale tipologia di beneficio, infatti, troverebbe fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, caratterizzandosi come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate, seppure non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessità. In ragione di queste peculiarità i giudici ritengono che vi sia la possibilità anche in assenza di collaborazione di verificare in concreto la mancanza di elementi significativi di collegamenti con la criminalità organizzata o di accertare addirittura elementi denotanti un significativo distacco dal sistema subculturale criminale. Ed anzi la concessione premiale per una finalità limitata e contingente potrebbe sortire l’effetto di incentivare il detenuto a collaborare con l’istituzione carceraria.
Infine, nelle ordinanze di rimessione entrambi i giudici mirano ad una sentenza di accoglimento di tipo additivo: la disposizione impugnata sarebbe incostituzionale nella parte in cui esclude dalla possibile fruizione del permesso premio l’ergastolano ostativo che non abbia collaborato con la giustizia. L’accoglimento non comporterebbe una automatica concessione del beneficio richiesto, consentendo semmai al giudice una valutazione concreta e individualizzata della pericolosità sociale del detenuto oggi solo presunta, e fermo restando l’accertamento del requisito di legge circa l’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
Preliminarmente la Corte Costituzionale rileva di riunire i due giudizi che vengono decisi con un’unica pronuncia, in quanto le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali.
Inoltre, con riferimento alla prospettazione nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione della violazione dell’art.117 1^ co. Cost. in relazione all’art.3 della convenzione EDU, trattandosi di censura che il collegio rimettente non ha inteso proporre nell’atto di promovimento, la Corte decide di non occuparsene[23].
Ancora evidenzia che la questione oggetto di decisione riguarda esclusivamente il beneficio del permesso premio, perché è solo ad esso che le due ordinanze fanno riferimento, non anche alle altre misure indicate nell’art.4bis 1^ co. o.p..
Venendo al merito, la Corte chiarisce che non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta, e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge il confronto con gli artt.3 e 27 Cost. una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Questo sotto tre profili: “perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante; perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato in contrasto con la funzione rieducativa; perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta a determinate condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza”[24].
Pertanto viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.4bis 1^ co. o.p. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art.416bis c.p., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste nello stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art.58ter o.p., allorché siano stati acquisiti elementi tali da far escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti[25].
Conclusioni
Pur considerando necessaria la risposta severa dello Stato di fronte all’efferatezza di taluni crimini, non si può non considerare l’evidente contrasto tra il fine pena mai e la funzione della pena tendente alla rieducazione e risocializzazione del condannato.
In sostanza la carcerazione perpetua è caratterizzata da una natura eliminativa che l’ avvicina alla pena capitale, in quanto distrugge il tempo del condannato. Lo priva di un futuro, della speranza, intrappola il condannato in un immutabile presente del tutto alieno dalla condizione umana mai uguale a se stessa. Non si può negare al condannato di divenire altro rispetto al gesto compiuto, quindi, senza introdurre automatismi che si tradurrebbero nella rinuncia della punizione esemplare da parte dello Stato e nel disconoscimento del diritto di giustizia delle vittime, il giudice si riappropria del potere di valutare i cambiamenti e i progressi di cui l’essere umano è capace. Si tratta in sostanza di recuperare nell’alveo costituzionale l’ergastolo ostativo, senza svuotarlo di significato ed anzi rafforzandone la legittimità di pena in sintonia con i valori cui si ispira il sistema di norme italiano ed europeo. Le legittime e comprensibili istanze di difesa sociale e sicurezza della collettività sono fatte salve dall’assenza di qualsiasi automatismo, i benefici non potranno essere concessi sul semplice presupposto del tempo di pena espiato, centrale è la valutazione del magistrato di sorveglianza sulla condotta del detenuto e la sua evoluzione.
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Note
[1] Tale legge, retta da una logica emergenziale, introduce tra i reati ostativi quello di riduzione in schiavitù, il reato di tratta di persone, e quello di acquisto e alienazione di schiavi, è seguita dalla legge n.38/2006 con la quale il legislatore qualifica come ostativi i reati inerenti lo sfruttamento sessuale dei bambini, la pedopornografia anche a mezzo internet, e infine dal d.l. n.11 del 2009, noto come il Pacchetto Sicurezza, che introduce altri reati a sfondo sessuale considerando ostativi quelli tra questi considerati più gravi.
[2] C.CESARI – G. GIOSTRA, Art.4 bis ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2011 p.70
[3] La formulazione originaria dell’art.4 bis o.p., di cui al d.l. n.152/91, prevedeva i reati di mafia o di eversione in presenza dei quali il detenuto poteva ottenere la concessione di un beneficio solo provando l’insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (prova negativa) e reati che denotato una peculiare pericolosità, individuati tassativamente, in presenza dei quali avrebbe dovuto acquisirsi la prova dell’attuale sussistenza di detti collegamenti per poter negare il beneficio richiesto (prova positiva). Inoltre ai sensi dell’art.58 ter “i limiti di pena di cui al comma 1 dell’art.21, del comma 4 dell’art.30 ter e del comma 2 dell’art.50 non si applicano a coloro che collaborano con la giustizia, ossia a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”. La collaborazione ha quindi natura derogatoria, ossia ai collaboranti non si applicano i maggiori limiti di pena previsti per l’accesso ai benefici da parte dei condannati non collaboranti.
[4] Tra gli altri delitti cc.dd. di prima fascia si citano: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù; prostituzione minorile; pornografia minorile; tratta di persone; violenza sessuale di gruppo; sequestro di persona a scopo di estorsione; associazione per delinquere a fini di traffico illecito di sostanze.
[5] Corte Costituzionale 1^ marzo 1995 n.68, www.giurcost.org
[6] Corte Costituzionale 27 luglio 1994 n.357, www.giurcost.org
[7] www.cassazione.it
[8] Questa almeno la logica originaria nella fase in cui i destinatari d’elezione erano esponenti della criminalità organizzata, una logica che oggi con l’ampliamento del catalogo dei reati di prima fascia pare aver ceduto il passo a mere finalità di prevenzione generale mediante intimidazione.
[9] A. PUGIOTTO, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è incostituzionale, in F. CORLEONE – A. PUGIOTTO (a cura di), Il delitto della pena, Roma, 2012 p.118 e ss..
[10] Vi è differenza concettuale e giuridica tra premiare la cooperazione e punire la non cooperazione, si può incentivare la scelta di collaborare ma si ritiene che non la si possa coartare. C. MUSUMECI, A. PUGIOTTO, D. GALLIANI, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli 2016
[11] C.MUSUMECI, A. PUGIOTTO, D. GALLIANI, Gli ergastolani, op.cit.; M. TORCHIO, Cattivi, Torino, 2015
[12] E. DOLCINI La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano, Appunti e riflessioni, in diritto Penale contemporaneo, 17 dicembre 2018
[13] Sul punto Le conclusioni della commissione Palazzo per la riforma del sistema sanzionatorio penale in www.penalecontemporaneo.it
[14] Stati Generali dell’Esecuzione penale, tavolo 16, trattamento – Ostacoli normativi all’individualizzazione del trattamento rieducativo, in www.giustizia.it.
[15] “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” c.d. riforma Orlando approvata 14 giugno 2017, art.1 comma 85 lettera e
[16] Art.58 quater co.4 o.p. con riferimento ai casi in cui la condanna sia pronunciata per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione o per sequestro di persona a scopo di estorsione seguiti dalla morte della vittima, forma di ergastolo che si rivolge ad una gamma ristretta di destinatari e che impedisce al condannato anche se collaborante, di accedere ad alcuno dei benefici indicati dall’art.4bis co. 1 o.p. prima di aver espiato ventisei anni di reclusione.
[17] E. DOLCINI “Dalla Corte Costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e di rieducazione del condannato), Diritto penale contemporaneo, 18 luglio 2018
[18] Ricorso n.77633/16 Viola v. Italy – www.penalecontemporaneo.it
[19] S. SANTINI “Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana” 1^ luglio 2019 – www.penalecontemporaneo.it
[20] Ricorso n.77633/16, op.cit.
[21] V. ZAGREBELSKY La pena detentiva fino alla fine e la convenzione Europea dei Diritti Umani e delle libertà Fondamentali in Volume Amicus Curiae 2019 “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”- www.forumcostituzionale.it
[22] Si fa riferimento alle pronunce sulla pericolosità sociale di persone imputate o indagate per reati di criminalità organizzata, per le quali la Corte ha fatto cadere l’automatismo della custodia cautelare in carcere (sentenza n.48/2015 e n.57/2003). Si richiamano le decisioni di incostituzionalità di situazioni di automatismo nell’ambito della detenzione domiciliare speciale e ordinaria che l’art.4bis comma 1 o.p. precludeva alle detenuti madri di infanti, se condannate per un reato ostativo (sentenza n.76/2017 e 239/2014). Tale giurisprudenza sembrerebbe negare copertura all’idea che al scelta collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento. Si attinge infine alla sentenza n.149/2018.
[23] Infatti non possono essere presi in considerazione profili di legittimità dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione, e ciò sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità. (Corte Costituzionale sentenze nn.226, 206, 141, 96 e 78 del 2019)
[24] www.cortecostituzionale.it
[25] La Corte estende l’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa a tutti i reati previsti dal 1^ comma dell’art.4bis o.p., al fine di non creare una paradossale disparità, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza.
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