(Riferimenti normativi: Cod. pen., art. 378, 416-bis)
Il fatto
Il Tribunale di Reggio Calabria, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., aveva confermato l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari della medesima città aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere a carico di una persona ritenuta gravemente indiziata del reato di associazione mafiosa.
Secondo la ricostruzione contenuta nell’ordinanza impugnata, il ristretto aveva stabilmente fatto parte, con condotta ancora in atto, della struttura organizzativa dell’associazione di tipo mafioso, contestata al capo A) della rubrica provvisoria, denominata ‘ndrangheta, costituita da numerosi gruppi chiamati “locali“, articolata in tre mandamenti, con organo di vertice collegiale denominato Provincia.
Più nello specifico, costui era ritenuto inserito nell’articolazione territoriale denominata cosca L. (“…”), in prevalenza operante nel quartiere “G.” del comune di Reggio Calabria e nelle aree limitrofe avvalendosi della forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà per commettere tra l’altro una serie indeterminata di delitti, acquisire la gestione ed il controllo di attività economiche, realizzare vantaggi ingiusti per i sodali, i concorrenti esterni e le altre persone contigue al sodalizio.
Secondo la prospettazione accusatoria, questi, quale associato, oltre ad essersi occupato di fornire in via continuativa assistenza logistica al capo indiscusso del sodalizio, durante un lungo periodo di latitanza (mettendogli a disposizione un appartamento ed il ciclomotore per gli spostamenti ed assicurandogli il reperimento dei beni di prima necessità), aveva, sia durante detto periodo che successivamente, fatto da tramite tra gli associati ed i titolari di aziende di interesse per la cosca ed aveva detenuto la contabilità occulta delle anzidette aziende, veicolandola a L. P. e tenendo informato quest’ultimo delle problematiche gestionali.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato l’indagato, per mezzo del difensore di fiducia, proponeva ricorso per cassazione chiedendone l’annullamento: in via principale, perché affetto da violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 416 bis cod. pen., 125, 192, comma 2 e 273 cod. proc. pen.; in via di subordine, per violazione degli artt. 416-bis e 378 cod. pen. in relazione all’omessa riqualificazione del contestato reato associativo in quello di favoreggiamento personale.
Secondo il ricorrente, l’ordinanza impugnata, discostandosi dai pacifici principi giurisprudenziali in tema di accertamento del reato di associazione mafiosa, aveva reso una motivazione priva di adeguate risposte ai numerosi rilievi difensivi a cominciare da quello avente ad oggetto l’erronea qualificazione della condotta come contributo partecipativo rilevante ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen. nonostante si fosse sviluppata attraverso attività riconducibili, sul piano oggettivo nell’alveo della fattispecie prevista dall’art. 378 cod. pen. nonché aveva erroneamente considerato sufficiente per ascrivere al ricorrente il reato associativo la conoscenza del ruolo di latitante di L. P. senza però spiegare quale sarebbe stato il suo contributo, necessariamente attivo e funzionale, agli interessi del gruppo e senza chiarire se egli avesse avuto la consapevolezza e la volontà di essere un partecipe e quindi di prestare un contributo operativo utile quanto meno a rafforzare il vincolo sociale e dunque non era stato ragionevolmente escluso se l’odierno ricorrente si fosse limitato ad offrire la sua disponibilità nei confronti di singoli associati, nella specie L. P., a servizio di interessi particolari di quest’ultimo e non dell’intero sodalizio.
Il materiale probatorio, ad avviso del ricorrente, quindi, non assurgeva alla dignità di gravità indiziaria neanche valorizzando la documentazione rinvenuta presso l’abitazione dell’indagato; essa, come riconosciuto dal Tribunale, difatti, aveva un contenuto perfettamente compatibile sia con l’attività di macellaio, da sempre svolta dall’indagato, sia con quella di titolare dell’impresa, svolta dal suo datore di lavoro, F. G. e ciò era tanto vero che il ricorrente aveva continuato a discutere con il F. delle medesime circostanze contenute nei manoscritti anche dopo l’arresto del L..
Per la difesa, infine, non era possibile interpretare, così come fatto dai giudici del riesame, le preoccupazioni esternate da L. A. nella conversazione del 23 ottobre 2013 sulla delicatezza della documentazione sequestrata in occasione dell’arresto di L. P. e del M. come relative ai manoscritti rinvenuti presso la casa di quest’ultimo; infatti, mentre gli interlocutori di tale conversazione facevano riferimento ad un agendina senza nomi e cognomi e a conteggi attinenti al settore dell’edilizia, i manoscritti nella disponibilità del ricorrente non contenevano dati anonimi ma i nominativi delle imprese operanti nel settore delle carni.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
L’unico motivo di ricorso veniva stimato infondato sicché il ricorso veniva rigettato.
Si osservava a tal proposito che, secondo l’insegnamento ricavabile da una pacifica linea interpretativa al riguardo dettata dalla Suprema Corte (Sez. Un., n. 33748 del 12/07/2005; Sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007), la condotta di partecipazione mafiosa è riferibile solo a colui che si trovi in rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, sì da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi così come è altresì noto che, sul piano probatorio, la partecipazione ad una associazione di tipo mafioso può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza del soggetto al sodalizio purché si tratti di indizi gravi e precisi, come, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova“, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore“, la commissione di delitti scopo, oltre a molteplici e significativi facta concludentia idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico lasso temporale considerato dall’imputazione (Sez. 1, n. 1470 del 11/12/2007) fermo restando che la messa a disposizione dell’organizzazione criminale, rilevante ai fini della prova dell’adesione, non può risolversi nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti di singoli associati, quand’anche di livello apicale, al servizio di loro interessi particolari ma deve essere incondizionatamente rivolta al sodalizio, ed essere di natura ed ampiezza tali da dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio (Sez. 1, n. 26331 del 07/06/2011).
Sotto tale profilo, veniva poi ribadito che il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività dell’associazione o a perseguirne i partecipi mentre, nel secondo, egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa (Sez. 1, n. 43249 del 13/04/2018).
Orbene, una volta terminato di illustrare questi approdi interpretativi, gli Ermellini osservavano come l’ordinanza impugnata avesse fatto a loro avviso buon governo degli esposti principi sia nel sussumere la condotta dell’indagato, come ricostruita sulla base della piattaforma gravemente indiziaria acquista, nella fattispecie di partecipazione ad associazione mafiosa sia, per converso, nell’escludere la sua qualificazione come favoreggiamento personale.
Nel percorso argomentativo del giudice del riesame, all’indagato era stata infatti attribuita la posizione di elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso e non di mero autore di aiuti episodici al capo del sodalizio valorizzando il tipo di attività che lo stesso aveva, con il necessario livello di consapevolezza, nel corso di un periodo di tempo prolungato svolto con effetti favorevoli per l’intero sodalizio e non solo per il capo riconosciuto, L. P. posto che il ricorrente, anche quando aveva agevolato, tra l’aprile del 2011 ed il luglio del 2013, la latitanza del L., mettendogli a disposizione il suo appartamento che veniva utilizzato come covo ed uno scooter e procurandogli i beni di prima necessità, non aveva solo evitato la cattura del soggetto posto al vertice del gruppo, ma gli aveva consentito di rimanere nel quartiere controllato dalla cosca e di continuare ad esercitare il suo ruolo carismatico nei confronti degli associati e, più in generale, nei confronti dell’intera comunità con conseguente rafforzamento della forza di intimidazione derivante dal vincolo sociale.
L’indagato, inoltre,, come attestato dalle risultanze del servizio di captazione e dalla documentazione rinvenuta nella sua disponibilità aveva operato come “referente del capo in attività commerciali soggette al controllo della cosca fungendo da trait d’union tra il boss e gli imprenditori collusi” e, operando in tal guisa, costui aveva instaurato un rapporto fiduciario con l’intera cosca al punto da essere utilizzato, nella qualità apparente di dipendente, nelle attività commerciali gestite direttamente ed indirettamente dal gruppo, anche attraverso i singoli associati.
La circostanza che il ricorrente aveva mantenuto tale specifico ruolo anche dopo che la cessazione della latitanza del L. evidenziava quindi per la Suprema Corte, contrariamente a quanto osservato dalla difesa, che l’adempimento dei compiti assegnatigli era stato funzionale al perseguimento dei fini dell’intera organizzazione e dunque, solo in un’ottica di effettiva e continuativa compenetrazione dell’indagato nell’organizzazione del sodalizio, si comprendeva perché il suo apparente datore di lavoro, F. G., dapprima l’aveva utilizzato per far pervenire al L. il rendiconto scritto dei risultati economici conseguiti dalla impresa di cui, evidentemente, era amministratore solo formale nell’interesse del gruppo diretto dal L. con l’invito a non lamentarsi dei modesti guadagni e, dopo la cessazione della latitanza del capo, si era continuato a confrontare sulla medesima problematica direttamente con lui.
Del resto, osservavano i giudici di piazza Cavour, il ricorrente, da parte sua, pur continuando a svolgere sulla carta le mansioni esecutive di un lavoratore subordinato, non solo, era autorizzato a chiedere al suo interlocutore tutti i dettagli, anche più riservati, dopo avergli espresso perplessità sull’andamento negativo dell’attività imprenditoriale, ma poteva addirittura esigere la corresponsione di somme di denaro quale anticipo sugli utili.
Non era illogica, infine, ad avviso della Suprema Corte, l’interpretazione della conversazione in cui L. A. esprimeva la forte preoccupazione che gli investigatori potevano far luce sugli interessi economici della cosca consultando la documentazione ritrovata in occasione dell’arresto del fratello P..
Il riferimento, a prescindere dalle imprecisioni e dalle indicazioni generiche, per il Supremo Consesso, ben poteva avere ad oggetto i manoscritti rinvenuti nell’appartamento di cui l’indagato era proprietario in occasione della cattura di L. P.
Conclusioni
La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui si spiega in cosa consiste la condotta di partecipazione mafiosa e cosa la distingue dal favoreggiamento personale.
Difatti, richiamandosi giurisprudenza conforme, viene postulato in tale pronuncia che la condotta di partecipazione mafiosa è riferibile solo a colui che si trovi in rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, sì da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi fermo restando che: a) sul piano probatorio, la partecipazione ad una associazione di tipo mafioso può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza del soggetto al sodalizio purché si tratti di indizi gravi e precisi, come, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova“, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore“, la commissione di delitti scopo, oltre a molteplici e significativi facta concludentia idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico lasso temporale considerato dall’imputazione; b) la messa a disposizione dell’organizzazione criminale, rilevante ai fini della prova dell’adesione, non può risolversi nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti di singoli associati, quand’anche di livello apicale, al servizio di loro interessi particolari ma deve essere incondizionatamente rivolta al sodalizio, ed essere di natura ed ampiezza tali da dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio; c) il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività dell’associazione o a perseguirne i partecipi mentre, nel secondo, egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tutte queste tematiche giuridiche, dunque, non può che essere positivo.
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