I fatti ad oggetto del giudizio
In esito agli accertamenti effettuati dall’Agenzia Regionale per l’Ambiente sulla presenza di rifiuti abbandonati presso lo stabilimento di un’ impresa che ha cessato l’attività per la dichiarazione del suo fallimento, il Comune ha emesso un’ordinanza contingibile e urgente, ai sensi degli artt. 192 d.lgs. n. 152/2006 (‘TU ambiente’) e 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 (‘TU enti locali’), nei confronti del curatore fallimentare, ingiungendogli la rimozione, l’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Il curatore, tuttavia, ha comunicato di non poter svolgere tali attività per insufficienza di fondi nella massa attiva ed ha impugnato l’ordinanza.
In particolare, il curatore fallimentare contesta la titolarità passiva in capo allo stesso degli obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n.152/2006 e per contestare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza previsto dall’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000.
Il Tar ha accolto il ricorso motivando circa l’insussistenza della qualità di “detentore” dei rifiuti in capo al curatore fallimentare, e dunque del suo obbligo di rimozione degli stessi. Lo stesso Tribunale, pur dando atto dei diversi orientamenti della giurisprudenza in materia, ha infatti ritenuto di condividere la tesi secondo cui gli obblighi di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 non si possano riferire al curatore fallimentare, perché in contrasto sia con il principio comunitario del “chi inquina paga”, sia con le norme del diritto fallimentare che ne disciplinano la funzione.
Contro la sentenza del giudice di primo grado ha proposto appello il Comune, contestando la parte della sentenza in cui veniva dichiarata l’insussistenza dell’obbligo del curatore di rimuovere i rifiuti. Secondo l’appellante erroneamente il Tar avrebbe ritenuto che il curatore non sarebbe legittimato passivamente ad eseguire l’ordinanza, aderendo senza un’adeguata motivazione alla tesi che non ravvisa nel curatore fallimentare una figura di “detentore” dei beni del fallito. Secondo il Comune appellante, invece, sarebbero ben note nel nostro ordinamento giuridico ipotesi di responsabilità del terzo (in materia civilistica, il rapporto di fideiussione e, in materia fiscale, la figura del sostituto di imposta). Inoltre, per l’appellante, anche la giurisprudenza comunitaria avrebbe sottolineato che la tutela ambientale, in base al principio “chi inquina paga”, può essere realizzata imponendo l’obbligo di smaltimento dei rifiuti ai soggetti che sono ‘all’origine dei rifiuti’, a prescindere se costoro siano detentori o precedenti detentori degli stessi o anche fabbricanti del prodotto che ha generato i rifiuti (cfr. CGUE, Grande sezione, n. 188/2008 e CGUE, sez. VI, n. 551/2014). Sarebbe dunque inconferente il richiamo operato nella sentenza al principio “chi inquina paga”, in relazione alla normativa interna sugli illeciti penali delle persone giuridiche (d.lgs. n. 231/2001), in quanto tale normativa riguarderebbe tematiche estranee alla tutela ambientale di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006.
L’Amministrazione comunale, infine, ribadisce la sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti per l’emanazione di una ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 270/2000. L’ambiente costituirebbe infatti un bene giuridico che il legislatore tutela in due disposizioni della Costituzione, da leggersi in combinato disposto, l’art. 9 e l’art. 32.
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha accolto l’istanza incidentale di sospensione degli effetti della sentenza impugnata, presentata contestualmente al ricorso “considerata la complessità giuridica della controversia e i contrastanti precedenti giurisprudenziali in materia che presuppongono un approfondito esame in sede di merito” e con successiva ordinanza n. 5454 del 15/9/2020 rimette la questione all’Adunanza Plenaria.
La normativa di riferimento
Il tema centrale della controversia è costituito dall’applicabilità o meno nei confronti del curatore fallimentare degli obblighi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, il quale dispone:
“L’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
È altresì vietata l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
Fatta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.
Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.
Il principio europeo del chi inquina paga
La normativa sopra citata esplicita il principio di matrice europea del “chi inquina paga”, secondo il quale il soggetto la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno è considerato finanziariamente responsabile. In tema di abbandono di rifiuti, risponde ‘chiunque’ abbia effettuato l’abbandono, il ‘deposito incontrollato’ o ‘l’immissione dei rifiuti’. Il principio del chi inquina paga traduce, pertanto, in costi l’utilizzo delle risorse naturali, pone come scopo quello di disincentivare lo svolgimento di attività ed i comportamenti dannosi per l’ambiente in un’ottica non solo ripristinatoria ma attraverso una incidenza anche preventiva.
Il principio europeo del “chi inquina paga” è contenuto nella direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza n. 5454 del 15/9/2020, sussistendo due contrapposti orientamenti, rimette, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a all’Adunanza Plenaria, per formulare il principio di diritto, al fine di dirimere i contrasti.
In particolare, risulta controverso se il curatore fallimentare, nel caso in cui la società proprietaria dell’area sia stata dichiarata fallita, possa essere destinatario degli obblighi di cui al citato art. 192. Sul tema sussistono, infatti, due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.
Una prima tesi evidenzia che il curatore fallimentare, con riferimento ai beni del soggetto fallito, non può essere destinatario del provvedimento che impone la rimozione dei rifiuti.
Affinché il curatore possa essere considerato onerato sarebbe infatti necessario che l’Amministrazione riscontri la sussistenza di una responsabilità univoca e autonoma del suddetto organo fallimentare nell’illecito abbandono. Questa interpretazione muove dalla circostanza che il curatore non può essere considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3274/2014). In definitiva, nei confronti del fallimento non sarebbe ravvisabile un fenomeno di ‘successione’, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo previsto dall’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone ‘in prima battuta’ a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.
Secondo altro orientamento, invece, la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, comporta la sua possibile legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
Secondo la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, risulta condivisibile tale seconda impostazione, poichè la responsabilità alla rimozione, non potendo essere riferita all’impresa in quanto non più in attività, potrebbe essere solo imputabile al detentore, comunque denominato. L’unica interpretazione compatibile con il sistema delineato dal decreto legislativo n. 152 del 2006 e con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, sarebbe quella che consenta all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei detentori o dei gestori dei rifiuti prodotti dall’impresa cessata.
Tale interpretazione si fonda sulle disposizioni dello stesso decreto legislativo n. 152 del 2006. Al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti si riconnette poi l’obbligo di rimozione, avvio al recupero o smaltimento e al ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e al proprietario. La detenzione dei rifiuti fa quindi sorgere automaticamente un’obbligazione avente un duplice contenuto: il divieto di abbandonare i rifiuti e l’obbligo di smaltire gli stessi. Se dunque per effetto di categorie giuridiche interne questa obbligazione non fosse eseguibile, l’effetto utile delle norme comunitarie sarebbe vanificato (cfr. CGUE, sez. IV, n. 113/2012).
Pertanto, la figura del detentore dei rifiuti avrebbe rilievo anche con riferimento al curatore, a prescindere dalla configurabilità o meno di un fenomeno giuridico di tipo successorio tra società fallita e curatela (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3672/2017).
In altre parole, l’attuazione di misure volte a mettere in sicurezza il sito potrebbe essere imposta alle curatele fallimentari, poiché la curatela – pur se non è chiamata a succedere in obblighi o responsabilità del fallito – è tuttavia tenuta all’adempimento degli obblighi di custodia, manutenzione e messa in sicurezza correlati alla sua situazione di attuale possessore o detentore del bene (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 1961/2020).
Inoltre, lo stesso art. 192 può essere inteso come ‘norma di chiusura’ in materia di rifiuti, nella parte in cui disciplina gli interventi in caso di abbandono e deposito incontrollato, imputabile a soggetti diversi da chi i rifiuti li produce o li gestisce, e prevede il potere tipizzato del sindaco di imporre le operazioni necessarie e l’esecuzione in danno dei soggetti obbligati, con recupero delle somme anticipate.
I principi europei a tutela dell’ambiente
I principi generali in materia di tutela dell’ambiente hanno derivazione europea.
I tradizionali principi di sussidiarietà adeguatezza e differenziazione dell’azione amministrativa assumono particolare rilevanza in materia di tutela dell’ambiente nel riparto delle competenze tra Stati Membri e Unione Europea.
I principi di integrazione e sviluppo sostenibile comportano che la tutela dell’ambiente non possa essere qualcosa di marginale ma debba essere integrata in ogni azione amministrativa. La tutela dell’ambiente deve essere presa in carico in ogni contesto e di conseguenza non vi può essere alcuna forma di sviluppo se non sostenibile.
La disciplina nazionale prevede il principio dello sviluppo sostenibile all’art. 3 quater del Codice dell’Ambiente e lo declina prevedendo che “ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del Codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future. Anche l’attività della Pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinchè nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane.
Il principio di cooperazione impone agli Stati e alle Pubbliche Amministrazioni di scambiarsi reciprocamente le informazioni in materia, questo al fine di rendere maggiormente incidente e condivisa la tutela dell’ambiente.
Il principio di prevenzione comporta che si debba intervenire prima del danno attraverso azioni preventive. Il principio di precauzione, invece porta all’adozione di misure di tutela ancor prima che vi sia la certezza sulla nocività di un fenomeno per l’ambiente.
Il principio del chi inquina paga traduce in costi l’utilizzo delle risorse naturali. Tale principio si pone come scopo quello di disincentivare lo svolgimento di attività ed i comportamenti dannosi per l’ambiente in un’ottica non solo sanzionatoria ma attraverso una incidenza preventiva.
Secondo la Corte costituzionale del 31 dicembre 1987, n. 641 l’ambiente “si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo”.
Infine, il principio dell’elevato livello di tutela comporta che nel bilanciamento tra gli interessi ambientali e gli altri interessi deve sempre essere riservata una posizione elevata alla tutela dell’ambiente.
L’Adunanza Plenaria si pronuncia sulla possibilità di ordinare la bonifica del sito inquinato a carico di società non responsabile
L’Adunanza Plenaria con sentenza n.10 del 22 ottobre 2019 affronta istituti seppur diversi, per certi aspetti affini alla questione oggetto dell’ordinanza in commento, affermando la possibilità di ordinare la bonifica di un sito inquinato a carico di società non responsabile in relazione a condotte realizzate prima dell’entrata in vigore della disciplina della bonifica. Il Consiglio di Stato affronta la questione riguardante i rapporti tra l’illecito e la bonifica risolvendo il quesito sulla possibilità di ordinare la bonifica per fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore. Il Consiglio di stato, Adunanza Plenaria sentenza n. 10 del 22 ottobre 2019 afferma il seguente principio di diritto “la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, in base alla disciplina previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”.
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